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L’inevitabilità dell’etnocentrismo

L’etnocentrismo critico è la consapevolezza teorica che entro ogni sguardo si sedimenta l’intera storia culturale dell’osservatore e che è impossibile liberarsi da questa storia per cogliere il proprio oggetto di studio al di fuori delle proprie abitudini concettuali. Nelle parole di de Martino: «una prospettiva assolutamente non etnocentrica è un assurdo teorico e un’impossibilità pratica, poiché equivarrebbe ad uscire dalla storia per contemplare

tutte le culture, compresa la occidentale»4. La pretesa di guardare al proprio oggetto in modo

disincarnato, per offrirne una descrizione oggettiva e neutrale, è un’illusione teorica e costituisce la forma di etnocentrismo più insidiosa, dogmatica, perché incapace di riconoscersi come tale. L’unica via di uscita, secondo de Martino, è l’adozione consapevole e critica del proprio, inevitabile, etnocentrismo.

L’etnocentrismo critico costituisce, a mio avviso, la postura esistenziale imprescindibile di ogni impresa etnografica e, a maggior ragione, l’atteggiamento richiesto da                                                                                                                

1 Latour 1991, p. 142. 2 Ibid., p. 135. 3 Ibidem.

un’antropologia simmetrica. In quel che segue intendo ripercorrere in un breve excursus storico la graduale esplicitazione dell’etnocentrismo critico da parte di de Martino, intendendolo come una sorta di filo conduttore nel pensiero dell’etnologo napoletano. L’etnocentrismo critico traspare, infatti, inizialmente, nel pensiero dello storico delle religioni, come l’atteggiamento di apertura al diverso e di auto-riflessione critica che ha caratterizzato la postura esistenziale di de Martino fin dai suoi primi affondi storici e avventure etnografiche, per poi essere esplicitamente tematizzato nella prospettiva teorica dell’umanesimo etnografico e metodologicamente codificato nello “scandalo antropologico”, capace di rendere osservabile quanto per principio, in ogni osservazione, non può essere osservato – ossia lo sguardo che guarda. Nell’etnocentrismo critico la consapevolezza nella storicità della prospettiva assunta si combina all’imperativo metodologico di tematizzare continuamente, assieme all’oggetto studiato, anche le categorie che intervengono nello studio dell’oggetto, in un tentativo perpetuo di riportare allo spettro visibile quei tratti del nostro

“gioco linguistico” che «stanno lì, come un che di animale»1, invisibili e presenti. Mi

chiederò, inoltre, se e quali modulazioni la prospettiva dell’etnocentrismo critico dovrà assecondare per integrarsi a un’antropologia simmetrica, ossia per “funzionare” anche laddove lo scandalo antropologico rischia di non essere abbastanza dirompente da rendere evidenti la categorie in uso dal ricercatore.

L’etnocentrismo critico è quindi un invito a ripercorre la storia che si sedimenta in quelle categorie che, approcciandoci verso il nostro campo di indagine, non possiamo non utilizzare. È quindi una spinta a maturare una sensibilità storica rispetto a quegli “oggetti” che, solitamente, sono accolti come del tutto astorici: concetti, idee, astrazioni. Nell’ambito che mi compete, quello delle tossicodipendenze, adottando la postura esistenziale dell’etnocentrismo critico, cercherò di dissotterrare quella storia (politica ed epistemologica) che si è accumulata in quei concetti che oggi ricercano un’oggettivazione a tratti rassicurante di un fenomeno che in parte spaventa e in parte sembra sfuggire a ogni comprensione (forma di devianza, malattia, psicopatologia ecc.). Non solo, quindi, le tossicodipendenze sono un fenomeno storico-antropologico, ma anche il nostro modo di comprenderle si attinge di una storicità la cui abolizione non è indice di progresso, di acquisizione di una conoscenza fondata, universale e quindi atemporale, ma è, semmai, inconsapevole cecità dinanzi al proprio stare nella storia.

                                                                                                                1 Wittgenstein 1969, n. 359.

Sulle tracce dell’etnocentrismo critico

Storico delle religioni ed etnografo dell’Italia Meridionale, esponente eclettico di un “esistenzialismo normativo” e di uno “storicismo eroico”, Ernesto de Martino opera sulla frontiera disciplinare tra la storia e l’antropologia. L’etnocentrismo critico costituisce la duplice presa di coscienza, storica e antropologica, relativa all’impossibilità di adottare una prospettiva oggettiva e neutrale, sita fuori dalla storia e fuori dalla cultura, che si sintetizza

nell’idea che «solo nella chiarezza autobiografica riusciamo a comprendere l’altro»1. In

questo, l’etnocentrismo critico arricchisce l’antropologia simmetrica non solo di una postura esistenziale per l’incontro etnografico, ma anche di una prospettiva storica la quale, dinanzi a oggetti di indagine che tendono a cristallizzarsi in versioni atemporali, in ontologie immodificabili – tali sono le entità che popolano la scienza, che abitano la natura, che passano sotto lo sguardo medico ecc. – risulta quanto mai indispensabile.

Possiamo scorgere le radici di questo atteggiamento fin nella prima opera compiuta dell’autore, Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941), nel suo attribuire allo storico il compito dell’«allargamento dell’autocoscienza per rischiarare l’azione», atteggiamento

imprescindibile per attraversare un’Europa in crisi, avvolta nel buio dei totalitarismi2. E già in

questo primo scritto, possiamo scorgere l’espediente metodologico fondamentale che accompagna la presa di coscienza di sé, poiché l’ampliamento dell’auto-coscienza passa inevitabilmente per il momento etnografico: per cogliere certi tratti dell’animo moderno occorre il riflesso di quel “mondo primitivo” «che oggi più che mai dà segni di presenza,

simile a tradizione quasi inaridita che rinverdisca»3.

Si delinea, qui, il dibattito in cui versava l’etnologia all’epoca di de Martino, tesa nella scelta impossibile tra un naturalismo tronfio e claustrofobico e un irrazionalismo nostalgico e arcaicizzante, entro il quale la posizione offerta dall’etnocentrismo critico ha cominciato a delinearsi come via di fuga dall’aporia. Questo dibattito è ulteriormente affrontato nel saggio

Promesse e minacce dell’etnologia (1962a), dove un etnocentrismo critico embrionale

emerge chiaramente come terza via:

si trattava di una presa di coscienza culturale che, nel momento stesso in cui si apriva alla comprensione delle civiltà cosiddette primitive, poneva in causa la stessa determinazione borghese della civiltà occidentale, la sottoponeva a verifica, ne misurava i limiti interni di origine e di sviluppo;

                                                                                                                1 de Martino 1977, n. 149.

2 Cfr. Saunders 1993, p. 87.

ma tutto ciò nell’intento di guadagnare una miglior fedeltà al carattere e al destino della civiltà occidentale, ed evitando la falsa pietà storica dell’irrazionalismi variamente abdicanti, gli smarrimenti di un relativismo senza prospettiva e le sospensioni pseudo-oggettivistiche di un neutralismo che tradiva la morte di ogni capacità di scelta e della stessa volontà di storia1.

In questo saggio de Martino introduce l’etnografia come coscienza critica del limite o della frontiera tra civiltà, come la scienza che mette deliberatamente in causa i valori e la storia della propria civiltà, a partire dallo scandalo iniziale dell’incontro etnografico:

l’etnografo che pretende di rivolgersi all’ethnos escludendo, per “serietà scientifica” e per “amor di oggettività”, qualsiasi metodica ed esplicita verifica dei valori della civiltà occidentale, si rende inconsapevolmente prigioniero […] di tutto il proprio immediato folklore2.

Il pathos che anima l’impresa etnologica non è dunque, per de Martino, «la bramosia

di lontane esperienze ataviche»3, ma l’esigenza di veder chiaro in se stessi e, in particolare,

nell’atteggiamento ambivalente di attrazione e repulsione che la sua epoca manifestava dinanzi all’irrazionale, al numinoso e all’arcaico, proiettandosi con le dottrine

dell’irrazionalismo fin dentro il mondo accademico4. Vediamo già, in questo saggio, prendere

forma un procedimento metodologico riflessivo, che sfrutta l’esposizione

all’antropologicamente differente per mettere continuamente alla prova il progresso della ragione illuminista e per rendere visibili le sue inconsapevoli proiezioni – «si trattava di                                                                                                                

1 de Martino 1962a, p. 87.

2 Ibid., p. 91. Qui risuonano i termini di un dibattito molto noto agli antropologici: le critiche all’etnografia di matrice positivista, che hanno portato alla svolta riflessiva dell’etnografia. Si veda anche la colorata citazione in de Martino 1961, p. 40: «solo in poca relativamente recente, col tramonto dell’etnografia positivista e sotto la spinta di episodi culturali di varia qualità che hanno impegnato la civiltà occidentale – la fine dell’epoca coloniale e lo stupefatto incontrarsi di diverse civiltà in un pianeta diventato troppo angusto per tollerare semplici coesistenze, il consolidarsi di nuovi strumenti di analisi della vita culturale come il marxismo, la psicoanalisi e l’esistenzialismo – cominciò ad affiorare nell’indagine etnografica l’esigenza di giustificare a se stessi e al proprio pubblico entrambi i termini del rapporto, cioè chi viaggia per conoscere e chi è visitato per essere conosciuto. Si venne scoprendo che al di fuori di questa duplice giustificazione, la stessa indagine etnografica diventa impossibile, risolvendosi in un mondo di ombre visitanti e visitate, insignificanti e vane, malgrado il loro minutissimo chiacchierio: e che l’oggettività per l’etnografo non consiste nel fingersi fin dall’inizio della ricerca al riparo da qualsiasi passioni, col rischio di restar preda di passioni mediocri e volgari e di lasciarle mediocremente operare nel discorso etnografico, quasi vermi pullulanti all’interno di un decoroso sepolcro di marmo, ma si fonda nell’impegno di legare il proprio viaggio all’esplicito riconoscimento di una passione attuale, congiunta ad un problema vitale della civiltà cui si appartiene». Sottolineo, inoltre, la precocità delle riflessioni di de Martino rispetto alla svolta interpretativa dell’antropologia, la quale comincia negli anni Settanta (cfr. Fabietti et al. 2012, pp. 120 e seg.).

3 Ibid., p. 85.

4 Sulla posizione di de Martino nei confronti dell’irrazionalismo, che riduceva il fenomeno religioso all’esperienza del numinoso, cfr. il saggio «Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto», in: de Martino 1995, pp. 47-74.

liberarsi, attraverso la scienza dell’ethnos, dei cosiddetti “etnocentrismi occidentali”»1. Questo procedimento, che combina l’esposizione al radicalmente altro al ripiegamento riflessivo su se stessi, andrà via via definendosi in modo sempre più accurato nel pensiero dello storico delle religioni, fino alla tematizzazione compiuta riposta in alcuni frammenti della raccolta postuma La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali

(1977), in particolare nel blocco di appunti intitolati «L’umanesimo etnografico»2, in cui de

Martino tematizza l’intimo paradosso che abita ogni incontro etnografico.

Ne troviamo intanto una prima esemplificazione pratica nell’opera Il mondo magico.

Prolegomeni a una storia del magismo (1948), dove de Martino, introducendo una

prospettiva storicista in etnologia, cerca di assolvere l’impegno assunto in Naturalismo e

storicismo. Qui de Martino pone una distinzione molto netta tra il “mondo magico” e il

“mondo scientifico” che mitigherà in seguito, proprio a partire da quel movimento di presa di coscienza codificato dalla prospettiva dell’etnocentrismo critico, riconoscendo appunto le sue unità di analisi come “astrazioni etnografiche”; ma è proprio grazie a questa astrazione che, in questo testo, possiamo vedere all’opera, forse meglio che altrove, il meccanismo dello scandalo antropologico, nel suo utilizzare il radicalmente altro come uno “specchio antropologico”, uno specchio invertito che consente di vedere meglio se stessi.

Anche in questo testo l’obiettivo polemico è l’adozione di una chiave di lettura naturalista nello studio dei fenomeni magico-religiosi, la quale è incapace di esporre le categorie interpretative utilizzate entro uno risvolto critico che tematizzi, appunto, sia l’oggetto di studio (l’ethnos del magismo) che il suo soggetto (la storicità dei concetti usati

dall’etnologo nella sua comprensione del mondo magico)3. L’analisi dei dati etnografici sul

magismo è quindi condotta da de Martino nell’ottica di un ampliamento dell’auto-coscienza critica della nostra civiltà. Come l’autore sottolinea nella prefazione,

un’interpretazione storicistica del magismo deve costituirsi come reale

incremento della nostra consapevolezza storiografica, e pertanto deve essere pronta e

aperta alla conquista di nuove dimensioni spirituali, e alla ulteriore articolazione o

                                                                                                                1 Ibid., p. 86.

2 de Martino 1977, blocco 3.3. Cfr. anche il blocco 1.5.4. intitolato «Storia, storiografia e storiografia religiosa». 3 Cfr. anche de Martino 1962c, pp. 5-9. Nell’introduzione a questa raccolta di saggi finalizzata a ripercorrere la storia del concetto di magia, de Martino scrive che «la civiltà occidentale si è venuta plasmando come civiltà moderna in una assidua polemica antimagica, le cui varie istanze e modalità operano inconsapevolmente in chi si appresta a giudicare i comportamenti magici […] Tuttavia né l’antropologia culturale né altri domini […] hanno messo a punto un metodo valido per proteggere il ricercatore occidentale dai suoi propri etnocentrismi […] l’antropologo è continuamente esposto al pericolo di proiettare acriticamente in determinati fenomeni culturali extraeuropei i problemi […] che appartengono esclusivamente a singole epoche della storia interna della civiltà occidentale».

addirittura alla totale riplasmazione della metodologia storiografica alla luce delle nuove esperienze1.

L’interpretazione storicista del magismo si articola in due fasi: in un primo momento, «il pensiero resta immediatamente legato all’angustia di una Einstellung culturale non

consapevole di sé»2, per cui accoglie come oggetto della ricerca esclusivamente il mondo

magico. Se l’etnografia si limita a questa prima fase, il problema dei poteri magici (cure rituali, metamorfosi sciamaniche, sogni rivelatori, padronanza su elementi naturali quali acqua e fuoco, divinazioni ecc.) sfocia immediatamente nel presupposto ovvio della loro “irrealtà”, poiché tali fenomeni sfuggono all’«universo dato all’osservazione, controllabile

con l’esperienza, risolubile razionalmente nella legalità scientifica»3. Nel secondo momento,

invece, il pensiero «acquista coscienza dei limiti del proprio orizzonte storiografico e sottopone ad analisi non soltanto il mondo magico, ma anche il modo occidentale di

accostarsi ad esso»4, ossia le categorie culturali con cui l’etnografo si accinge a interpretarlo,

che si palesano così nella loro storicità. In particolare, in questo secondo momento, è il nostro concetto di “realtà” a essere investito dallo “scandalo antropologico” del magismo.

Se ci accostiamo al problema dei poteri magici a partire da un concetto “scientifico” di realtà, inteso come piano di datità naturale, i “fenomeni paranormali” del mondo magico appariranno agli occhi del naturalista come qualcosa di “scandaloso”. Il mondo magico, che si caratterizza per la compenetrazione tra il piano psichico e il piano naturale, per la labilità del confine che separa il soggetto dalla realtà esteriore, per l’instabilità del mondo e l’incertezza della presenza, risulta impalpabile a partire da un concetto di “realtà” i cui estremi sono un mondo stabile e garantito e un individuo altrettanto fatto e finito.

La scienza è nata ritirando gradualmente e in modo sempre più consapevole la psichicità dalla naturalità: la possibilità di fenomeni paranormali significa per essa un vero e proprio “segno di contraddizione”, uno “scandalo”, in quanto la paranormalità è, in generale, di nuovo psichicità che torna nella natura, e natura che si carica di psichicità5.

                                                                                                                1 de Martino, 1948, p. 5.

2 Ibid., p. 6.

3 Ibid., p. 53. Cfr. anche de Martino 1962c per un tentativo di raccogliere la storia sedimentata nel concetto occidentale di “magia”.

4 Ibid., p. 6. 5 Ibid., p. 52.

Dinanzi allo scandalo con cui la magia scompiglia la nostra idea di realtà sono possibili due atteggiamenti: o teniamo ferma, intangibile e inalterata l’idea di realtà, squalificando la magia come impostura, credenza irrazionale, o suggestione soggettiva, ma così non guadagniamo alcun incremento nella nostra consapevolezza storiografica; oppure ci lasciamo investire dallo scandalo antropologico, riconoscendo la nostra idea di realtà come una “conquista” storica della civiltà occidentale. Nel primo caso, l’etnografo assume il piano della datità naturalistica come l’unico possibile, «ma proprio quest’assunzione dogmatica si

rivela in sostanza come boria culturale»1 poiché «facciamo dogmaticamente assurgere a

modello valido per tutte le forme culturali il nostro modo storico di esistere»2. La nostra idea

storica di realtà diventa qui la realtà universale, e il dramma storico al cuore del magismo ci rimane precluso. Nel secondo caso, invece, l’etnografo si veste dell’atteggiamento che in seguito verrà esplicitamente assimilato all’etnocentrismo critico e scopre nell’incompatibilità tra la “realtà scientifica” e la “realtà magica” una duplice occasione – l’occasione di intraprendere quella che più avanti de Martino indicherà come la «duplice tematizzazione della storia propria e della storia aliena».

Ripercorrendo in analogia l’argomento demartiniano in relazione al tema della presente ricerca: possiamo accontentarci di cogliere le tossicodipendenze attraverso l’oggettivazione oggi più di moda, secondo cui esse costituiscono una patologia cerebrale a ricaduta cronica; ma cosa ci guadagniamo nel pietrificare in una natura universale un fenomeno che ha una matrice storica e sociale inconfutabile? E che è oggi compreso entro categorie epistemiche che hanno, a loro volta, una storicità? E cosa ci guadagnano le persone così pietrificate, lasciate senza neanche l’illusione di un possibile cambiamento? Ripiegando il procedimento verso il tema della presente ricerca, mi chiedo: quali concetti saranno investiti da un’interpretazione storicista della tossicodipendenza, condotta mediante la duplice tematizzazione dell’oggetto indagato e delle categorie con cui ci avviamo a comprenderlo? Come il mondo magico si palesa come scandalo antropologico dinanzi alla nostra idea di “realtà”, che scandalo possiamo aspettarci scaturisca da un’antropologia simmetrica delle tossicodipendenze? L’etnocentrismo critico ci spinge, in questo caso, a fare della tossicodipendenza uno “scandalo antropologico” dinanzi ai nostri concetti di salute e malattia, al modo in cui il mondo magico è uno scandalo dinanzi alla nostra idea di realtà. E se altrove de Martino invita ad andare a vedere cosa c’è di sano nella malattia (poiché fare il contrario, ravvisare il malato nel sano, sarebbe già di per sé sintomo di malattia), possiamo forse                                                                                                                

1 Ibid., p. 53. 2 Ibid., p. 76.

scorgere nella tossicodipendenza una sana esigenza di cambiamento, di rinnovamento, di

trasformazione alla quale la nostra società sarebbe incapace di rispondere1.

Lo scandalo antropologico è dunque ciò che consente la presa di coscienza nei limiti del proprio orizzonte storiografico; nel caso del magismo, lasciarsi investire dallo scandalo significa riconoscere la storicità del nostro senso del reale.

La realtà come indipendenza dal dato, come farsi presente di un mondo osservabile, come alterità decisa e garantita, è una formazione storica correlativa alla nostra civiltà, correlativa cioè, alla presenza decisa e garantita che la caratterizza. Questa realtà, che potremmo anche chiamare “naturalità”, si palesa come trovarmi dato nel mondo e come mondo che trovo nel suo farsi presente a me, senza che questo duplice ritrovamento formi problema culturale2.

Se lo scandalo non viene bloccato proiettandoci sopra inconsapevoli etnocentrismi, si schiude la possibilità di comprendere in modo autentico il dramma storico che abita il mondo magico, in cui la realtà esterna non è mai certa, stabile e garantita, e la fragile presenza dell’individuo è costantemente esposta al rischio di perdersi, di divenire un’eco del mondo. Quale trama storica, possiamo chiederci di conseguenza, ha portato all’oggettivazione della tossicodipendenza come malattia? Che dramma storico possiamo quindi scoprire nel cuore della tossicodipendenza, se non la rendiamo muta proiettandoci sopra la categoria

irremovibile di malattia3?

Nel mondo magico, ciò che qui è un presupposto sta ancora come problema. Nel mondo magico l’anima può essere perduta, nel senso che nella realtà, nell’esperienza e nella rappresentazione essa non si è ancora data, ma è una fragile presenza che il mondo rischia di inghiottire e di vanificare. Nel mondo magico l’individuazione non è un fatto, ma un compito storico4.

Il dramma storico del mondo magico riguarda il fatto che la presenza5 e il mondo non

sono ancora decisi, distanziati, definiti nei loro reciproci confini, ma sono continuamente in                                                                                                                

1 Per un’interpretazione della tossicodipendenza come esigenza profonda di trasformazione, come desiderio atavico di rinascere in una forma nuova, cfr. Zoja 1985. Anche in Nathan 2009, pp. 256 e seg., si trova la lettura di un caso di una giovane adolescente eroinomane nei termini di un’esigenza di trasformazione, e della droga assunta come agente metamorfico.

2 Cfr. de Martino 1948, p. 128.

3 Questa tema in parte già delineato nel capitolo 1, ripercorrendo la storia degli approcci antropologici, sarà ripreso nel capitolo 4 e nel capitolo 7.

4 Ibid., p. 75.

5 Per il concetto di “presenza” cfr., ad es., de Martino 1995, p. 59: «La presenza è il primo bene vitale umano: e lo è proprio perché in date condizioni storiche può correre il rischio di andare perduto. È un errore ritenere che la

atto di decidersi, di definirsi, di fissare le frontiere tra l’io e il mondo. Come precisa de Martino, «in realtà il problema del magismo non è di “conoscere” il mondo o di

“modificarlo”, ma piuttosto di garantire un mondo a cui un esserci si rende presente»1.

Nell’intromissione continua di forze soggettive e intenzionali nel mondo naturale degli oggetti (nella forma delle influenze malevole, delle fatture, dei sortilegi, di entità spiritiche, premonizioni, sogni visionari e così via) e, specularmente, di forze oggettive estranee che invadono la presenza, la colonizzano, la comandano, la reificano (nella forma delle possessioni, dell’essere-agito-da, delle imitazioni speculative, delle stereotipia ecc.) sta lo scandalo con cui il mondo magico si schiude all’occhio scientifico, dinanzi al quale la