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Una rivoluzione silenziosa?

In questo contesto, mi accosterò al movimento dell’ontological turn nella misura in cui esso elabora una serie di strategie per la ricerca sul campo che consentono all’antropologo di sviluppare una certa sensibilità nei confronti delle sfumature ontologiche dei luoghi indagati. Sebbene, inizialmente, la svolta ontologica sia stata percepita come una sorta di

«rivoluzione silenziosa» in antropologia1, oggi diversi autori ne sottolineano, invece, i motivi

di continuità con la tradizione, soprattutto sul piano metodologico ed etnografico, rintracciandone le radici storiche nei lavori di Roy Wagner, di Marilyn Strathern e di Eduardo

Viveiros de Castro2 – quest’ultimo, considerato all’unanimità il padre della svolta ontologica.

È inoltre emersa, negli ultimi anni, l’esigenza di una presa di distanza dall’ampio insieme di approcci ontologici che sono spuntati di recente nelle scienze sociali e in filosofia e di una definizione più ristretta ed esclusiva: ad esempio, Holbraad e Pedersen (2017), a cui farò ampio riferimento per quel che riguarda la sezione strettamente metodologica, distinguono il

“loro” ontological turn dagli other ontological turns3, avvenuti in antropologia e in filosofia,

escludendo da questo movimento autori che, a detta di molti (compresi Holbraad e Pedersen), vi hanno ampiamente contributo, come Bruno Latour e Philippe Descola che con il loro lavoro decostruttivo hanno preparato il terreno per la svolta. In quel che segue cercherò di                                                                                                                

1 Cfr. Henare et al. 2007. 2 Cfr. Holbraad e Pedersen 2017.

3 Cfr. Holbraad e Pedersen 2017, cap. 1; gli other ontological turns da cui intendono differenziarsi gli autori sono il realismo filosofico e gli studi in Scienze, Tecnologia e Società, rappresentati anche da Bruno Latour, in ambito filosofico; la stratificazione del reale da parte delle deep ontologies (tra cui Descola) e gli esponenti delle alternative ontologies (tra cui Ingold e Kohn), in ambito antropologico.

restituire sia la percezione di una discontinuità con il passato dell’antropologia, sia il desiderio di una continuità con la tradizione etnografica: è, infatti, innegabile che l’ontological turn avviene a seguito di un prorompente impulso critico nei confronti dell’ossessione epistemologica dell’antropologia, seppur da una diversa angolatura esso possa apparire come un movimento riflessivo di graduale presa di coscienza di nei confronti di attualità e potenzialità già presenti nella storia dell’antropologia e nella pratica etnografica, una sorta di ripensamento critico della propria storia.

La discontinuità introdotta dall’ontological turn consiste in uno slittamento degli interrogativi attorno a cui ruota la ricerca dal piano epistemologico al piano ontologico come

avviene, ad esempio, nel prospettivismo di Viveiros de Castro1 : gli antropologi

dell’ontological turn non studiano le credenze dei loro nativi, ma la dimensione filosofico- concettuale dei loro mondi, del loro sapere; non cercano di spiegare le bizzarre entità con cui convivono i popoli studiati, ma di descrivere quanto incontrato nel campo, senza sopprimerlo in un verdetto di inesistenza; non entrano nel campo armati di un armamentario concettuale immodificabile, ma utilizzano consapevolmente l’esperienza di campo come occasione per ridefinire i propri concetti. Gli esponenti dell’ontological turn riconoscono così il profondo debito concettuale che l’antropologia ha nei confronti dei suoi nativi. La tessitura di una continuità riguarda invece il desiderio di potenziare le strategie metodologiche che l’antropologia ha affinato durante la sua evoluzione come disciplina, portandole alle loro estreme conseguenze; quelle, appunto, ontologiche. Ad esempio, Holbraad e Pedersen, differenziando il “proprio” ontological turn in base a un criterio di tipo metodologico, esortano a fare un uso più intenso degli strumenti da sempre in uso in antropologia.

Occorre precisare fin da subito che, nella svolta ontologica, il termine “ontologico” non rimanda al progetto di rifondazione di una dottrina metafisica ma al progetto esattamente contrario: l’approccio ontologico riguarda la necessità di strumenti che consentano di «liberare il pensiero da ogni fondazionalismo metafisico – sia esso sostanziale, metodologico,

normativo o pluralistico»2.

La piega metodologica dell’ontological turn può quindi essere riassunta nello slogan di Holbraad e Pedersen: «porre questioni ontologiche senza prendere l’ontologia (e neppure le

ontologie) come risposta»3. Tale precetto interviene, appunto, per impedire che la svolta

ontologica sfoci in un’impresa di tipo metafisico, nel tentativo di rifondare una dottrina sulla                                                                                                                

1 Cfr. per questa tematica in particolare (lo slittamento dal piano epistemologico al piano ontologico) Viveiros de Castro 1998b; cfr. anche Henare et al. 2007.

2 Holbraad e Pedersen 2017, p. 68. 3 Ibid., p. xi.

realtà ultima (o sulle realtà ultime). Quello che invece importa, sotto il profilo metodologico, è proprio evitare che una dottrina sul reale intervenga aprioristicamente per dirci cosa possiamo trovare nel campo etnografico – o peggio, per assicurarci (e rassicurarci) che quanto vi abbiamo incontrato, “in realtà” non esiste. Nelle parole degli autori:

Lungi dallo stabilire e quindi dal limitare l’orizzonte dell’indagine antropologica nel nome di una realtà ultima o di un’essenza che possa fondarla (ad es. fornendo un’“ontologia” in senso sostantivale), l’ontological turn è l’imperativo metodologico a mantenere quest’orizzonte perpetuamente aperto1.

Mantenere aperto l’orizzonte ontologico non equivale a impegnarsi ontologicamente nei confronti delle entità che abitano il campo etnografico e che potrebbero essere ritenute da noi inesistenti (ontologia come risposta), bensì significa non precludersi la possibilità di vedere e descrivere etnograficamente quello che c’è nel campo (ontologia come domanda sempre aperta). Da ciò consegue che, laddove si verifichi uno scarto o un’incongruenza tra la dotazione concettuale dell’antropologo e le cose che sembrano esserci nel campo, non sono queste ultime a dover essere “violentate” affinché entrino nei concetti dell’antropologo, ma sono semmai i suoi concetti a dover essere modificati, per descrivere adeguatamente quanto incontrato nel campo. In tal senso, il significato della svolta ontologica non è affatto metafisico, ma metodologico: serve a non chiudere l’orizzonte, rimanendo incastrati nella trappola metodologica sussunta in quella che Holbraad, studiando le divinazioni ifá a Cuba,

chiama «l’eterna questione: sì, ma tu ci credi agli oracoli?»2.

Cercando dunque di restituire la percezione duplice e paradossale di una rottura onto- epistemologica col passato dell’antropologia (ontological turn come rivoluzione silenziosa) e di una continuità metodologica con la tradizione etnografica (dall’etnografia all’ontografia) comincerò con l’esplorare la differenza tra un approccio epistemologico e un approccio ontologico in antropologia; in seguito, descriverò nel dettaglio i procedimenti metodologici codificati dall’ontological turn.

                                                                                                                1 Ibid., p. ix-x

Dall’ansia epistemologica…

In occasione della conferenza decennale presso l’Association of Social

Anthropologists of Great Britain and Commonwealth, tenutasi a Manchester il 14 luglio del

2003, l’antropologo Eduardo Viveiros de Castro, invitato a tenere un after-dinner speech attorno al tema “Antropologia e scienza”, profila la scelta tra due possibili declinazioni dell’antropologia: l’antropologia come «scienza della non-scienza» e l’antropologia come

«scienza dell’auto-determinazione ontologica delle persone»1. In questa distinzione, in cui è

racchiusa una differenza fondamentale nell’atteggiamento con cui l’antropologo entra nel campo etnografico, è indicato il punto di svolta tra un’antropologia votata a un’impresa di tipo epistemologico e un’antropologia ontologicamente orientata.

Immagino che tutti qui ricorderanno le celebri ultime parole di Primitive culture, dove la nostra scienza è proclamata una scienza da riformatori, un’impresa alla Ghostbusters impegnata a rintracciare ed eliminare ogni superstizione. Più tardi abbiamo imparato a funzionalizzare e a razionalizzare la superstizione, argomentando che fosse soltanto un’inconsapevole sociologia metaforica o un pennacchio evolutivo indotto dalla configurazione cognitiva della specie umana. Sia come sia, il fatto che, ufficialmente o ufficiosamente, abbiamo sempre definito l’antropologia come la scienza della non-scienza impregna di una speciale malizia riflessiva il recente interesse per l’antropologia della scienza. Il disagio provocato dall’idea di una descrizione antropologica dell’attività scientifica […] indica che siamo visti […] come una razza maledetta di anti-Mida, capaci di trasformare tutto quel che tocchiamo in errore, ideologia, mito e illusione. Così il pericolo incombe quando la scienza del riformatore gira il suo sguardo sulla scienza in generale: quest’ultima sembra destinata a essere denunciata come nient’altro che un ulteriore genere di superstizione. Questo è il modo in cui sono esplose le cosiddette Guerre di Scienza, o Guerre di Cultura, nelle quali gli antropologi compaiono tra i primi sospettati […] accusati di possedere armi di distruzione di massa. O per meglio dire, di decostruzione di massa2.

Che sia coinvolta in un contesto esotico o impegnata in un contesto moderno, l’antropologia come scienza della non-scienza pone questioni di tipo epistemologico sulla verità o falsità delle credenze native, contrapposte alle conoscenze dell’antropologo; che il nativo sia un selvaggio o meno, l’antropologo “anti-Mida” è comunque abitato dall’«ansia

                                                                                                                1 Cfr. Viveiros de Castro 2003. 2 Viveiros de Castro 2003, p. 185.

epistemologica»1 di dover spiegare quanto va incontrando nei suoi campi etnografici, razionalizzando le credenze dei nativi o smascherando le ideologie degli scienziati.

In un altro intervento2 Viveiros de Castro ripercorre in modo volutamente caricaturale

le forme che l’ansia epistemologica ha assunto nella storia dell’antropologia, evidenziando la risonante analogia tra l’antropologo positivista che naturalizza i nativi e l’antropologo

costruttivista che sociologizza gli scienziati. Nella sua prima fase evoluzionista

l’antropologia, armata di un’ideale positivista del sapere, si arrovellava infatti a spiegare gli errori dei “primitivi”, chiedendosi perché mescolassero così sconsideratamente fatti di natura con retaggi di cultura, perché credessero in certi mostri immaginari e come fossero sopravvissuti a una natura crudele, imparziale e indifferente al destino umano, prigionieri delle loro stesse illusioni. Nella successiva fase classica, questa volta pervasa dal più sincero esotismo, ma ossessionata dalla medesima angoscia epistemologica, l’antropologia ha cercato invece di spiegare perché noi, gli occidentali – sbagliando a nostra volta – avessimo cominciato a «postulare sostanze, individui, separazioni e opposizioni laddove tutte le altre

società/culture vedevano rettamente totalità, connessioni e incorporazioni»3, ricercando in

quale punto della nostra storia qualcosa fosse andato storto (nella Grecia Antica?, col Cristianesimo?, durante l’Illuminismo?). Antropologicamente anomalo e ontologicamente in errore, era ora l’Occidente, questa volta, a richiedere spiegazione. Oggi, infine, demolita l’opposizione tra “l’Occidente e il rimanente” [the West and the Rest] e appurato che, in fondo, non siamo poi così diversi, l’antropologia pare ancora satura dell’ansia di dover spiegare e ancora si chiede, imperterrita: «e quindi, chi sta sbagliando?, cosa necessita di una

spiegazione? (qualcuno deve essere in torto, qualcosa ha bisogno di esse spiegato)»4, facendo

a questo punto nascere il sospetto che, forse, l’unica a essersi sbagliata in tutto questo sia stata proprio l’antropologia! Chiaramente, la narrazione caricaturale di Viveiros de Castro non intende esaurire la storia dell’antropologia in una specie di barzelletta, ma rintracciare una linea di sviluppo interno che si è caratterizzata per la propensione strutturare la ricerca attorno a questioni epistemologiche; nel tentativo di (ri)scrivere la propria storia, il filone ontologico sta oggi dissotterrando e rivalutando tutti quegli autori che, già in tempi al di sopra di ogni sospetto, si svincolavano da questa propensione.

Andando quindi oltre la scherzosa ricostruzione, si può sottolineare come, lungo questa linea genealogica, l’antropologia sia sempre stata «iper-ossessionata dalla “Scienza”»,                                                                                                                

1 Viveiros de Castro 1998b, 152.

2 Cfr. Vivieros de Castro 1998b, pp. 60 e seg. 3 Ibid., p. 61.

sia in relazione a se stessa (sono o non sono una scienza?), sia, soprattutto, in relazione alle concezioni dei popoli che studia, tesa nell’eterno dilemma: «se squalificarle come errori, sogni, illusioni e poi spiegare scientificamente come e perché gli “altri” non riescano a produrre spiegazioni scientifiche (neanche di se stessi)», secondo l’atteggiamento della fase positivista della disciplina; «o se promuovere tali concezioni come più o meno omologhe alla scienza, frutti della stessa volontà-di-conoscenza che muove tutta l’umanità», tipica invece

della fase classica, esotista1. Viveiros de Castro va ancora più a fondo nella questione,

ravvisando in questo perenne oscillare tra i due poli della medesima questione (epistemologica) non una prerogativa dell’antropologia, ma il sintomo di una tendenza profondamente radicata del pensiero moderno.

La rottura di Cartesio con la Scolastica medioevale produce una drastica semplificazione della nostra ontologia, istituendo due soli principi o sostanze: la materia estesa e il pensiero inesteso. Questa semplificazione ce la portiamo ancora appresso. La modernità comincia così: con la conversione di massa dei problemi ontologici in questioni epistemologiche – ossia in controversie sulle rappresentazioni – una conversione scatenata dal fatto che qualsiasi modo di esistenza non assimilabile all’ostinata materia dovesse essere fagocitato dal “pensiero”. La semplificazione dell’ontologia, di conseguenza, conduce a un’enorme complicazione dell’epistemologia […] E, chiaramente, l’antropologia è una disciplina afflitta da ansia epistemologica fin dal principio. La più kantiana tra le discipline, l’antropologia sembra credere che il suo compito principale sia spiegare come sia pervenuta a conoscere (a rappresentarsi) il proprio oggetto – un oggetto a sua volta definito come conoscenza (o rappresentazione)2.

Come emerge dalla citazione, il centro nevralgico della declinazione epistemologica dell’antropologia risiede nel concetto di rappresentazione, intesa come concezione soggettiva e parziale del reale, come visione del mondo, come percezione culturale di una medesima realtà esteriore indifferente e non modificabile dalle idee che la ritraggono. Posti questi termini, il problema non poteva che essere quello di andare a vedere se, e quanto, queste rappresentazioni fossero vere, adeguate al reale. Il potere dell’ontologia dualista che ereditiamo da Cartesio sta dunque in questo: che in ogni scarto ontologico, in ogni incommensurabilità tra mondi, essa non ci fa vedere nient’altro che una differenza tra

rappresentazioni3. Come sottolinea però Tim Ingold: quando opponiamo tra loro due

                                                                                                                1 Viveiros de Castro 2003, p. 197. 2 Viveiros de Castro 1998b, pp. 152-153. 3 Cfr. Henare et al. 2007.

rappresentazioni culturali – poniamo, quella occidentale e quella di una popolazione aborigena di cacciatori-raccoglitori – il contrasto, in realtà

non è tra visioni del mondo alternative; piuttosto, è tra due modi di apprenderlo, di cui soltanto uno (quello occidentale) può essere caratterizzato come costruzione di una visione, cioè come processo di rappresentazione mentale1.

I cacciatori-raccoglitori non concettualizzano il loro rapporto al mondo nei termini di una “visione del mondo”– e non perché manchino di spiccate qualità riflessive, ma

semplicemente perché fanno altrimenti2.

Roy Wagner ci accompagna in un ragionamento ancor più radicale, criticando la concezione sostanzialista della “cultura”, intesa come quella cosa che l’antropologo si appresta a descrivere dopo averla oggettivata come realtà esteriore, grazie anche allo shock culturale che ne rende evidenti i confini: «la cultura è resa visibile dallo shock culturale, dal fatto di sottoporsi al di là della normale competenza interpersonale di un individuo e di

oggettivare come entità tale discrepanza»3. Ma, continua Wagner, se la cultura fosse una cosa

assoluta, oggettiva e naturale, allora chiunque la imparerebbe allo stesso modo, mentre è indubbio che l’antropologo apprende questa nuova cultura in modo diverso da come farebbe un bambino, avendo egli già interiorizzato la propria. L’antropologo, dunque, non solo inventa la cultura delle persone che studia, ma nell’inventare la loro cultura inventa anche la propria e inventa anche il concetto stesso di “cultura”

Potremmo dire che prima di allora egli non aveva cultura, poiché la cultura nella quale un individuo cresce non è mai “visibile” – è data per scontata e i suoi assunti sono sentiti come ovvi […] ed è solo attraverso l’esperienza del confronto che la propria cultura diviene “visibile”. Nell’atto di

                                                                                                                1 Ingold 1996, p. 94.

2 Ingold definisce il modo in cui i cacciatori-raccoglitori si rapportano al loro ambiente di vita come un’ontologia dell’abitare. Cfr. Ingold 1996, p. 93: «nelle pagine che seguono argomenterò che i cacciatori- raccoglitori, di regola, non si riferiscono al loro ambiente come a un mondo di natura esterno, che deve essere concettualmente e simbolicamente agguantato»; e p. 90: «perché il mondo può essere “natura” solo per un vivente che non lo abita». Nella prima parte di questo articolo Ingold distingue, criticando il dualismo natura e cultura, una duplicità del concetto di natura, che si scinde in una natura (realmente) naturale e in una “natura (culturalmente percepita)”; allo stesso modo, in un saggio del 1919-1920 intitolato Il concetto della natura, Whitehead, criticando la distinzione gnoseologica tra le qualità primarie, oggettive, causali e misurabili, e le qualità secondarie, soggettive e apparenti denunciava la duplicità del concetto di natura, scisso in una natura causale e in una natura apparente: «Così vi sarebbero due nature: la prima delle quali sarebbe un’ipotesi, la seconda un sogno» (Whitehead 1919-1920).

inventare un’altra cultura, l’antropologo inventa la propria, e di fatto inventa di nuovo la nozione stessa di cultura1.

La cultura come invenzione, bisogna precisarlo, non consiste nell’effetto di una fabulazione da parte dell’antropologo, non è un prodotto di fantasia: la cultura-inventata è semmai il prodotto tecnico di un’invenzione riuscita, tant’è che ha garantito a lungo un punto di appoggio stabile per il lavoro dell’antropologo.

L’antropologia è lo studio dell’uomo “come se” vi fosse la cultura. È stata creata dall’invenzione della cultura, sia in senso generale, come concetto, sia in senso specifico, attraverso l’invenzione di particolari culture. Poiché l’antropologia esiste grazie all’idea di cultura […] è superfluo chiedersi se le culture esistono. Esse esistono per il fatto di essere inventate e perché questa invenzione è efficace2.

Così come l’antropologia ha moltiplicato le culture, ci si potrebbe aspettare che gli autori della svolta ontologica moltiplichino, a loro volta, le ontologie – rischiando in questo

modo di fare del termine “ontologia” la traduzione post-moderna del termine “cultura”3.

Come leggere, infatti, la vertiginosa diffusione che la parola “ontologia” ha avuto di recente in ambito antropologico e filosofico? Che essa sia, a sua volta, segno di un disagio generalizzato, il «sintomo della nostra crescente insoddisfazione per l’inflessibile ispirazione

kantiana della nostra disciplina» (ossia per la sua vocazione epistemologica)?4 Sebbene

Holbraad e Pedersen rimarchino più volte il fatto che il significato profondo della svolta ontologica è metodologico (mantenere aperto l’orizzonte ontologico per non imporre a priori risposte definitive) e non metafisico (impegnarci ontologicamente nei confronti dei mondi altrui o pervenire a una dottrina sul reale capace di rifondare tutto) questo snodo – virare all’ontologia, senza far proliferare le ontologie – costituisce il cuore problematico e forse ancora irrisolto dell’ontological turn contemporaneo.

Il che ci porta alla seconda declinazione dell’antropologia, come risposta salutare a questo disagio. Declinazione che risuona del risvolto politico del movimento, che rischia di                                                                                                                

1 Ibid., p. 18.

2 Ibid., p. 25. Nella concezione di Wagner la cultura smette di essere la “camicia di forza” dell’individuo, per diventare uno strumento tecnico nelle mani dell’antropologo; per un’etnopsichiatria non culturalista, che evita di ingabbiare le persone nella cultura da cui provengono, liberandosi da una concezione essenzialista della cultura, una tale versione pragmatico-operativa del concetto di cultura potrebbe rivelarsi utile.

3 Cfr. Venkatesan S. et al., 2010. 4 Viveiros de Castro 2003, p. 198.

rimanere in ombra ponendo troppo peso sul metodo o sull’ontologia. Scrive Viveiros de Castro (2003: 187):

Secondo me, l’antropologia è coerentemente guidata da questo singolo valore cardinale: lavorare per creare le condizioni per l’auto-determinazione concettuale – e con ciò intendo: ontologica – delle persone.1

Il motivo autobiografico contenuto in questa citazione riguarda il ruolo che hanno avuto gli antropologi brasiliani all’inizio degli anni Settanta, quando le minoranze indigene del paese cominciavano a imporsi come agenti politici e gli antropologi si trovarono ad

accompagnare questo movimento «fornendogli una dimensione intellettuale radicale»2.

Sostenere le minoranze indigene nel processo della loro auto-determinazione concettuale altro non era che un momento propedeutico alla loro auto-determinazione politica.

È ovvio che non posso parlare a nome di tutta la mia generazione […] ma per molti di noi l’antropologia era, ed è ancora, l’opposto assoluto di una scienza da riformatori o di una polizia della Ragione. Era un scienza insurrezionale, sovversiva; più precisamente era lo strumento di una certa utopia rivoluzionaria che combatteva per l’autodeterminazione concettuale di tutte le minoranze del pianeta, una lotta che vedevamo come un indispensabile accompagnamento nella loro autodeterminazione politica. Nel caso degli antropologi brasiliani, tutto questo aveva un’urgenza particolare. All’inizio degli anni Settanta, le minoranze indigene del mio paese cominciavano ad affermarsi come agenti politici. Il nostro scopo come antropologi era di assistere questo processo fornendogli una dimensione intellettuale radicale […] per noi l’espressione le pensée sauvage non significava “la mente selvaggia”. Per noi significava pensiero ribelle, pensiero non sottomesso, pensiero selvatico. Pensiero contro lo Stato, se volete (in memoria di Pierre Clastres)3