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Anthropology of addiction

Capitolo 2. L’antropologia simmetrica

L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà

Italo Calvino Le città invisibili (1972)

Accanto alla letteratura antropologica, la presente ricerca si è nutrita dell’esperienza e del materiale raccolto presso due campi etnografici piuttosto atipici per l’antropologia, in quanto costruiti nel cuore scientifico, politico e sanitario dell’Occidente, durante una permanenza di due anni presso la comunità terapeutica Riviera Flowers di Ventimiglia, (facente parte della Cooperativa L’Ancora ONLUS), e di un anno presso il Ser.T. d Lavagna, afferente all’ASL4 Chiavarese. Attraverso i miei campi ho cercato di percorrere parte della “rete” istituzionale – legislativa e sanitaria – che codifica i percorsi di sanzione e di riabilitazione per tossicodipendenti certificati, dedicando particolare attenzione al segmento terapeutico della rete, a cui mi sono accostata anche con le lenti concettuali dell’etnopsichiatria e dell’antropologia medica. Il valore della ricerca sul campo riguarda il fatto che l’esperienza etnografica consente di misurare e riassorbire lo scarto che sussiste tra i discorsi accademici, teorici, sulle tossicodipendenze e le narrazioni che circolano nei dispositivi effettivi di presa in carico: mentre il discorso sulla tossicodipendenza tende a essere schizofrenico, a scindersi nei due versanti incomunicabili della natura (la tossicodipendenza come malattia da curare) e della cultura (la tossicodipendenza come comportamento deviante da punire), è solo percorrendo l’effettiva rete socio-sanitaria che è possibile seguire la costruzione del tossicodipendente come malato e come deviante entro i dispositivi che attraversa e analizzare l’intreccio tra narrazioni anche contrastanti.

Ora, i luoghi in cui ho condotto le mie etnografie non solo risiedono nella società in cui vivo, ma travalicano anche il confine del “culturale” che solitamente qualifica l’oggetto di indagine dell’etnologia. Ser.T. e comunità terapeutica non sono tanto sistemi culturali definiti da un orizzonte simbolico coerente, quanto dispositivi strutturati a partire da conoscenze scientifiche (e decisioni politiche) in continua evoluzione, e sono luoghi di circolazione e di applicazione di saperi psicologici, medici, psichiatrici, educativi – e, perché no?, antropologici – oltre che di circolazione e applicazione di leggi e normative vigenti. Il fatto che i miei campi appartengano al mondo moderno occidentale, e non a una società tribale, e non siano interpretabili in termini strettamente “culturali”, non debilita né delegittima lo sguardo dell’antropologo, ma ne fa sprigionare un possibile potenziamento: quali

modifiche sono richieste alla nostra disciplina per potersi pronunciare sulla società che la produce? Per qualificarsi come valida interlocutrice dinanzi ai rappresentanti delle conoscenze scientifiche? E quali esperienze deve attraversare, e quale consapevolezza deve maturare, per accompagnare empiricamente e riflessivamente la trasformazione paradigmatica che sta attraversando? Come scrive Bruno Latour, il sociologo della scienza che nel 1991 ha esplicitamente teorizzato l’antropologia simmetrica nel saggio

Non siamo mai stati moderni, riflettendo sulla possibilità di utilizzare il metodo antropologico per lo

studio delle società moderne:

Purtroppo non è facile riutilizzare l’antropologia così com’è. Fatta dai moderni per capire quello che non erano, questa disciplina […] si guarda bene dallo studiare gli oggetti di natura e limita la portata delle sue indagini alle sole culture. E resta asimmetrica. Per questo, per trasformarla in antropologia comparata e permetterle di andare e venire dai moderni ai nonmoderni bisogna renderla simmetrica. A tale scopo deve diventare capace di affrontare non le credenze che non ci toccano direttamente (davanti alle quali siamo sempre critici), ma le conoscenze alle quali offriamo un’adesione totale. Occorre perciò renderla capace di studiare le scienze superando i limiti della sociologia della conoscenza e, soprattutto, dell’epistemologia1.

Seppur non sono sicuramente mancate, nella storia dell’antropologia (come anche visto nel capitolo precedente), le etnografie delle società complesse2, qui Latour fa un passo ulteriore, definendo come tratto essenziale per un’antropologia simmetrica la sua capacità di «affrontare non le credenze […] ma le conoscenze alle quali offriamo un’adesione totale»3. Un’antropologia simmetrica non si limita, quindi, agli aspetti folclorici del mondo moderno, ai suoi residui atavici, alle inaspettate forme di esotismo in esso riscontrabili, ma penetra fino al suo cuore politico e conoscitivo (proprio come fa l’etnologia con le sue comunità indigene) e, in particolare, fino a quella dimensione che a lungo è stata preclusa all’antropologia – la dimensione della natura. In tali termini, il più cogente esempio di antropologia simmetrica nata in seno alla stessa antropologia (e non alla sociologia della scienza, come la proposta di Latour) è, senza ombra di dubbio, l’antropologia medica, che accoglie come oggetto di studio la biomedicina e le istituzioni in cui opera4. Il progetto di un’antropologia

simmetrica, espropriando alla scienza quella dimensione mistica rimasta a lungo preclusa all’indagine antropologica, costituisce così anche un ulteriore contributo alla demolizione della distinzione tra “Noi

                                                                                                                1 Latour 1991, p. 122.

2 Cfr. Hymes 1969, parte terza «Lo studio delle culture del potere», come uno dei primi tentativi dell’antropologia di stimolare uno studio sulle società dominanti; il progetto è politico, prima ancora che epistemologico. Cfr. Scarduelli 2013; Remotti 1990, cap. 6; Fabietti et al., 2012, terza parte, per un punto di partenza esplorativo.

3 Latour 1991, p. 122.

4 Cfr. Pizza 2005; Quaranta (ed.) 2006; Guerci 2007; Seppilli 2001 e 2005 per un primo approccio all’antropologia medica.

e Loro” che l’antropologia si è impegnata a decostruire almeno da quando ha cominciato a pensarsi come “antropologia radicale”1.

In questo capitolo comincerò quindi a delineare la cornice teorica offerta dall’antropologia simmetrica, a partire dalla quale ho esperito, pensato e costruito i miei campi etnografici nel cuore dell’Occidente, mettendo in evidenza lo sfondo epistemologico e gli strumenti concettuali che mi hanno accompagnato in questa ricerca. Il mio obiettivo è mostrare che l’antropologia simmetrica non costituisce un semplice rivolgimento del metodo dell’antropologo alle “società complesse”, o al regno della natura, perché la possibilità stessa di costruire un campo etnografico nel cuore del mondo moderno richiede un ben preciso ripensamento teorico della nostra disciplina, un’attenta ricalibratura dei concetti utilizzati e un certo atteggiamento esistenziale da parte del ricercatore (oltre che una riflessione critica sul concetto di “moderno”). In questo, l’antropologia simmetrica apporta un’importante contributo epistemologico alle recenti riflessioni metodologiche condotte in ambito etnografico2, e quindi un complemento al movimento interno di auto-critica che si è sviluppato in seno all’antropologia3.

Con “antropologia simmetrica” intendo qui, di conseguenza, una “famiglia di teorie” affini, estendendo l’etichetta oltre il pensiero del suo padre teorico a un variegato insieme di movimenti caratterizzati da un’esposizione metodica al radicalmente altro e di auto-riflessione consapevole che si sono verificati nell’ambito dell’antropologia e della filosofia della scienza tra gli anni Cinquanta del secolo scorso e i giorni nostri, con diverse cadenze temporali. Tali contributi possono suddividersi in funzione della disciplina di provenienza e al tipo di movimento che assecondano. Da un lato, i contributi antropologici si caratterizzano per aver ascoltato e accolto l’esigenza di un ripiegamento riflessivo sul modo di conoscere l’oggetto indagato (abitudini concettuali, premesse inespresse, presunzioni di sapere ecc.), incrementando la consapevolezza che l’etnografo ha nei confronti della propria “ombra culturale” – tra questi contributi figurano sicuramente l’etnocentrimo critico di Ernesto de Martino4, l’antropologia medica critica5, l’antropologia come critica culturale6, l’etnografia

riflessiva7, l’ontological turn8 e altri. Sul versante epistemologico troviamo invece autori che, dalla

sociologia, dalla filosofia e dalla psicologia, guardano all’antropologia come valido strumento per sopperire alle chiusure disciplinari del proprio ambito di indagine, o come grimaldello per smuovere quelle abitudini concettuali che generano vere e proprie zone di cecità all’interno di una disciplina;

                                                                                                               

1 Cfr. Wolff 1969 e gli altri contributi in Hymes 1969. 2 Questo argomento sarà ampiamente trattato nel capitolo 3.

3 Cfr. Clifford e Marcus 1986; Marcus e Fisher 1986; Clifford 1988. Per una trattazione un po’ più approfondita rimando anche al capitolo 3.

4 Cfr. in particolare Martino 1977, sezione 3.3: «L’umanesimo etnografico»; ulteriori riferimenti bibliografici saranno dati in seguito.

5 Cfr. Lock e Scheper-Hughes 1987 e 1990; Scheper-Hughes 1990; Singer 1986b e 1989. 6 Cfr. Marcus e Fischer 1986.

7 Cfr. Scholte 1969; Marcus e Cushman 1982.

8 Cfr. per una raccolta di saggi introduttiva Consigliere (ed.) 2014a e 2014b. Per un manuale storico-filosofico sulla svolta ontologica tra antropologia e filosofia cfr. Holbraad e Pedersen 2017.

penso qui, oltre a Latour, a Feyerabend che, passando per l’antropologia, restituisce alla conoscenza scientifica, purificata dai filosofi di scienza, la sua dimensione storica e sociale1; e all’etnopsichiatria2, in cui il punto di vista del terapeuta si integra a una prospettiva antropologica, e i contribuiti dell’antropologia vi arrivano come istanza critica nei confronti delle nostre teorie psichiatriche e dei nostri strumenti terapeutici.

In questo capitolo, comincerò col ripercorrere, lungo la linea genealogica, le problematiche che hanno portato Latour alla formulare un’antropologia simmetrica, a partire dai suoi affondi etnografici nei luoghi di produzione del sapere scientifico (vale a dire, i laboratori). Successivamente arricchirò la prospettiva teorica di Latour introducendo l’etnocentrismo critico di Ernesto de Martino, come postura esistenziale imprescindibile per un’antropologia simmetrica. Passerò infine a introdurre l’etnopsichiatria e l’antropologia medica, cominciando a delineare una lettura della tossicodipendenza come fenomeno storico-antropologico.