Preambolo
Da un punto di vista metodologico, è cosa ormai risaputa, tra etnografi, che la ricerca condotta sul campo costituisce una fase del lavoro spesso caotica, ricca di dubbi, ansie, esitazioni e incomprensioni, piuttosto che un processo ordinato e lineare, metodicamente
pulito e epistemicamente non problematico1. Con Didier Fassin, possiamo affermare di aver
superato l’epoca in cui la ricerca sul campo era segnata dall’eroismo romantico dell’antropologo che, con la sua arte magica, era capace di restituire fedelmente, e in modo ammirevolmente neutrale, il punto di vista del nativo sulla propria società; e di trovarci piuttosto in una stagione caratterizzata da un’inquietudine etnografica, emersa dalla consapevolezza che l’antropologia «è lontana dal possedere le qualità di trasparenza
epistemologica, di evidenza etica e di neutralità politica che le sono state a lungo attribuite»2.
L’inquietudine etnografica si propone oggi come condizione di intelligibilità antropologica e sociologica delle società umane, spingendo a un ripiegamento riflessivo che rischia di farsi fin troppo estremo, portando il ricercatore a osservare più quel che gli avviene dentro che quanto
1 Cfr. Davies 1999, autrice di un manuale di metodologia etnografica che coniuga realismo e soggettività, pp. 27- 28: «Il processo di ricerca viene spesso presentato come se si sviluppasse in un modo logico e unidirezionale, con solo una sovrapposizione minima tra le sue differenti fasi. Ciò accade soprattutto quando lo valutiamo a partire dal suo prodotto scritto (di solito) conclusivo […] questo prodotto conclusivo tende a presentare il processo come sequenza in cui il primo stadio è l’identificazione di un problema o di un’area problematica […] muove poi attraverso varie fasi in cui i dati sono raccolti nel campo, analizzati una volta lasciato il campo e infine scritti in modo da sostenere un insieme di conclusioni relative all’area problematica originaria»; ma questo schema, continua l’autrice tende a «sottostimare la natura spesso caotica e non pianificata della ricerca, così come il continuativo processo di analisi» che accompagna in modalità riflessiva la scelta dell’argomento, la raccolta del materiale e la scrittura.
accade sul campo. Quella che un tempo si era profilata come un’alternativa senza mezze misure tra il realismo positivista e il costruttivismo soggettivista si sta trasformando oggi in una questione acrobatica, nella ricerca paziente di un delicato equilibrio tra i due poli estremi del soggetto e dell’oggetto, equilibrio che finisce sempre per dimostrarsi (realisticamente) traballante, instabile e precario o (costruttivamente) finzionale. Abbiamo già trovato abbozzata una via di uscita da questo dilemma nella proposta metodica di una duplice tematizzazione del proprio e dell’alieno, come via di uscita dal paradosso etnografico; la metodologia elaborata entro la svolta ontologica, pare proseguire proprio là dove si ferma la dotazione demartiniana.
Al di là dell’inquietudine etnografica che può provocare l’aspirazione a un realismo impossibile, le ricerche etnografiche che ho condotto nell’ambito delle tossicodipendenze sono state animate fin dal principio dall’idea che l’antropologia offra un tipo di sguardo, un bagaglio di strumenti concettuali, delle metodologie e un tipo di professionalità che trascendono l’ambito della ricerca etnografica, per dimostrarsi indispensabili anche in svariati contesti sociali, quali l’ambito sanitario, educativo, scolastico ecc. In linea con le coordinate teoriche offerte dall’antropologia simmetrica, la ricerca sul campo ha costituito l’occasione per utilizzare gli strumenti dell’antropologia in contesti non esotici, saggiarne limiti e capacità, metterli in relazione e interazione, talvolta in conflitto, con altri saperi e comprovarne l’ipotizzata utilità. Così, nello studio condotto presso la Comunità Terapeutica residenziale Riviera Flowers di Ventimiglia ho analizzato con sguardo antropologico sensibile alla storia un dispositivo terapeutico d’occidente, a partire dalla teoria dell’antropo-poiesi di
Francesco Remotti1; mentre nella ricerca condotta al Ser.T. di Lavagna ho sperimentato e
analizzato le competenze che l’antropologo può apportare entro un contesto clinico grazie alla partecipazione alle attività dell’equipe etnopsichiatrica, la cui proposta terapeutica verte in
primo luogo sull’etnopsichiatria critica di Roberto Beneduce2.
Da una Comunità Terapeutica
Quando sono approdata la prima volta in comunità consideravo come elemento essenziale di una ricerca antropologica la possibilità di attraversare un’esperienza di spaesamento, capace di far vacillare le convinzioni più riposte e inamovibili e di offrire quindi l’occasione per un radicale esame critico della mia persona e del contesto storico-sociale in
1 Cfr. Remotti 2002, 2003, 2011a cap. 2, 2011b, 2013; Consigliere 2014a e 2014b. 2 Cfr. Beneduce 1998a e 1998b, 2000, 2003, 2007 e 2013.
cui mi sono formata. Così, quel primo giorno in cui ho messo piede nella Comunità
Terapeutica1 Riviera Flowers di Ventimiglia, afferente alla cooperativa L’Ancora ONLUS,
partecipando come ospite a una giornata di Casa Aperta (giorno all’anno, nel mese di luglio, in cui la comunità apre le porte alla cittadinanza esterna in una rigogliosa e commovente festa dedicata a coloro che hanno portato a termine con successo il loro percorso) mi era balenata l’idea che la comunità potesse offrire un’esperienza di questo tipo. Questo non tanto per l’esotica presenza dei tossicodipendenti in cura, ma perché percepivo, sospettavo, la profonda differenza di quel “mondo” in modi che allora ancora non sapevo descrivere.
Ho così iniziato la mia esperienza come volontaria e come ricercatrice antropologa in comunità nel luglio del 2012, e quindi con un certo anticipo rispetto l’inizio del percorso di dottorato, avvenuto nel gennaio 2014. Ciononostante, e con l’approvazione del direttore della struttura, cominciai il mio volontariato con l’intenzione di intraprendere uno studio antropologico sulla comunità, in quella che cominciavo a concettualizzare a partire dal territorio teorico cui confinano l’antropologia simmetrica di Latour, un’antropologia medica consapevole della dimensione sociale della “malattia” e l’etnopsichiatria che si fa testimone dell’inalienabile continuità tra psiche e cultura. La mia intenzione era di avanzare un’analisi antropologica di un dispositivo terapeutico psicologico/psichiatrico d’occidente, di risposta a un disagio esistenziale, medico, sociale, a partire da un’immersione esperienziale di lungo periodo, da un vero e proprio campo di ricerca etnografica.
Oltre ad apparirmi come esperienza potenzialmente spaesante, la permanenza attiva e continuativa in comunità aveva ai miei occhi anche un chiaro significato metodologico, in relazione allo studio che intendevo intraprendere. Come ho scritto nel progetto presentato al concorso di dottorato, intitolato Le comunità terapeutiche come dispositivi antropo-poietici:
una ricerca sul campo, alla frontiera tra antropologia e psicologia:
Non era nelle mie intenzioni attraversare la realtà comunitaria rimanendo ad essa estranea, o entrarci solo per raccogliere i dati di mio interesse, senza essere coinvolta nella dimensione operativa (che, in comunità, spazia dal lavoro di ufficio al sostegno emotivo agli utenti). Questo approccio “scientificamente distaccato” avrebbe, infatti, generato una distanza incommensurabile, impedendo di stabilire un rapporto di fiducia con lo staff operativo e con l’utenza – fiducia che, in un simile contesto, rappresenta la misura di autenticità del dato [novembre 2013].
1 Talvolta per non appesantire troppo il testo userò la forma abbrevia CT (per Comunità Terapeutica). Nelle parti descrittive sull’esperienza in comunità userò spesso il corsivo in modo da enfatizzare il “gergo” della comunità (altrimenti detto: “l’ancorese”): termini che hanno un indubbio significato comune acquisiscono infatti, in comunità, una peculiare sfumatura di significato, che può riguardare un aspetto tecnico del percorso di comunità o risuonare di una tonalità tutta emotiva.
Stare in comunità, integrarmi alla sua quotidianità, penetrare nell’orizzonte di senso
dei suoi “abitanti” e creare con loro relazioni di fiducia mi apparivano dei requisiti indispensabili a garantire la trasparenza e la fecondità del materiale raccolto. Il ruolo di volontario si è dunque palesato, immediatamente, come quello più indicato per permettermi la piena partecipazione alla vita di casa. Con questo vestito ho svolto in comunità le più svariate mansioni, secondo una crescita graduale di responsabilità. Inizialmente, dopo un breve periodo in cui mi sono limitata a girare e a chiacchierare, ambientandomi, conoscendo e facendomi conoscere, ho cominciato ad accompagnare gli utenti nei loro “settori”, in cucina, nelle pulizie, in una specie di segreteria relativa alle faccende di casa e gestita dagli utenti chiamata “il punto”, nella raccolta delle olive; aiutavo in ufficio, tra scartoffie e commissioni;
stavo al piano, ossia giravo per la struttura sentendo che succedeva; socializzavo con gli
utenti, a volte mi fermavo con loro, per condividere, ascoltarli; mi è capitato di indossare i guanti e di fare le perquise, controllando in ogni borsa, tasca, e cucitura cosa l’utente stesse introducendo in comunità. Col tempo, e la fiducia, mi è stato permesso di riordinare documenti e cartelle cliniche, di rispondere al telefono, di abbozzare relazioni, di scrivere sul
quaderno delle consegne, di partecipare ai gruppi con gli utenti e alle riunioni di equipe, di
aiutare in infermeria nella somministrazione dei farmaci, di accompagnare gli utenti in uscite o in ospedale e così via.
Tutta la prima fase della ricerca in comunità è stata dunque una tipica fase di ambientazione antropologica, la quale mi ha visto calarmi nella realtà comunitaria, stringere
relazioni, apprendere regole e linguaggi1, cominciando a immaginare le direzioni che poteva
prendere la mia ricerca. Nella tesina del primo anno descriverò così questa prima fase “esplorativa”, sottolineando una sospettata analogia tra il percorso terapeutico destinato all’utente e la formazione di un volontario o operatore:
Il primo anno di permanenza in struttura è stato quindi interamente dedicato a entrare in comunità, nel senso pieno del termine: tutti coloro che entrano in comunità attraversano un percorso di formazione analogo a quello dell’utente in programma (dato emerso in tutte le interviste ed esperito
1 Come scrive Becker 1991, citato in Davies 1999, p. 76: «una delle esperienze trasformative più profonde che una persona può avere è l’apprendimento di un altro linguaggio»; in comunità, l’apprendimento del linguaggio è fondamentale per entrare nelle dinamiche del percorso terapeutico e per penetrare nell’orizzonte di senso condiviso. Apprendendo un altro linguaggio, gli etnografi entrano in «un’altra storia relazionale» (Davies 1999, p. 77) che rimanda alla questione della memoria collettiva. L’importanza dell’apprendimento linguistico in una ricerca etnografica, sottolinea Davies, non concerne tanto i problemi legati a casi di intraducibilità concettuale, quanto gli impliciti verbali, poiché «ciò che è dato per scontato dai nativi viene omesso o spiegato in modo così superficiale da apparire privo di significato».
sulla mia stessa persona), in una sorta di strutturazione ulteriore della propria forma di umanità. In tal senso, il ruolo di volontaria mi ha permesso di calarmi nella realtà operativa della vita di comunità; di imparare le regole di vita, le usanze, i costumi e i linguaggi utilizzati (tra cui un intricato linguaggio tecnico e un dizionario molto particolareggiato che permette di discriminare e riconoscere le proprie emozioni); di aiutare l’utenza nei propri compiti giornalieri; di svolgere mansioni di ufficio e di responsabilità; di partecipare ai gruppi psicoterapeutici; di agganciare gli utenti con colloqui di sostegno e di contenimento; e, infine, di confrontarmi con lo staff su vissuti, sensazioni, problemi e dinamiche, quindi, di intessere delle solide relazioni di fiducia con gli abitanti della comunità, relazioni che si sono rivelate indispensabili soprattutto nella raccolta dati mediante interviste. La fiducia instauratasi nella permanenza in struttura rappresenta, infatti, la misura dell’autenticità del dato [dicembre 2014].
Quello che a un certo punto mi era balenato agli occhi con estrema chiarezza era che
anche io ero in programma. Il periodo di “formazione” che stavo attraversando come
operatrice volontaria era in definitiva un processo di trasformazione – un percorso appunto analogo a quello previsto per l’utente in programma (anche se il significato intrinseco di tale percorso col tempo è profondamente mutato). Se dunque, inizialmente, mi attendevo un’esperienza che scardinasse le mie abitudini intellettuali più radicate ed esenti quindi da critiche dirette, mi sono trovata coinvolta in uno spaesamento di tutt’altro tipo: pensavo di espormi a un mondo, mi sono trovata esposta a me stessa (al mio negativo, secondo il gergo di casa). È in questo punto che si è concentrato l’effetto spaesante dell’esperienza di comunità, nel suo aprirmi a poco a poco l’accesso a una dimensione che fino a quel momento sapevo, certo, che esistesse, ma non l’avevo ancora guardata così da vicino: la dimensione emotiva. Sarà sintomo lampante di questo mio “scotoma emotivo” il rispondere automaticamente alla domanda «che cosa senti?» dicendo, invece, quel che pensavo.
Vi sono alcuni elementi del dispositivo terapeutico della comunità che mediano questo accesso alla dimensione emotiva: la condivisione della quotidianità con l’utenza, la spinta a esteriorizzare i propri stati emotivi, un processo di apprendimento linguistico e percettivo che
potremmo indicare come un’alfabetizzazione alle emozioni [#7]1 e alcuni strumenti ad alto
impatto emotivo i quali, nel tempo, sono stati addolciti o smantellati. Segue la descrizione del
richiamo, un intervento educativo che di lì a poco sarebbe stato abbandonato.
1 Con il simbolo # rimando alle interviste registrate durante la ricerca in comunità (#1 - #9) e al Ser.T. (#a - #i). Nella sezione conclusiva del capitolo presenterò il modulo delle interviste usato in comunità e una tabella riassuntiva del materiale raccolto.
Immaginatevi una grossa struttura immersa nel verde delle alture liguri, calata nel più completo silenzio. L’operatore, consapevole che di lì a poco dovrà fare un richiamo è visibilmente agitato, concentrato; probabilmente va in bagno; a un certo punto, si comincia a sentire, come un tuono nel vento, il richiamo a voce alta, spiazzante, con cui l’operatore fa una sorta di quadro spietatamente oggettivo all’utente, sulla sua situazione esistenziale. E lì, in molti escono sulla balconata, c’è chi si accende una sigaretta, chi si guarda distratto i piedi prestando l’orecchio alle parole crude, ma nessuno osa sussurrare, o guardare qualcun altro, fino a che non si sente di nuovo calare il silenzio; qualcosa si muove dentro, la voce tonante dà forma a uno spazio interiore, rimbomba nello spazio interiore, e si torna a casa profondamente scossi. Una misura come il richiamo viene presa in situazioni particolarmente gravi, ad esempio una ricaduta, che suona come sinonimo di condanna a morte (non sono state poche le persone che ho incontrato e conosciuto in comunità e che, di lì a poco, sono decedute, per ricadute, suicidi o malattie correlate allo stato di tossicodipendenza). Può apparire come un metodo brutale, barbaro e “primitivo” – soprattutto a uno sguardo psicologico – e forse per certi aspetti lo è; per altri versi, probabilmente ha un significato profondamente terapeutico, mi ricorda i dispositivi rituali. In nessun caso, comunque, il richiamo va confuso con una ramanzina, o una punizione, poiché il suo scopo non è rimproverare o punire, ma mettere in contatto la persona con la sua dimensione emotiva più riposta1.
Ad oggi posso dire che, grazie al percorso in comunità ho potuto a malapena curiosare in questa dimensione ampiamente padroneggiata, invece, dagli operatori, costituendo l’expetise del loro lavoro; però ho avuto modo di analizzarla grazie al successivo lavoro di riflessione condivisa. Ho così individuato il nucleo nevralgico della ricerca in comunità: il tema del cambiamento esistenziale ricercato entro il percorso terapeutico in relazione alla dimensione emotiva, tema che cominciai a esplorare innanzitutto sulla mia persona e, in un secondo tempo, nelle interviste somministrate allo staff di Riviera Flowers. Ho cominciato a elaborare le interviste dopo un anno di permanenza continua in comunità e a somministrarle dopo circa due anni di frequentazione, nel periodo in cui cominciavo a sganciarmi dal mio ruolo di volontaria presso la struttura (verso l’autunno del 2014). A partire dal tema del cambiamento, e ravvisando nella teoria dell’antropo-poiesi una chiave di lettura per la mia
stessa esperienza e un concetto-ponte2 che poteva rivelarsi estremamente utile come snodo
comunicativo nelle interviste, ho cominciato ad analizzare la comunità terapeutica nei termini di un dispositivo antropo-poieitico di tipo particolare, assimilabile, seguendo la teoria di Remotti, ma coerentemente anche con la memoria storica della comunità, a un percorso
1 Tratto dal diario etnografico di comunità, maggio 2013.
rituale di destrutturazione e ri-costruzione dell’umano1. Che la teoria dell’antropo-poiesi mi abbia offerto una griglia di lettura, un piano di intelligibilità, per l’esperienza di cambiamento vissuta e analizzata in comunità, emerge chiaramente dalla seguente citazione, tratta dal progetto di ricerca.
Le comunità terapeutiche, in base alla distinzione appena esplicitata, costituiscono dei dispositivi antropopoietici di tipo b, in quanto sono intenzionate a produrre una modifica radicale nel modo di stare al mondo del soggetto: esse […] destrutturano e ristrutturano l’individuo in una forma nuova. Il fine antropopoietico è percepito esplicitamente Ad esempio, l’utente che entra in una comunità impara a vivere secondo un insieme di regole igieniche e sociali che prima potevano essere completamente estranee alla sua vita; per dirla in termini interni al contesto, al “codice di strada” viene sostituito un “codice di casa” per cui, questa volta in termini antropopoietici, possiamo dire che il fine ideale di una comunità terapeutica sia quello di dare ai soggetti una forma che sia quanto più possibile incompatibile con le dinamiche della tossicodipendenza […] ma forse oggi si sta perdendo la consapevolezza in questo fattore antropologico: il percorso di riabilitazione, soprattutto se visto da fuori, con sguardo sociologico, appare sempre più come un luogo in cui arginare i “casi irrecuperabili”, nascondendoli alla vista, piuttosto che come un processo di cambiamento esistenziale. […] Mi interessa misurare con le interviste in che misura lo staff operativo si rivela disponibile a leggere il programma terapeutico in questi termini e quale vantaggio può portare a livello pragmatico una radicale presa di coscienza del fattore “iniziatico” implicitamente perseguito in comunità [novembre 2013]
Infine, nella tesina del primo anno, con riferimento esplicito all’etnocentrismo critico di de Martino, ho racchiuso l’atteggiamento metodologico che mi ha accompagnato in comunità, coniugandolo all’ideale di spaesamento che, nel mio immaginario personale, costituiva il tratto caratteristico di una ricerca antropologica.
L’indagine etnografica non è stata dunque condotta con l’intenzione di proiettare uno sguardo neutrale e disincarnato sull’oggetto indagato perché, quanto più un fenomeno antropologico è oggettivato in questo modo, tanto più viene snaturato e distorto da lenti concettuali estranee al suo divenire storico. La ricerca è stata, al contrario, animata dall’intenzione di lasciarsi coinvolgere e
travolgere dal piano operativo e terapeutico, per esperire la potenzialità antropopoietica degli strumenti e dei linguaggi che si apprendono in comunità, in una duplice tematizzazione dell’alterità
1 Cfr. capitolo 5 della presente tesi.
esperita e delle proprie categorie interpretative. Le interviste sono state costruite per incorporare questa duplice tematizzazione [dicembre 2014].
Passaggio: seguire la rete
Il servizio al Ser.T. è invece cominciato nella primavera del 2016, dopo una fase di contatto e una trafila burocratica durata alcuni mesi. Occorre dire che non solo la mia decisione di intraprendere un ulteriore affondo etnografico in un Ser.T., ma anche la propensione a porre il focus dell’analisi etnografica sulla dimensione della terapia, piuttosto che sulla tossicodipendenza in sé sia stata in parte influenzata dall’esperienza precedente. In comunità, infatti, non mi sono sentita in una posizione comoda da cui proporre un progetto terapeutico che coinvolgesse anche gli utenti, e questo per due motivi. Innanzitutto, in comunità la tossicodipendenza è considerata, oggi, un tema molto delicato, da trattare in contesti clinici o terapeutici appropriati; io stessa dovevo sottostare al “divieto” di parlare agli utenti della loro tossicodipendenza (salvo i casi eccezionali in cui mi veniva esplicitamente chiesto di condividere con un utente), poiché non disponevo degli strumenti per contenere il
negativo che trapela dalla persona in relazione ai suoi vissuti di tossicodipendenza. Tale
“regola” mi ha sicuramente condizionato, anche se devo ammettere che, dopo due anni di comunità, si erano creati i presupposti per piegare la ricerca anche in questa direzione. Ho scelto però di percorrere un'altra via. Il secondo motivo che mi ha spinto a direzionare il mio sguardo sul dispositivo terapeutico, invece che sulle persone, era il sentore che queste si sarebbero potuti sentire delle cavie in un progetto di ricerca che non avesse previsto anche un vero e proprio percorso di soggettivazione per la persona, che non avesse avuto, in altri termini, un risvolto terapeutico, cosa che avrebbe richiesto un implementazione effettiva e