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Oltre a segnalare i limiti della pratica discorsiva dell’antropologia culturale in questa impossibilità di varcare il confine che separa la natura dalla cultura, Room rimprovera agli antropologi di non essere stati in grado di leggere la propria società attraverso le lenti concettuali solitamente utilizzate nello studio delle culture esotiche. Considerando la concezione dell’alcolismo come malattia l’esito della medicalizzazione della devianza promossa dalle società capitaliste post-illuministe, Room ravvede nell’alcolismo una

“culture-bound syndrome”3, applicando così un concetto tipicamente antropologico alla

collettività da cui proviene.

Ci si sarebbe aspettati che una tale linea di pensiero sarebbe emersa dalla letteratura antropologica, piuttosto che da quella sociologica […] invece gli etnografi, in generale o perlomeno approcciandosi al tema dell’alcol, non hanno compiuto questo spostamento cruciale verso una

                                                                                                                1 Descola 2001, p. 49.

2 Foucault 1971, p. 76.

prospettiva nominalista sulle categorie di malattia della loro stessa cultura. Pur essendo attenti all’esistenza di folk disease o di culture-bounde syndromes presso altre società, gli etnografi sembrano essere stati incapaci di riconoscere il potenziale “legame alla cultura” delle categorie di malattia che si portano nel proprio bagaglio culturale1.

Non solo dunque i sociologi si sono accostati al tema dell’alcolismo come malattia con un certo anticipo rispetto agli antropologi, utilizzando pure concetti di origine antropologica, ma anticiperanno gli etnologi anche nel campo della drug ethnography, studiando per primi, con metodo etnografico, gli eroinomani delle vie di Chicago e di altre realtà statunitensi. Anche in questo caso non dobbiamo leggere la precocità delle ricerche sociologiche nei termini di un diverso grado evolutivo tra le due discipline, ma dobbiamo rapportarne le differenze discorsive agli a priori storici, ossia alle condizioni che consentono l’emergere di un certo tipo di discorso. Ad esempio, affinché gli antropologi potessero intraprendere un’etnografia della vita di strada degli eroinomani statunitensi, dovevano cominciare ad accogliere come oggetto di studio anche la loro stessa società, volgendo il pungiglione dell’antropologia verso la propria cultura. La qual cosa, come ricorda Michael Agar, uno dei primi antropologi ad essersi avventurati in un’etnografia dei consumi di droghe in Occidente, era tutt’altro che scontata e creava non poco imbarazzo dinanzi ai colleghi antropologi. Nella sua biografia intellettuale, Agar ricorda:

Avevo già intrapreso un tirocinio etnografico in India quando ero uno studente universitario […] A quei tempi, l’antropologia pensava a se stessa come qualcosa che succede a un americano o a un europeo che se ne va in un villaggio isolato, in posti come l’America Latina, l’Africa o l’Oceania. Quella era la vera etnografia […] Infatti, quando più tardi scrissi dei tossicodipendenti per la mia tesi di dottorato, le voci di corridoio a Berkeley erano che non si era sicuri che la facoltà mi avrebbe conferito il titolo, dal momento che avevo operato negli Stati Uniti e non in una riserva indiana2.

Del tutto diversa la situazione dalle parti della sociologia, disciplina da sempre attrezzata e legittimata a studiare la società di provenienza del sociologo. Come scrivono Campbell e Shaw nel loro interessante affondo sui rapporti ambivalenti che l’etnografia di strada ha intrattenuto con le istituzioni politiche statunitensi,

                                                                                                                1 Room 1984, p. 176.

2 Agar 2006, p. 31. Ancora nella rassegna di Bennett & Cook, le incursioni antropologiche nei bassofondi statunitensi per studiare i mondi tossicomani sono considerati degli studi «più curiosi che seri», tant’è che vengono appena citati; Cfr. Bennett & Cook 1990, p. 232.

ciò che chiamiamo drug ethnography ha origine dallo sforzo dei sociologi […] i mondi della droga fornivano una risorsa per la critica sociologica al concetto di devianza, che si è esteso assieme all’incremento dell’uso popolare di droghe negli anni Sessanta. Di contro, un numero relativamente basso di antropologi studiava l’uso di droghe1.

Si desume inoltre dalla citazione che, a differenza degli antropologi, i sociologi già disponevano di una rubrica di ricerca che potesse accogliere spontaneamente il consumo di droghe come materia di studio: la sociologia della devianza. La drug ethnography emerge quindi in ambito sociologico come movimento di critica e decostruzione del concetto di devianza.

Oggi si tende a riunire, secondo un’impronta storico-continuista, tutti gli studi etnografici, di provenienza sociologica o antropologica, sotto la medesima etichetta – ad

esempio: ethnographic drug abuse research2 – condensando le due linee genealogiche

(indubbiamente intrecciate) in un’unica scia storica, priva di sbavature. Utilizzando il metodo archeologico vorrei invece provare a riportare in primo piano la differente genealogia delle due tradizioni etnografiche che confluiscono nella drug ethnography, mostrandone i differenti esordi e ricercando gli indizi che possono raccontare la metamorfosi della nostra disciplina – prendendo ispirazione da quanto scrive Foucault:

L’archeologia: un’analisi comparativa che non è destinata a ridurre la diversità dei discorsi e a delineare l’unità che li deve totalizzare, ma è destinata a suddividere la loro diversità in figure differenti. Il confronto archeologico non ha un effetto unificatore, ma moltiplicatore3.

Per un pezzo riusciremo a seguire i differenti cammini etnografici intrapresi da sociologi e antropologi nel campo delle droghe, ma a un certo punto ci troveremo immancabilmente con i fili intrecciati, impossibili da districare, ma non importa: è l’esito inevitabile di un’archeologia che cerca di allungarsi fino a tempi troppo recenti. Cercherò quindi di frammentare, finché mi è possibile, quello che oggi viene tendenzialmente unito e omogeneizzato. Come già sottolineato, l’adozione di uno sguardo archeologico non è motivato dal fatto che i suoi ordini siano più veri o più autentici rispetto a quelli della continuità, bensì dall’intenzione metodica di raccogliere le discontinuità cancellate o assorbite

                                                                                                                1 Campbell & Shaw 2008, pp. 691-692. 2 Cfr. Carlson et al. 2009.

d’abitudine dalle altre analisi per provare a ricostruire, a partire da questi indizi, il processo di metamorfosi che l’antropologia come pratica discorsiva sta attraversando.

Le origini sociologiche1 della drug ethnography

Le prime fasi della diffusione di tossicomanie negli Stati Uniti2 si caratterizzano per

un inaspettato mutamento di paradigma in quanto, da problema medico di natura iatrogenetica, la tossicodipendenza si trasforma in una psicopatologia connessa a fenomeni di delinquenza. In questo passaggio muta sia il tipo sociale del tossicodipendente, sia le teorie avanzate per spiegare le dipendenze da oppiacei, che si scatenarono con sempre maggiore insistenza in un primo tempo con l’introduzione della siringa ipodermica, nel 1850, e con l’introduzione dell’eroina (Bayer) sul mercato farmaceutico come sciroppo per la tosse e come rimedio per le tossicomanie, nel 1898; e in seguito, con le politiche repressive e di controllo federale sulla compravendita di oppiacei e l’instaurarsi di un mercato nero. Le prime forme di oppiomania, causate da imprudenti prescrizioni mediche, si manifestavano nella classe medio-alta borghese: il tossicodipendente-tipo (morfinomane e in seguito anche eroinomane) era, tipicamente, una donna insoddisfatta della propria realtà quotidiana, di origine contadina, forse lacerata da un brusco salto nel contesto urbano, quindi nel mondo moderno; cliniche e ospedali privati aprirono per accogliere questa clientela pagante. Nel

1920, in seguito all’introduzione dell’Harrison Act3, la situazione mutò radicalmente: il

tossicodipendente-tipo era ora l’uomo povero di città, giovane, emarginato, che non si rivolge alle istituzioni mediche, ma alle droghe di strada – un cliente, insomma, molto poco attraente per le professioni sanitarie. In questo passaggio, che porta dalla categorizzazione del tossicodipendente-malato a quella del tossicodipendente-delinquente/psicopatico, e che trasforma la dipendenza da oppiacei da problema di competenza medica in scottante tema politico e sociale, cambiano radicalmente anche le teorie sulla tossicomania. Se, nella prima fase, la teoria della neurasthenia imputava alla debolezza mentale della persona una predisposizione a sviluppare dipendenze (debolezza che poteva essere imputata anche allo stress causato dalla frenetica vita moderna), in quella successiva la teoria psicogenetica prese il sopravvento, chiamando in causa la personalità psicopatica, antisociale e perversa                                                                                                                

1 Per rassegne sugli studi sociologici nell’ambito delle droghe e delle tossicodipendenze, cfr. Weinberg 2011; Lombi 2012; Beccaria & Prina 2017.

2 Per un resoconto più approfondito rimando al capitolo 4 e alle conclusioni. Cfr. anche Aurin 2000; Conrad e Schneider 1981; Acker 1995.

dell’assuntore. La teoria psicogenetica divenne così l’anima ideologica dei trattamenti di disintossicazione e di correzione comportamentale perseguiti nelle cliniche-prigioni federali (le cosiddette Narcotic Farm) dagli anni Trenta agli anni Settanta, istituzioni pensate per segregare le “menti deboli”, ma di fatto vere e proprie prigioni basate sul sistema coloniale,

che conservarono le sbarre alle finestre fino agli anni ’601.

La trasformazione della natura del tossicodipendente da afflitto ma rispettabile nevrastenico a criminale psicopatico depravato, delinquente e moralmente disturbato è stata portata a compimento mentre i legittimi specialisti della tossicodipendenza si trasformavano da medici impegnati in trattamenti biomedici a psichiatri intenzionati a correggere i comportamenti devianti2.

I sociologi cominciano a interessarsi all’abuso di droghe a partire dagli anni Venti, in quella fase di passaggio dal tossicomane borghese al tossicomane di strada. L’assunzione di sostanze è immediatamente assimilato alla rubrica del comportamento deviante, ossia del comportamento che devia da un insieme di norme socialmente accettate. Secondo il paradigma della devianza, il consumo di droghe è «espressione di una patologia sociale che

mina i principi di solidarietà sociale»3. Legandosi alla diagnosi di personalità psicopatica, la

devianza è un concetto che intende esprimere l’essenza ontologica dell’individuo:

L’outsider – colui che devia dalle regole del gruppo – è stato soggetto di molte speculazioni, teorizzazioni e studi scientifici. Ciò che i profani vogliono sapere sui devianti è: perché lo fanno? Come possiamo spiegare la loro trasgressione delle norme? Cosa c’è in loro che li spinge a fare cose proibite? Le ricerche scientifiche hanno cercato risposte a queste domande. Nel farlo, è stato accolto il presupposto del senso comune che c’è in loro qualcosa di intrinsecamente deviante (di qualitativamente diverso) circa le azioni che violano (o sembrano violare) le norme sociali. È stata anche accettata l’assunzione del senso comune che gli atti devianti avvengano a causa di alcune caratteristiche della persona che li commette, per cui diventano necessari o inevitabili4.

                                                                                                               

1 Negli Stati Uniti, negli anni Trenta, sono stati istituiti due Federal Narcotic Farm, a Lexington, nel Kentucky, e a Fort Worth, in Texas; Cfr. Carlson et al. 2009, p. 59. Per uno studio storico-fotografico su Lexington cfr. Campbell et al 2008. Come vedremo, la clinica di Lexington, in particolare, è stata un campo di studio etnografico dell’antropologo Micheal Agar. Cfr. Agar 1973 e 2006. La teoria psicogenetica, il cui più importante teorico e promotore fu Lawrence Kolb, capo della Mental Hygiene Division e primo direttore di Lexington, fu in voga fino a quando Dole e Nyswander imposero la propria teoria metabolica, a sostegno dei trattamenti metadonici a mantenimento. Rimando nuovamente al capitolo 4 e alle conclusioni.

2 Aurin 2000, p. 434. 3 Lombi 2012, p. 88. 4 Becker 1963, p. 3.

Le prime drug ethnographies di mano sociologica, che risalgono alla fine degli anni Trenta, originano a partire da un movimento di critica interno e rispondono all’esigenza di produrre letture alternative a quelle altamente stigmatizzanti e potentemente deterministiche partorite dal paradigma della devianza. Capostipite di questa linea di ricerca è Alfred Lindesmith, che avvia uno studio etnografico con gli oppiomani di Chicago (morfinomani per iatrogenesi medica ed eroinomani), basato sul contatto diretto, sull’osservazione del loro comportamento, sulla costruzione di relazioni di conoscenza e di intimità, su conversazioni informali e interviste qualitative intenzionate a sondare in profondità la soggettività dell’interlocutore. L’obiettivo di Lindesmith è formulare una teoria sociologia a partire dai dati raccolti sul campo per mettere in discussione la lettura psicopatologica allora dominante, secondo la quale «le persone diventano dipendenti perché sono inferiori o anormali e perché

la droga offre loro un supporto artificiale o un mezzo per sfuggire dai loro problemi»1; solo

gli psicopatici, sostiene la teoria psicogenetica, trovano piacere nelle droghe. Nel modello psicopatologico, il confine tra normalità e devianza è un confine ontologico, che riguarda la natura stessa degli individui. In opposizione a questo modello, Lindesmith sostiene che alla base dell’addiction non vi sia la “natura” della persona, ma un processo attivo di interpretazione, che riguarda il modo in cui il singolo interpreta i propri sintomi di astinenza. La tesi di Lindesmith è che

la dipendenza da oppiacei si fonda essenzialmente sui sintomi di astinenza, che si manifestano quando gli effetti della droga cominciano a svanire, piuttosto che per un qualche effetto positivo, o uno stato mentale inspiegabilmente e straordinariamente piacevole, che si suppone erroneamente sia prodotto dall’uso continuativo di sostanze. L’addiction si stabilisce la prima volta entro un processo che coinvolge:

1. l’interpretazione che i sintomi di astinenza sono causati dall’assenza di oppiacei, a cui segue che

2. l’uso della sostanza, con lo scopo consapevole di alleviare questi sintomi o di tenerli a bada. Come risultato di questo processo, nel tossicodipendente si stabilisce il tipico desiderio per la sostanza, un senso costante di dipendenza da essa e le altre caratteristiche tipiche della tossicomania2.

Fondandosi sulla relazione e su periodi di prolungato contatto, l’approccio etnografico

permette di restituire ai consumatori di sostanze quella soggettività troppo spesso messa tra parentesi dai vari “etichettamenti”, riscattandone il peculiare punto di vista sui comportamenti                                                                                                                

1 Lindesmith 1940, p. 914. 2 Lindesmith 1938, p. 606.

che adottano. Negli anni Cinquanta Howard Becker, con la teoria dell’etichettamento, prosegue la decostruzione del concetto di devianza avviata da Lindesmith. Secondo il sociologo, la devianza non è una qualità intrinseca dell’individuo, ma l’esito di un processo sociale che finisce per intrappolare le persone in categorie prestabilite:

i gruppi sociali creano la devianza costruendo le regole la cui infrazione costituisce devianza

e applicando tali regole a persone specifiche, etichettandole come outsiders. Da questo punto di vista la devianza non è una qualità dell’atto che la persona commette, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione da parte degli altri di regole e sanzioni a un “trasgressore”. Il deviante è uno a cui l’etichetta è stata applicata con successo; il comportamento deviante è il comportamento che la gente etichetta così1.

La precocità con cui i sociologi adottano un metodo etnografico per esplorare la vita dei consumatori di sostanze e restituire valore alla loro prospettiva personale va rapportata a due regolarità della sociologia come pratica discorsiva. Innanzitutto, la sociologia, a differenza dell’antropologia, è per definizione una disciplina che studia la società cui appartiene il sociologo. Come scrive Lévi-Strauss,

la sociologia è strettamente solidale con l’osservatore […] nel suo sforzo di desumere interpretazioni e significati, [il sociologo] mira anzitutto a spiegare la propria società; egli applica all’insieme le proprie categorie logiche, le proprie prospettive storiche. Se un sociologo francese del XX secolo elabora una teoria generale della vita in società, questa teoria apparirà sempre e nella maniera più legittima come l’opera di un sociologo francese del XX secolo. Mentre l’antropologo, posto dinanzi allo stesso compito, si sforzerà, magari volontariamente e coscientemente, di formulare un sistema accettabile, tanto per il più lontano indigeno, quanto per i propri cittadini contemporanei.

Mentre la sociologia si sforza di fare la scienza sociale dell’osservatore, l’antropologia cerca invece di elaborare la scienza sociale dell’osservato2.

In secondo luogo, mentre i sociologi predisponevano di uno spazio discorsivo in cui accogliere il tema dell’abuso di sostanze come comportamento deviante, e svilupparono le socio-etnografie a partire da un movimento di critica interno, gli antropologi non disponevano di un tale spazio discorsivo prefabbricato; hanno dovuto costruirlo. Come? Culturalizzando il mondo dei tossicomani attraverso il concetto di subcultura, rendendo così anche una porzione                                                                                                                

1 Becker 1963, pp. 8-9. 2 Lévi-Strauss 1954, p. 397.

della nostra società – porzione sotterranea e tenebrosa, con un ché di esotico a caratterizzarla – un legittimo oggetto di indagine per l’antropologia. Non a caso nelle varie rassegne esaminate, le etnografie urbane condotte dagli antropologi vengono spesso indicate come “modello subculturale”.

C’era qualcosa nell’essere uno junkie che era lo stesso per tutti, chiunque tu fossi, da qualunque posto venissi. E quello “stesso” era differente dal mio mondo e dagli altri mondi che conoscevo. Due junkie potevano comunicare in modi che per un estraneo erano completamente privi di senso. Questa semplice osservazione significava che c’era di mezzo qualcosa di culturale1.

L’approccio sub-culturale

Secondo Singer et al.2, la differenza tra le etnografie sociologiche e quelle

antropologiche risiede nel fatto che, mentre le prime sono ricerche che abbracciano un orientamento teorico forte e perseguono l’obiettivo di formulare modelli che spieghino i comportamenti di abuso e le dipendenze, le incursioni antropologiche nei mondi delle sostanze illegali sono consacrate a un approccio prevalentemente descrittivo, atto a mostrare, empatizzare e condividere con le persone, più che a teorizzare. L’antropologo si fa testimone oculare dei mondi sotterranei, urbani, delle tossicomanie. Dire a-teorico, però, non significa a- critico (o a-politico), perché il potenziale di queste descrizioni ruvide e dirette risiede proprio nella loro capacità di erodere gli stereotipi classici sul tossicodipendente. Visto da vicino, il tossicodipendente non è un essere irrazionale posseduto dalla droga d’abuso, ma è una persona che struttura consapevolmente e con criterio la propria giornata e la propria esistenza attorno alla sostanza.

Invece della concezione che considera l’iniezione di droghe una semplice questione di patologia individuale, è più produttivo descrivere coloro che si iniettano sostanze come costituenti una “subcultura” […] dalla prospettiva dei suoi membri, appartenere a una subcultura è un’attività significativa che procura le gratificazioni desiderate, piuttosto che una psicopatologia, una “fuga dalla realtà” o una illness3.

                                                                                                                1 Agar 2006, p. 31.

2 Singer & Page, 2017, pp. 70-71.

Pur rifuggendo da ogni incrostazione teorica, continuano gli autori, il lavoro degli etnografi di strada poteva avvenire solo sotto un’assunzione quasi-teorica: «che gli utilizzatori di sostanze partecipassero di necessità a una sorta di contesto subculturale che li autorizzava a

perseverare nel consumo nonostante l’illegalità della droga»1.

Il concetto di “subcultura”2 è stato approfondito e sviluppato dalla Scuola sociologica

di Chicago tra gli anni Venti e Trenta, come base concettuale per la promozione di studi empirici condotti nelle periferie urbane delle grandi metropoli statunitensi – con barboni, alcolizzati, prostitute e baby-gang. Dalla fine degli anni Cinquanta, a partire dal concetto di

subcultura si svilupparono le prime socio-etnografie di strada con consumatori di sostanze3. È

stato grazie alla formulazione e all’importazione di questo concetto dal persistente sapore antropologico, che gli antropologi hanno potuto legittimare un ambito di indagine per l’antropologia culturale anche nel cuore dell’Occidente. Così, negli anni Settanta, anche gli antropologi cominciano a praticare la drug ethnography, di regola nelle strade polverose delle metropoli statunitensi, con l’eccezione dei lavori pionieristici e all’epoca quasi inconcepibili che Agar ha condotto nella clinica-prigione di Lexington, mescolandosi ai suoi pazienti- criminali. Nel 1975, introducendo il proprio lavoro etnografico, Agar scriveva:

nella letteratura sul comportamento deviante sono frequenti i riferimenti alla “cultura” o “subcultura” dell’addiction. Nonostante il loro interesse, gli studi etnografici sugli eroinomani di strada americani sono relativamente rari. Ci sono diverse ragioni possibili per questa lacuna, compresa l’illegalità di molti dei comportamenti dei drogati, i potenziali danni fisici, gli imbarazzi etici per l’etnografo, e così via4.

Non a caso Agar5, che nella sua carriera etnografica intraprese anche street

ethnography di successo, ha operato dal 1968 al 1970 come funzionario nominato

[commissioned officer] dall’U.S. Public Health Service presso il Clinical Research Center della clinica federale di Lexington – per gli “amici” Narco. A Lexington, centro federale di ricerca e di trattamento per tossicodipendenti, risiedevano circa 500 “pazienti”, tra volontari che cercavano una cura alla propria tossicomania e tossicodipendenti “delinquenti”,

                                                                                                                1 Singer & Page 2017, p. 71.

2 Cfr. Moore 2004, pp. 182 e seg. per un’analisi critica del concetto di “sub-cultura” nell’ambito della drug ethnography.

3 Tra le prime socio-etnografie di strada ricordo Firestore 1957 e Fiddle 1967. 4 Agar 1975, p. 47.

trasgressori dell’Harrison Act e del Marjuana Tax Act, provenienti dalle carceri federali statunitensi.

Mentre lavoravo con i pazienti tossicodipendenti al Clinical Research Center di Lexington, nel Kentucky, sotto il NIMH [National Institute of Mental Health] ho deciso di studiarne la “cultura” alla giusta distanza, per scoprire se gli eroinomani di strada americani condividessero davvero una cultura sotto un qualche punto di vista1.

L’obiettivo dei primi antropologi impegnati nella drug ethnography è offrire una