• Non ci sono risultati.

L’antropologia medica

Capitolo 3. La costruzione del campo etnografico

Nessuno è nato antropologo e soprattutto, per curioso che possa sembrare, nessuno nasce nativo

Eduardo Viveiros de Castro

In questo capitolo comincerò a entrare nel vivo della parte etnografica della ricerca, accompagnando il lettore all’interno dei luoghi in cui ho operato e dispiegando la metodologia etnografica adottata sul campo, la quale attinge direttamente dal movimento della svolta ontologica avvenuto di recente in antropologia1. Data la relativa novità di questo approccio che, sebbene affondi le proprie radici genealogiche in alcuni lavori che hanno visto la luce tra gli anni Settanta e Ottanta2,

ha cominciato a prendere coscienza di sé solo negli ultimi vent’anni – e, a maggior ragione, della sua novità sul suolo italiano3 – ho sentito l’esigenza di dilungarmi nell’esposizione sia dello sfondo storico

ed epistemologico che ha portato alla svolta ontologica sia, a maggior ragione, delle metodologie codificate all’interno di questo movimento.

Nonostante nel presente scritto il materiale antropologico/etnografico sia ripartito ordinatamente nei vari capitoli4, non intendo celare in quest’ordine una non dichiarata divisione tra

prassi e teoria, avvallando l’idea che si dia una rigida divisione del lavoro tra il “cervello antropologico”, a cui spetterebbe il compito di rapportare, sistematizzare e interpretare i dati raccolti dal “braccio etnografico” – per usare un’immagine dal vago sapore (post)cartesiano. Il rapporto tra antropologia ed etnografia è, infatti, sempre esposto al rischio di costruirsi sul dislivello tra l’universale della teoria antropologica e il particolare della raccolta empirica etnografica, rendendo

                                                                                                               

1 Per un introduzione al movimento dell’ontological turn, cfr. Holbraad e Pedersen 2017 e la raccolta di saggi contenuta in Consigliere (ed.) 2014a e 2014b. Henare et al. 2007 costituisce un primo tentativo di tematizzare la svolta ontologica in antropologia, anche se nei dieci anni successivi la problematica è stata impostata più in chiave metodologica, che non “metafisica”, rinunciando a prendere l’ontologia come risposta, abbracciando ad esempio l’ontologia pluralista dei “mondi multupli”.

2 Ad oggi sono considerati quasi all’unanimità come capostipiti della svolta ontologica, Roy Wagner, Marilyn Strathern ed Eduardo Viveiros de Castro. Cfr. Wagner 1972, 1975, 1986; Strathern 1980, 1988, 1990, 1993; Viveiros de Castro 1998a, 2002, 2009.

3 Avvertendo una lacuna nella letteratura antropologica italiana, il gruppo di ricerca Mondi Multipli dell’Università degli Studi di Genova (di cui ho fatto parte fino al 2016) ha esplorato, selezionato, tradotto e pubblicato un insieme di saggi afferenti a questo movimento, e raccolti in Consigliere (ed.) 2014a e 2014b. 4 I capitoli uno e due sono dedicati alla declinazione di uno sguardo antropologico sulla tossicodipendenza, a partire dall’esplorazione della letteratura antropologica in materia di droghe, alcol e dipendenze e dalla definizione dell’orizzonte epistemologico dell’antropologia simmetrica; i capitoli cinque e sei sono invece dedicati agli affondi etnografici, rispettivamente in una Comunità Terapeutica e in un Ser.T.

quest’ultima completamente funzionale alla prima, come ciò che deve riempire di contenuti una struttura formale indiscutibile. Come scrive Ingold, imputando ai padri dell’antropologia sociale la riduzione dell’etnografia a un semplice mezzo per gli scopi dell’antropologia:

la loro concezione era, ed è, che l’etnografia è idiografica ed è destinata alla raccolta dei particolari empirici, e che l’antropologia è nomotetica ed è destinata alla generalizzazione comparata e alla ricerca di regolarità paragonabili a leggi nello svolgersi delle questioni tra esseri umani. L’idea è quella di svolgere prima la ricerca etnografica e poi – in uno stadio successivo – di tradurre questa ricerca in un caso per la comparazione, collocandolo a fianco di altri studi analoghi, nella speranza che possa emergere qualche generalizzazione sostenibile1.

Come se l’etnografia fornisse il materiale grezzo e all’antropologia spettasse il compito di dargli una forma. Di contro, uno dei principi fondamentali che mi hanno orientato nella ricerca sul campo riguarda proprio la consapevolezza dell’inalienabile localismo dei luoghi in cui ho transitato, e dunque la riluttanza a tradurli in “casi etnografici” che costituiscano la base per generalizzazioni (teoriche, antropologiche) azzardate. Nei campi, in quanto realtà locali, si incontrano semmai «residui

inclassificabili che riorganizzano idee e categorie preconcette mediante la giustapposizione di

differenti immagini e posizioni culturali»2, i quali possono quindi costituire, al contrario, la base per “de-generalizzazioni”. Come afferma Giovanni da Col, ideatore e Editor-in-Chief della rivista HAU.

Journal of Ethnographic Theory, la quale rivendica il contributo teorico dell’etnografia a scapito di

coloro che la riducono a una metodologia per la raccolta dati: «la teoria etnografica è nata come critica della conoscenza antropologica»3, ossia costituisce la controparte locale di acquisizioni teoriche che vorrebbero imporsi come universali, una base per de-generalizzare o per far degenerare eventuali eccessi di teoria. A partire dal riconoscimento del valore teorico dell’etnografia, segue quindi il rifiuto di ridurla a un metodo, a una prassi. Accostandomi in questo modo al movimento dell’ontological turn cercherò, nell’ultimo capitolo, di raccogliere e rielaborare l’intrinseco potenziale teorico scaturito direttamente dall’esperienza di campo.

Nel qualificare dunque l’etnografia come metodologia di raccolta dati si è perpetuata, nel tempo, la duplice identificazione tra teoria e antropologia, da un lato, e tra prassi ed etnografia, dall’altro; identificazione che rischia di rendere impercettibili i contenuti teorici dell’etnografia (oltre che il valore pragmatico dell’antropologia). In questo scritto, però, non vorrei perpetuare, a mia volta, l’idea che l’antropologia simmetrica costituisca il cuore teorico della presente ricerca, mentre l’etnografia ne esaurisca la parte pratica. Ricorrendo a un’espressione di Foucault già introdotta nel

                                                                                                               

1 Ingold 2017, p. 22. L’intera questione andrebbe a mio avviso rapportata alla veterana abitudine concettuale che, dai tempi di Aristotele, ci porta a una netta separazione tra prassi e teoria, tra contemplazione e azione, dicotomia che alcune istanzi dell’epistemologia (più o meno) contemporanea si sono preoccupate di criticare, cfr. ad es. Melandri 1968.

2 da Col e Graeber 2011, p. vii. 3 da Col 2017, p. 4.

primo capitolo, preferisco definire antropologia ed etnografia come pratiche discorsive per sottolineare che non stiamo parlando della contrapposizione tra una teorizzazione astratta e atemporale e una metodologia pragmatica per la ricerca, ma di pratiche calate in un contesto storico, in divenire, produttrici di un peculiare tipo di sapere e implicate in relazioni di potere. La differenza tra pratiche discorsive non si scandisce in base all’asse prassi/teoria, metodologia/elaborazione teorica, ma in relazione una serie di aspetti funzionali, quali le regole di formazioni degli oggetti, di posizioni per i soggetti, di mappe concettuali, strategie di fuga dalle aporie1. Con una certa approssimazione, e

mantenendo aperta la possibilità di contaminazioni, di continuità tra le pratiche, nella presente ricerca ho quindi destinato all’antropologia lo studio della tossicodipendenza inteso come fenomeno umano, inestricabilmente legato nelle sue modalità al contesto storico di appartenenza, e all’etnografia l’indagine locale di due “luoghi” deputati a rispondere alle problematiche – sociali, mediche e legali – connesse ai vissuti di tossicodipendenza. Le due pratiche discorsive si compenetrano, in questa ricerca, nella misura in cui, da un lato, la teoria antropologica che ho cercato di indossare ha attraversato con me i campi etnografici, entrando in dialogo e in relazione con quei luoghi, e rendendosi disponibile ad arricchimenti e ristrutturazioni; e, dall’altro, gli stessi luoghi destinati all’indagine etnografica sono formati, a loro volta, da una specifica antropologia, che è mutata nel tempo (comunità terapeutica) o che è connotata da un’irrisolvibile eterogeneità narrativa (Ser.T.), e che ho cercato di estrapolare dal contesto, oltre a esserne stata, a mia volta, in parte, informata. Riconoscere il valore teorico dell’etnografia, in ultima istanza, significa riconoscere che la conoscenza antropologica non sgorga dalla testa dell’antropologo come Atena dal cranio spaccato di Zeus, ma è un tipo di sapere che ha un profondissimo debito concettuale nei confronti dei suoi nativi – come si potrebbe leggere nell’Anti-Narciso, se questo libro esistesse2.

La presa di distanza dalla duplice identificazione tra teoria antropologica e prassi etnografica non è fine a se stessa, ma propedeutica all’esposizione della metodologia adottata, che costituisce lo sfondo unitario dei due campi etnografici. Come vedremo a breve, il metodo adottato, minuziosamente codificato entro il movimento dell’ontological turn, veicola implicazioni teoriche rilevanti che, pur risultando inscindibili dalla stessa metodologia etnografica, dalla postura esistenziale adottata nel campo, travalicano il piano strettamente metodologico della questione, contro-effettuano le conoscenze antropologiche consuetudinarie e invitano, in ultima istanza, a un ripensamento generale del progetto stesso dell’antropologia – l’antropologia come «teoria e pratica della decolonizzazione

permanente del pensiero», secondo il colorato slogan di Eduardo Viveiros de Castro3.

Nel presente capitolo, comincerò quindi presentando i due campi etnografici in relazione alla cronologia della mia esperienza personale. Introdurrò, in seconda battuta, l’ontological turn come impostazione metodologica generale, da cui ho tratto gli strumenti usati nella ricerca, lo spirito etico

                                                                                                                1 Cfr. Foucault 1969.

2 Cfr. Viveiros de Castro 2009, pp. 27-28. 3 Viveiros de Castro 2009, p. 2.

del ricercatore e la sensibilità alle sfumature ontologiche del campo etnografico. Riprendendo e generalizzando un’espressione di Martin Holbraad, chiamerò tale impostazione metodo ontografico, o più semplicemente ontografia, sottolineando lo slittamento del compito dallo “scrivere l’ethnos”, “scrivere la cultura”, descrivere una visione del mondo, allo “scrivere il tó ὄν”, “l’essente (l’ente)”, “ciò che c’è”, descrivere ciò che si incontra nel campo. Tale nuovo obiettivo, richiede, obbligatoriamente, una mappatura riflessiva delle assunzioni ontologiche dello stesso etnografo, come suggerito anche dall’etnocentrismo critico di Ernesto de Martino. Si esamineranno quindi nel dettaglio gli strumenti tecnici e le procedure elaborate per sopperire tale duplice compito della mappatura ontologica del campo e delle assunzioni del ricercatore.