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non aris, non farre molae: il concetto riprende quello esposto dal discorso di Roma a

Prima confutazione (II 5-66)

23. non aris, non farre molae: il concetto riprende quello esposto dal discorso di Roma a

pagani: Ambr., epist. 73, 7 non in fibris pecudum sed in viribus bellatorum tropaea victoriae sunt. I due

321 A partire dal mondo ellenistico le tre lingue costituirono il cosiddetto collegium trilingue (MOMIGLIANO 1980, pp. 159-60). 322 La poesia lo utilizzava come sinonimo colto e ricercato: Verg., Aen. X 54; VII 233; Hor., carm. IV 4, 56; Sil. XV 153. 323 MORONI 2002, p. 24. Cfr. anche la nota relativa, n. 62.

324 Questa argomentazione viene sviluppata da Ambrogio in epist. 73, 30 sic deam esse et victoriam crediderunt, quae utique munus est, non potestas; donatur non dominatur, legionum fratia militum multitudo sibi vindicat vel proeliorum donat eventus?

325 Cic., har. 18-20, in particolare 19, 10. Ancora il pagano Cecilio, in Min. VI 2, riconosce nel successo di Roma il premio

concesso dagli dei per la sua pietas; a questa visione risponde Ottavio in XXV.

326 Così ancora Prop. III 22, 21. Enea, per quanto consapevole della sorte assegnatagli dagli dei, attribuisce il merito delle

vittorie non alla fortuna, ma alla virtus e al labor (Aen. XII 435-436): concezione che pare ben lontana dal ciceroniano gloria

virtutis umbra. Anche Prudenzio si muove su questo delicato confine, accentuando ora la virtus e il labor, ora il disegno divino

imperatori frenano la fede di Simmaco nel soprannaturale con un attacco severo, costruito sull’anafora del non e su un collegamento asindetico fortemente avversativo327.

Gli altari e il farro sono ricordati ancora in per. X 146-153 parlando delle offerte dei consoli: X 146-147 cum consulatum initis, ut vernae solent. / pudet fateri, farre pullos pascitis; 151-153 iam si sub aris ad sigillorum pedes / iaceatis infra sectilem quercum siti, quid esse vobis aestimem proiectius? Più avanti viene di nuovo canzonato un rituale pagano simile: X 259-260 adpone porris religiosas arulas, / venerare acerbum caepe, mordax allium. Il far molae è il farro macinato che, misto a sale (mola casta, mola salsa), si spargeva sull’altare e sul capo delle vittime da immolare, adoperato talvolta anche negli incantesimi328. Lo stesso segmento colometrico si trovava in CS I 203 de farre molae.

24-26.: l’elenco di valori che hanno fatto grande Roma, assicurandole i successi, sono disposti

in una successione asindetica serrata329, che si apre con la disposizione chiastica labor impiger,

aspera virtus. Questa seconda iunctura apparteneva già a Sil. VII 51, mentre il labor impiger sembra una riproposizione del labor improbus di Verg., georg. I 145-146. Presentando il binomio virtus- labor, di natura prettamente virgiliana (Aen. XII 435 disce, puer, virtutem ex me verumque laborem)330,

la poesia di Prudenzio diviene «la massima espressione della Roma cristianizzata, che riprende con diverso e più robusto spirito le tradizioni della vecchia Roma che si possono ancora accettare e che anzi dalla nuova interpretazione acquistano una forza inconsueta»331. Fra gli

elementi della virtus guerriera di Roma, Prudenzio menziona, in mezzo a elementi tutti positivi, anche la violentia, che richiama la concezione di Min. XXV, per cui il potere di Roma era originato dalla violenza e dalla sopraffazione. È da escludere però il senso dispregiativo del termine, dato il contesto celebrativo in cui si trova.

La clausola robur in armis (II 26) è ripresa da Claud., III Hon. 144; Stil. I 31, utilizzata sempre in riferimento a Stilicone332. In Stil. I 31, in particolare, la iunctura si trova all’interno di una lista di

attributi posseduti dal generale vandalico; allo stesso modo Prudenzio utilizza la formula all’interno di una lista di valori necessari ai soldati per ottenere le vittorie in guerra.

327 Richiamo a Sall., Cat. 52, 29 non votis neque suppliciis muliebribus auxilia deorum parantur; vigilando, agundo, bene consulendo prospere omnia cedunt. ubi socordiae te atque ignaviae tradideris, nequiquam deos inplores: irati infestique sunt (passo citato già da

GARUTI 1996). L’idea antica secondo cui la protezione divina era accordata a seguito di determinate azioni rituali si trovava già nella preghiera di Crise nel I libro dell’Iliade (vv. 39-41), e in Cic., Catil. II 19; ancora in per. X 285 Romano ricorda come si debba venerare adeguatamente Ercole per non essere minacciati dalla sua clava.

328 Paul. Fest., p. 110, 5 immolare est mola id est farre molito et sale hostiam perpersam sacrare; Cic., div. II 37; Verg., buc. VIII 82. Cfr. ThlL VIII, 1335, 53-82.

329 Sull’enumerazione e sui suoi limiti nella poesia prudenziana, cfr. LAVARENNE 1933, § 1578 e 1580.

330 Come i labores di Enea (Aen. VI 437; XII 177) e il labor improbus del contadino (georg. I 145-146), anche nel CS il labor segna la

fatica del cammino che conduce a Dio (I 339; II 888), della ratio che tenta di penetrare il mistero divino (II 98) e soprattutto di Roma, che ha dovuto assoggettare i suoi nemici, riconducendole sotto l’egida di un'unica mens per volere divino (II 588).

331 PARATORE 1980, p. 82.

332 BROWN 2003 (ad loc.) ritiene che qui Prudenzio, nel riecheggiare Claudiano, voglia alludere a Stilicone: le virtù militari che

hanno fatto grande Roma si trovano cioè perfettamente incarnate nel generale vandalico, come ricordato in II 743-744. Per CAMERON (1970, p. 473) l’eco di Claudiano, insieme alle molte altre disseminate qua e là nel poema, rappresenta un’ulteriore conferma per datare il CS dopo il 402, a prescindere dall’allusione alla battaglia di Pollenzo.

27-28.: aurea… / marmoreo in templo rutilas Victoria pinnas: probabilmente qui

Prudenzio sta parlando della statua della Victoria, centro della diatriba fra Simmaco e i duces333.

Ancora una volta Prudenzio si mostra abile, come in II praef. 4, nel gioco cromatico che riesce a creare fra la statua d’oro brillante (con probabili sfumature di rosso nella ali) a contrasto con il bianco del tempio marmoreo. Ne esce ulteriormente amplificata la bellezza della statua, che il lettore può immaginare di avere di fronte agli occhi nella sua vivida posa plastica. Ma questa superba descrizione della dea non è finalizzata a esaltarne le virtù e le caratteristiche: pur abbagliando la vista, la sua bellezza si rivela sempre inconsistente. Aurea Victoria è l’ultimo degli epiteti che i due imperatori attribuiscono in climax ascendente alla victoria (II 18 victoria dulcis; II 23 victoria felix; II 27-28 aurea victoria). La iunctura si trovava già in Liv. XXII 37, 5 riferita alla statua d’oro della dea che Ierone di Siracusa aveva donato al popolo romano nel 216 a.C. All’aurea Victoria rivendicata da Simmaco, Prudenzio contrapporrà l’aurea Roma (II 1114), dove aureus implica non più una realtà materiale, ma una dimensione spirituale (Roma è aurea perché, splendente della virtus militare e della fede cristiana, vive la vera età dell’oro).

Ritorna ancora la definizione del Senato come marmoreum templum (cfr. II 13 templum sacratum). Un simile accostamento verbale era già in Verg., georg. III 13 templum de marmore, Aen. IV 457; VI 69 solido de marmore templum; Prop. II 31, 9. L’aggettivo rutilus vale tecnicamente ‘rosso’ ma, stando a Claudiano secondo cui le ali della dea erano dorate (VI Hon. 598 divite pinna334), va

inteso nel significato di ‘splendente’. Per Sil. XV 99 la dea aveva invece ali candide come neve: niveis Victoria concolor alis. Non è da escludere del tutto il riferimento al rosso delle ali, che riproporrebbe l’accostamento dei tre colori (oro, bianco e rosso) tipici della sacralità divina: in II 249-253 i tre colori ritornano in funzione allegorica per indicare il templum mentis cristiano. La Vittoria viene presentata come divinità alata, secondo l’iconografia della Nike greca, già in Tib. II 5, 45; Ov., am. III 2, 45; met. VIII 13; trist. II 171. In II 36-38 Prudenzio fornisce un’ulteriore descrizione della statua: la figura femminile aveva vesti svolazzanti e poggiava a piedi nudi su un globo, recando nella mano destra una corona di lauro335.