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Vignetta storica

Quando nel 1975 il filosofo della scienza Paul Feyerabend auspicava, contro una secolare tradizione di pensiero, l’uso del metodo antropologico per indagare il sapere scientifico, dichiarandolo «il metodo corretto per lo studio della struttura della scienza (e

anche di qualsiasi altra forma di vita)»3, non sapeva che di lì a poco, nel giro di una decina

d’anni, sarebbero esplosi i cosiddetti laboratory studies, ossia gli studi etnografici condotti proprio nei luoghi di produzione della conoscenza scientifica. Quando invece, nel 1979, Bruno Latour pubblicò con Steve Woolgar i risultati del suo campo etnografico condotto durante due anni di permanenza presso il laboratorio di neuroendocrinologia del dott. Roger Guillemin (Nobel per la medicina nel 1977) nel saggio Laboratory Life. The Construction of

Scientific Facts (1979), furono invece gli scienziati a stupirsi del fatto che quello era «il primo

tentativo di studiare in modo dettagliato le attività quotidiane degli scienziati osservati nel

loro habitat naturale»4; per loro, l’importanza di studi del genere era cosa alquanto ovvia.

Negli anni in cui Latour cominciava ad affacciarsi sul mondo accademico, da giovane studente degli anni Settanta, l’antropologia si sdoppiava (in modo forse ancora più netto di quanto continui a fare oggi, sulla scena accademica italiana, perpetuandosi in tali inderogabili                                                                                                                

1 Cfr. Feyerabend 1975.

2 Come introduzioni storiche all’etnopsichiatria cfr. Coppo 2005 e Beneduce 2007. 3 Feyerabend 1975, p. 209.

termini nell’insegnamento1) in un’antropologia fisica o biologica, intenzionata a studiare la

natura universale condivisa da tutti gli umani, in quanto appartenenti alla specie Homo sapiens, e un antropologia sociale o culturale, interessata a esplorare la variabilità culturale

che differenzia gli umani, in quanto appartenenti a culture diverse, sortendo l’idea che si potesse studiare l’umano in due modi opposti, e tra loro incommensurabili: un modo letterale, obiettivo e fondato, e un modo metaforico, soggettivo, opinabile; un modo nomotetico, scientifico, misurabile, e un modo idiografico, interpretativo, aneddotico; un modo vero, naturale, sostanziale, e uno falso, superficiale, smascherabile. La cultura costituiva, insomma, una patina cangiante di quell’immodificabile natura sottostante.

É facile capire quale fosse la conseguenza di una simile ripartizione dei compiti fra le culture al plurale e la natura al singolare per il progetto antropologico: la molteplicità stessa delle culture poteva stagliarsi vividamente solo sullo sfondo bianco e omogeneo dell’unica natura. Si può addirittura sostenere, senza offendere antropologi e antropologhe, che il coraggio con cui affrontavano la diversità delle culture derivava probabilmente da questa sicurezza di una natura oggettiva, fredda, certo gelidamente indifferente agli esseri umani, ma in ogni caso solida e rassicurante nel suo ruolo di sfondo. Si affronta meglio la molteplicità quando si può segretamente contare su di un’indiscutibile e preventiva unificazione. Si registrano con maggiore equanimità i diversi modi di pensare per esempio il parto, se sappiamo di poter trovare nella fisiologia una e una sola definizione della maniera biologica di fare i bambini2.

Latour definisce come “condizione classica” o “condizione moderna” la suddetta situazione, in cui «l’affermazione della molteplicità era in fondo assai poco impegnativa, poiché non faceva presa su nulla di veramente essenziale: non aveva un ancoraggio

ontologico durevole»3. Gli oggetti studiati dall’antropologia non erano enti di natura, costanti

oggettive e universali, ma produzioni culturali, artefatti materiali pasticciati da significati simbolici che poco avevano a che fare con la conoscenza concreta del mondo; nella migliore delle ipotesi, potevano assolvere la funzione pratica, psicologica, di proteggere i primitivi dall’angoscia di fenomeni ai loro occhi inspiegabili, nella peggiore erano in tutto e per tutto riassorbiti nell’ambito della superstizione. Nella condizione moderna, l’antropologo si accosta alle culture come fossero “visioni del mondo” o “rappresentazioni parziali”, negando loro una portata conoscitiva la cui ammissione si sarebbe inevitabilmente scontrata con quell’unica                                                                                                                

1 Cfr. Consigliere 2014a. 2 Latour 2003, p. 193. 3 Ibid., p. 194.

versione della natura, concreta, materiale e misurabile, accessibile solo attraverso un metodo scientifico. Tutte le differenze culturali (soggettive, superficiali, opinabili) potevano inoltre essere pacificate appellandosi al quell’unica natura unificata (oggettiva, incontrovertibile,

sostanziale) senza risolversi mai in una “guerra di mondi”1.

Le conseguenze di una simile partizione si manifestavano con la medesima chiarezza quando l’antropologo, ritornato dai Tropici, decideva, «in un primo tempo con circospezione,

per non dire con titubanza»2 di studiare anche la propria società. Come approcciarsi, infatti, a

quella cultura che aveva prodotto l’unica rappresentazione vera della natura (la conoscenza scientifica)? Ecco quindi palesarsi l’asimmetria costitutiva, in opposizione alla quale va definendosi l’antropologia simmetrica.

Sotto il sole dei Tropici l’antropologo non si accontenterebbe di studiare i margini delle altre culture. Anche se resta marginale per vocazione e per metodo, è comunque il loro centro che vuole ricostruire […] se ritorna al suo paese e si accontenta di studiare gli aspetti marginali della sua cultura, finisce col perdere tutti i vantaggi dell’antropologia. Come fa, per esempio, Marc Augé, che tra le popolazioni lagunari della Costa d’Avorio ha cercato di comprendere la stregoneria come fatto sociale totale [1975], ma, ritornato in Francia, si è limitato a studiare gli aspetti più superficiali della metropolitana [1986] o dei giardini del Luxembourg. Un Augé simmetrico studierebbe non solo qualche graffito sui muri delle stazioni del metrò, ma la rete socio-tecnica del metrò stesso, i suoi ingegneri e conducenti, i suoi dirigenti e i suoi utenti, lo Stato proprietario e gestore, e via discorrendo. Molto semplicemente, continuerebbe a fare nel suo paese quello che ha sempre fatto laggiù. Ritornando, gli etnologi non dovrebbero limitarsi alla periferia altrimenti, restando asimmetrici, dimostrerebbero coraggio verso gli altri e timidezza nei propri confronti3.

Invece di studiare, come in Africa, in Asia e in Sudamerica, le culture nei loro aspetti centrali e fondamentali (purché simbolici e non reali), in base a un metodo etnografico olistico e tendenzialmente totalitario, l’antropologo di ritorno dai Tropici si limitava, secondo Latour, a raccontare solo quegli aspetti marginali della propria società (anch’essi simbolici e non reali). Proprio come nella prima ondata della drug ethnography, dove il mondo dei tossici veniva ritratto come una sub-cultura retta da logiche, credenze e valori irrelati a quelli della                                                                                                                

1 Cfr. Latour 2000a, p. 171: «le guerre non riguardano mai i mondi, ma soltanto le rappresentazioni simboliche del mondo. L’unità è già fatta: basta che la dose di natura universale aumenti dappertutto e l’accordo si farà per semplice conseguenza. Infine, dato che questa natura universale non ha un senso umano, è indispensabile conservare le culture per abbellire, arricchire, decorare con valori e passioni il duro mondo dei fatti e della ragione – a condizione, beninteso, che nessuna di queste cultura mantenga delle pretese ontologiche».

2 Latour 1991, p. 132. 3 Latour 1991, p. 133.

società dominante, come una realtà esotica, laterale e separata dal restante mondo sociale. Nella condizione moderna, la lacerazione tra «un modo antropologizzabile di esistere» (quello degli altri, che possono figurare come oggetti a tuttotondo dell’indagine etnografica) e «un

modo radicalmente non antropologizzabile di stare al mondo»1 ( quello scientifico, che ci

garantisce il ruolo di soggetti incontestabili del sapere antropologico) determinava quali aspetti del nostro mondo fossero suscettibili di figurare come oggetti del sapere antropologico. Gli antropologi, scriveva Latour,

quando rivolgevano i loro strumenti, i loro concetti, i loro metodi verso se stessi, verso di noi, verso Parigi, affermavano con modestia di poter cogliere “solo alcuni aspetti” delle società contemporanee, quegli aspetti che a me sembravano i più folclorici, arcaici, superficiali, e in ogni caso i meno centrali, delle società moderne. A meno che, e tutto stava in quell’ “a meno che”, non si

cambiasse completamente metodo […] Mi dicevo, dunque, che era necessario “simmetrizzare” gli

approcci2.

Ancora giovane filosofo, Latour, di ritorno dai Tropici, dopo un campo di due anni ad Abidjan in Costa d’Avorio, comincia la sua esperienza etnografica presso il laboratorio di Guillemin che confluirà nel saggio Laboratory life, redatto a quattro mani con Steve Woolgar. Retrospettivamente, una trentina di anni dopo, il filosofo ricorda:

Tutto quello che avevo imparato in due anni di ricerca sul campo ad Abidjan mi sembrava assolutamente inutile dopo due giorni di lavoro nel laboratorio di Roger Guillemin al Salk Institute – per non parlare dell’inutilità dei miei cinque anni di corso in epistemologia… Confesso di non essermi ancora del tutto rimesso da quell’avvenimento. Con la triade rito-mito-simbolo non si fa molta strada in un laboratorio […] il punto non è che le scienze erano particolarmente difficili da studiare […], ma piuttosto perché forniscono la prima vera prova […] della fragilità costitutiva delle categorie fondamentali della spiegazione antropologica3.

Fragilità che, come sottolinea immediatamente Latour, non concerne tanto il valore interpretativo di tali categorie e la loro inapplicabilità alla dimensione della scienza, ma «proviene da un’indebita ripartizione fra l’unità (della “natura”) e la molteplicità (delle “culture”)»; detta altrimenti, uno studio antropologico sulla scienza, per essere simmetrico, deve valicare la dicotomia tra natura e culture, evitando per giunta i due riduzionismi                                                                                                                

1 Latour 2003, p. 193. 2 Ibid., pp. 194-195. 3 Latour 2003, p. 196.

omogeneizzanti che si arenano nello studio della costruzione culturale della natura o nella

naturalizzazione della cultura1.

Nel saggio Non siamo mai stati moderni (1991), Latour introduce l’antropologia simmetrica come un’antropologia che ritorna dai Tropici; in questo caso, però, l’antropologo, nel tentativo di applicare il metodo etnografico allo studio della società da cui proviene, si

accorge di aver bisogno di «immaginare un’antropologia un po’ diversa»2, un’antropologia

non asimmetrica, non moderna, non culturale. Per dare una piega simmetrica all’antropologia

occorre indagare proprio quanto sta al centro della nostra società (la ragione, la natura, lo stato, la scienza ecc.) o, in altri termini, quelle che Latour chiama, con fare mitologico, «le tre divinità congiunte: l’Efficienza (tecnica), la Redditività (economica) e l’Oggettività

(scientifica)»3. È in tale ottica che ho cercato di dare un taglio al mio oggetto di indagine,

studiando le tossicodipendenze non come fenomeno di consumo che si esprime ai margini del sociale, ma come problematica che viene lavorata al centro della nostra società, lungo una rete che, dal servizio sanitario nazionale, si dirama sul territorio, connettendo cliniche, comunità terapeutiche, ospedali, prefetture, tribunali, comuni e ponendo questioni che non riguardano la “natura” della tossicodipendenza, né la tossicodipendenza come “sub-cultura”, bensì la costruzione “tecnica” dei tossicodipendenti come malati o come delinquenti, a partire dalle pratiche terapeutiche, dagli iter giuridici e dalle conoscenze scientifiche che ne promuovono la cura, la riabilitazione e l’oggettivazione.

Un’etnografia della scienza

Laboratory Life. The Construction of Scientific Facts (1979), opera prima di Bruno

Latour, scritta assieme al sociologo Steve Woolgar è la testimonianza di un’antropologia che, ritornata dai Tropici, si trova costretta a ripensare se stessa; in essa affondano le radici dell’antropologia simmetrica, a partire dalla lucida e insolita suggestione che ha animato il

nostro giovane filosofo: «applicare i metodi etnografici allo studio della pratica scientifica»4.

                                                                                                               

1 Latour fa qui una mossa analoga a quella che Taussig volge alle “antropologie della illness” (vedi sotto): non si tratta di sostituire a una concezione naturalistica della malattia l’idea di una costruzione simbolico-culturale della stessa, ma di andare a vedere in che modo la pratica clinica costruisce la malattia come realtà naturale. Latour, analogamente, non va a studiare la scienza come costruzione culturale, ma va a vedere come la pratica scientifica costruisce “il fatto” come realtà naturale. La differenza è sottile, ma profonda e porta in luce quello che normalmente rimane in ombra lavorando sotto la dicotomia: la dimensione tecnica, pragmatica, operativa rispettivamente della scienza e della clinica. Cfr. Taussig 1980b.

2 Latour 1991, p. 135. 3 Latour 2003, p. 195. 4 Latour 2003, p. 192.

Da quel che mi risulta, prima di Latour nessuno l’aveva fatto, e solo Feyerabend, forse, lo

aveva immaginato1.

A partire da questo testo, e dalla Postfazione alla seconda edizione (1986), in cui gli autori segnalano le differenze tra il loro approccio etnografico e quello dei laboratory studies nel frattempo proliferati, sarà quindi possibile saggiare i motivi originari che hanno portato all’adozione di una prospettiva antropologica entro gli studi sociali sulla scienza e di individuare, allo stadio embrionale, molti degli ingredienti che andranno in seguito a costituire l’antropologia simmetrica propriamente detta.

Nel panorama degli studi sociologici sulla scienza degli anni Settanta, il contributo etnografico di Woolgar e Latour si palesa in poco tempo come decisamente innovativo almeno in relazione a tre aspetti: 1) il taglio etnografico, locale con cui viene studiata la scienza, nel suo farsi e disfarsi propriamente tecnico, in un laboratorio, in opposizione alla tendenza sociologica di studiare la scienza a livello “macro”, come istituzione globale; 2) la sostituzione del “fatto tecnico” al “fatto sociale” come oggetto di indagine; e 3) l’adozione di un metodo esplicitamente riflessivo (concetto qui sviluppato in modo autonomo rispetto all’antropologia post-moderna). Lo studio si inserisce lungo la scia del programma forte in sociologia della conoscenza avviato da David Bloor, che spinge i sociologi a non limitare i propri interessi alle credenze (false) che abitano la pratica scientifica, ma di studiare con lo

stesso approccio anche le sue verità2. La stessa antropologia simmetrica include tra le sue tre

“pieghe simmetriche” l’esigenza di una simmetria tra il vero e il falso che Bloor introduce in sociologia.

                                                                                                               

1 Gli stessi Woolgar e Latour sottolineano come il loro sia stato il primo studio etnografico condotto entro un laboratorio scientifico. Cfr. Latour & Woolgar 1986, p. 274: «Quando nel 1979 è apparsa la prima edizione di Laboratory Life, fu sorprendente realizzare che questo fu il primo tentativo di condurre uno studio dettagliato delle attività giornaliere degli scienziati osservati nel loro habitat naturale». Il contributo di Woolgar e Latour si contrapponeva agli studi sociologici sulla scienza proprio perché si proponeva di studiare (etnograficamente) non la dimensione sociale della scienza, ma la dimensione tecnica della pratica scientifica. Cfr. Feyerabend 1975, p. 209: «il mio ragionamento presuppone, ovviamente, che il metodo antropologico sia il metodo corretto per lo studio della struttura della scienza (e anche di qualsiasi altra forma di vita)»; p. 210: «Il bisogno di case studies antropologici in un campo che inizialmente sembrava essere dominato da un singolo mito, sempre lo stesso, sempre usato nello stesso modo, indica che la nostra comune conoscenza della scienza può essere gravemente lacunosa […] Dobbiamo accostarci ad essa come un antropologo si avvicina ai contorsionisti mentali degli stregoni di un’associazione di tribù appena scoperta».

2 Cfr. Bloor 1976, pp. 7 e seg. Il programma forte di sociologia della conoscenza scientifica prevede quattro punti: 1) conoscenza è tutto ciò che è ritenuto tale; sono cause sociali a trasformare le nostre credenze in conoscenze; 2) principio di imparzialità tra vero/falso, razionale/irrazionale ecc.: entrambi i lati della dicotomia richiedono una spiegazione; 3) principio di simmetria nello stile interpretativo: uno stesso tipo di causalità sociale interviene a spiegare tanto le credenze vere, quanto quelle false; 4) principio di riflessività: i modelli esplicativi della sociologia devono essere applicati alla sociologia stessa. Per un dibattito tra Bloor e Latour cfr. Bloor 1999 e Latour 1999a.

Disciplina che si è costituita a partire dai lavori pionieristici di Robert Merton, la sociologia della scienza si occupa dei fattori socio-economici che influenzano la produzione, il consolidamento e la circolazione della conoscenza scientifica, soprattutto da un punto di vista macro-sociale. Entro tale scenario, Woolgar e Latour propongono, in netta controtendenza, uno studio locale, condotto in situ, presso la tribù di scienziati del Salk Institute for Biological Studies a La Jolla, California. Questa etnografia, il cui fine è di descrivere il modo in cui, nel laboratorio in questione, viene prodotto un fatto scientifico, muove dall’osservazione semplice e distaccata di un innocuo stato di cose:

Dal volgere del secolo scorso, dozzine di uomini e donne sono penetrati nelle foreste profonde, hanno affrontato climi impervi, resistito alle ostilità, alla noia e alla malattia per raccogliere le tracce delle cosiddette società primitive. Contrariamente alla frequenza di tutte queste incursioni antropologiche, sono stati fatti relativamente pochi tentativi di introdursi nella vita intima di tribù più a portata di mano. E questo forse sorprende, data la ricezione e l’importanza conferita ai loro prodotti nelle moderne società civilizzate: ci riferiamo, naturalmente, alla tribù degli scienziati e alla loro produzione di scienza. Mentre oggi disponiamo di conoscenze alquanto dettagliate sui miti e i rituali di circoncisione delle tribù esotiche, rimaniamo relativamente ignoranti dei dettagli di analoghe attività presso le tribù degli scienziati1.

Nei toni sottilmente provocatori delle parole degli autori, in questa “finzione metodologica” che trasforma gli scienziati in una sorta di popolazione esotica e sconosciuta, prospettandosi come uno studio di “antropologia della scienza”, si potrebbe riscontrare l’aura di un primitivismo mal celato, intenzionato a rintracciare errori e superstizioni che si mimetizzano nel più insospettabile dei saperi, quello scientifico. Tutt’altro. La provocazione degli autori non è, infatti, diretta agli “scienziati-nativi” (coi quali, come è fondamentale in ogni affondo etnografico, è stato necessario costruire una relazione di stima e fiducia reciproca, in una co-produzione della conoscenza etnografica), ma ai colleghi sociologici, criticati per il fatto di restituire un’immagine della scienza come una sorta di sapere esoterico, accessibile ai soli iniziati. Limitandosi a studiare la sola componente sociale della scienza, e lasciando inalterato la “natura” del fatto scientifico (l’asimmetria tra vero e falso criticata da Bloor), i sociologici «invece di rendere la conoscenza scientifica più comprensibile […]

tendono a ritrarre la scienza come un mondo a parte»2, conferendole un’aura misticheggiante.

                                                                                                                1 Latour e Woolgar 1979, p. 17. 2 Ibidem.

Come criticato anche da Bloor, la sociologia della scienza analizza i fattori sociali che intervengono nell’impresa scientifica, quali ideologie, gerarchie sociali, movimenti economici, decisioni politiche, appellandosi a tali fattori per spiegare la produzione e la diffusione della conoscenza scientifica. Questi studi tendono però a palesarsi come asimmetrici: dimostrano, infatti, il loro valore solo ponendosi a lato della conoscenza scientifica vera e propria la quale, auto-sussistente nelle sue ragioni, poteva spiegarsi da sé. Woolgar e Latour concordano: «i fattori sociali scompaiono una volta che si è stabilito un

fatto»1.

L’interesse sociologico per la scienza appare così limitarsi ai fenomeni marginali […] quei fenomeni che inevitabilmente influiscono sulla pratica scientifica in virtù del fatto che gli scienziati sono esseri sociali; ma che rimangono essenzialmente periferici rispetto la pratica stessa2.

Richiamando all’attenzione la classica distinzione epistemologica tra un contesto della

scoperta e un contesto della giustificazione3, nello studio della conoscenza scientifica,

criticata, tra gli altri, da Feyerabend4 possiamo vedere come sociologi e filosofi di scienza si

spartissero democraticamente il campo: ai filosofi, l’analisi della struttura logica della conoscenza scientifica, ai sociologi, lo studio della componente storico-sociale della scienza. In tal senso, i sociologi contro cui polemizzano Woolgar e Latour, situandosi esclusivamente nell’ambito del contesto della scoperta, finiscono per configurare una “sociologia dell’errore”, contribuendo a consolidare una visione della conoscenza scientifica come qualcosa di

intangibile, esoterico e misterioso5. Tra questi due fronti della scoperta e della giustificazione

rimaneva, inoltre, una zona del tutto inesplorata. In esergo a Laboratory Life, la citazione di Bloor: if sociology could not be applied in a thorough going way to scientific knowledge, it

would mean that science could not scientifically kwow itself, è un invito a muoversi proprio in

questa direzione.

In pratica, il sociologo di scienza studia le componenti non scientifiche della scienza, quegli aspetti ornamentali e di superficie che magicamente spariranno una volta stabilita la                                                                                                                

1 Latour e Woolgar 1979, p. 24. 2 Ibid., p. 20.

3 Tradizionalmente, in ambito epistemologico, si definisce il “contesto della scoperta” come l’insieme delle condizioni storiche, sociali ed economiche, (includendo talvolta anche le inclinazioni psicologiche dello scienziato) che fanno da sfondo alla scoperta scientifica; e il “contesto della giustificazione” come le ragioni a sostegno di una conoscenza scientifica, dalla struttura logica della teoria alla verificabilità empirica.

4 Cfr. Feyerabend 1975, cap. 14.

5 Visione a cui i filosofi di scienza contribuivano ammantandola anche di una sua purezza – un’igiene logica mista a un’assoluta neutralità materiale e imparzialità dinanzi ai valori culturali, particolari e opinabili.

conoscenza; è in questo modo che si genera una mistica del fatto scientifico, poiché lo studio si interrompe proprio là dove esso compare:

l’enfasi sul “sociale” in opposizione al “tecnico” può condurre a una selezione esagerata di eventi da analizzare, i quali sembrano esemplificare la scienza “errata” o “in fallo” […] i fattori sociali