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chao anterior: il comparativo anterior, attestato per la prima volta in Caes., civ III 63 e in

Seconda confutazione (II 67-269)

96. chao anterior: il comparativo anterior, attestato per la prima volta in Caes., civ III 63 e in

Celso VIII 9, 2458, è frequente nel latino tardo (Amm. XVI 8; Symm., epist. VI 59, 1) ed

ecclesiastico di IV e V secolo459. In Prudenzio, cfr. anche ham. 39. Chaos è termine classico della

cosmogonia460: Prudenzio lo demitizza, ricordando che «non Chaos fu in principio, ma che Dio

già era prima del Chaos e tutto ha creato»461. Cipriano Gallo lo usa per descrivere la massa

informe della materia prima della creazione (Gen. 4). Il termine indica perciò lo ‘stato confusionario’, ‘tenebroso’ di una materia informe, in cui Dio porta ordine creando la luce462:

così anche in cath. XII 40 e ham. 44 ante chaos genitus, mentre in CS II 903; cath. V 3; IX 81; per. III 5 vale ‘tenebre’. In ham. 926 significa ‘abisso’; in apoth. 750 e 823, CS I 94 vale ‘inferno’.

97-103.: in linea con la Bibbia e la Patristica463, Prudenzio non è contro la possibilità della

ragione umana di conoscere, ma essa, in quanto esposta al limite della precarietà umana, non può comprendere pienamente il mistero divino, che è in sé impenetrabile (1 Cor 2, 9-14; Min. XVII 8)464. Lo stesso concetto in per. X 311-314 Deus perennis, res inaestimabilis, / non cogitando, non

videndo clauditur, / excedit omnem mentis humanae modum / nec conprehendi visibus nostris valet. In apoth. 259-263 è l’eresia a essere accusata di voler penetrare il secretum di Dio, esistente ab aeterno e

454 Cfr. FORCELLINI, IV, 276.

455 Per altre valenze del termine in Prudenzio cfr. LAVARENNE 1933, § 1321.

456 Cfr. Dam., F. 1, 13 penetralia Christi; il termine indica anche la sacralità dell’anima: Ambr., in Luc. I 1, 12 penetralia animi; I 1,

105; Iuvenc. IV 43; Paul. Nol., carm. VI 237 penetralia mentis; Iuvenc. IV 7; Prob. 11; Dam., F. 50, 5; 60, 4 penetralia cordis.

457 Secondo LAVARENNE 1933, § 514, la correlazione vel… vel, non infrequente nel latino classico al posto di et… et (Cic., de or.

II 1, 3 quemadmodum ille vel Athenis vel Rhodi se doctissimorum hominum sermonibus dedisset), è un uso tipico del latino tardo.

458 Ma per entrambi i casi la lezione anterior è discussa e molti editori preferiscono leggere interior. 459 Cfr. ERNOUT-MEILLET 1932, p. 36; LAVARENNE 1933, § 109.

460 In quella greca antica il termine indicava la divinità dello spazio infinito e tenebroso, preesistente alla formazione del

mondo; per i romani, passò a indicare lo stato confusionario in cui versavano gli elementi primordiali. Cfr. ThlL III 990-991, 51-28; RE III, 2, 2112-2113.

461 MICUNCO 1991-1992, p. 239: al suo studio rimando per una visione sull’evoluzione semantica e concettuale del termine,

nonché per il suo uso polisemico in Prudenzio.

462 Questa concezione, fondata su Gen 1, 1-2, si trovava già espressa in Iren., adv. haer. II 14, 1, e in Lact., inst. II 8. 463 Sap 13, 5; At 17, 26-28; Rm 1, 19-20; Aug., serm. CXLI 2, 2.

464 Il concetto è basilare anche nella teologia pagana: Cels. VI 65 οὐδὲ λόγῳ ἐφικτός ἐστιν ὁ θεός; Symm., rel. III 10 tam grande secretum.

prima di ogni principium. La conoscenza di Dio da parte della mente umana è descritta nei termini di una visio dei di matrice platonica (cfr. Aug., doctr. christ. II 12).

100. penetrare Dei secreta supremi: l’allitterazione aciem/acrius, la figura etimologica del verbo

penetrare con i penetralia di v. 93, l’effetto allitterante del verso (acrius ac penetrare… secreta supremi), vogliono enfatizzare, con un linguaggio sacrale, l’infinita grandezza di Dio a confronto con la fragilità umana. Il termine secretum, appartenente al vocabolario religioso sia pagano che cristiano, è lo stesso impiegato da Symm., rel. III 10 per esprimere l’impenetrabilità del mistero divino465; cfr. anche Prud., apoth. 261. La clausola Dei secreta supremi richiama concettualmente

l’arcanum rerum di II 75, mentre la disposizione terminologica (genitivo/accusativo/genitivo) rispecchia quella di II 93 verae penetralia sectae.

102. vimque fatigatae mentis: l’espressione vim mentis ricorre identica in ham. 61 e per. X 966.

In per. X 366-369 il vigor mentis può innalzarsi verso il cielo solo grazie al cristianesimo. La fatigata mens (II 102), che si scopre limitata nel suo processo di ricerca, contrasta nettamente con l’impigra mens di Lucr. V 1451, che nell’incessante progresso della civiltà umana sembra non conoscere ostacoli (V 1455-1457).

104. sed facilis fidei via provocat… / credere: all’accusa di Simmaco per cui l’arcanum rerum e

le veri latebrae potevano essere colti attraverso la prosperitas elargita dagli dei (II 75-79), Prudenzio ribatte che per cogliere la profondità del mistero divino l’uomo non può basarsi sulla ragione, ma deve necessariamente poggiarsi sulla fides. Essa è la facilis via, che si oppone alla difficilis via (apoth. 264) di chi vuol conoscere il secretum divino (apoth. 261). La ratio gode in Prudenzio di un primato gnoseologico (cfr. II 120), cui si affianca in un secondo momento l’autorità della fides: il sed iniziale scandisce questo passaggio da una conoscenza all’altra. La fides può coniectare (II 97) un’immagine del divino; quando poi si avvale della ratio la sua congettura di Dio diventa certezza: II 120-121 hac ratione fides sapienter conicit, immo / non dubitat. Il verbo provoco è associato alla Fede anche in psych. 27, con il significato di ‘sfidare’: provocat insani frangenda pericula belli. Nel nostro passo, per quanto si possa intravedere anche una sfumatura di ‘sfida’ legata alla scommessa di fede, il verbo indica che la via delle fede ‘spinge’ gli uomini a credere466. Per la

formula provoco credere, cfr. Comm., apol. 766; Aug., contra Priscill. 155. È un’espressione che rende bene la difficoltà del credere, inteso come ‘affidamento’ che da una parte trascende la conoscenza intellettuale, dall’altra la presuppone quale fondamento (cfr. Aug. enarr. in Ps. 118, 18, 3).

104. facilis fidei via: mentre ci sono molte strade per giungere a Dio (rel. III 8; CS II 88), solo

la fidei via è facilis. Nel credo cristiano, l’unica via è quella rivelata da Cristo e solo la fede può condurre l’uomo per quella strada. La via fidei è facilis non perché è facile da trovare o da percorrere (Mt 7, 13-14 angusta porta et arta via, quae ducit ad vitam; CS II 885-888), ma perché

465 Macr., somn. Scip. I 3, 16-20; Paneg. VI 3; Ambr., ob. Theod. 29.

conduce facilmente a Dio, a dispetto di quella percorsa dalla debole ragione umana467.

L’immagine della via ricorre in apoth., praef. II e nel CS, quando il poeta oppone la diritta via della verità alle molte vie dell’errore (II 852-855)468. Per l’espressione via fidei, cfr. Lucr. V 102-

103 via qua munita fidei / proxima fert humanum in pectus templaque mentis.

105-106. praesentia… ventura: risuona l’accusa rivolta ai tyranni per essersi dedicati solo ai

beni presenti e perituri: CS I 22-24 videre / quis status ante oculos praesentibus ac perituris / conpeteret rebus nec curam adhibere futuris. Simmaco portava quale garanzia di fede negli dèi il ricordo dei favori divini del passato (rel. III 8 de memoria atque documentis rerum secundarum cognitio venit numinum; CS II 75-77), che erano però benefici caduchi. La fede cristiana invece aspetta da Dio non solo i beni terreni del presente (bona praesentia), ma anche quelli eterni futuri (ventura). L’accostamento dei due participi, uno al presente e l’altro al futuro, denota la tensione della speranza cristiana, intesa come expectatio futurorum bonorum469, fra un iam e un nondum.

109-111.: i vocaboli sono fra loro legati attraverso la figura etimologica divina deus, il poliptoto

muneris… munere; aeterna aeternus; mortalia… mortalis. Le parole sono messe in maggior risalto dalla disposizione parallela che colloca prima il dono, poi l’autore del dono470 (cfr. l’affermazione di

II 109, secondo cui si riconosce l’auctor dal munus). Questo concetto trova un fondamento evangelico in Mt 7, 15-20 e in Mt 12, 33 aut facite arborem bonam, et fructum eius bonum: aut facite arborem malam, et fructum eius malum: siquidem ex fructu arbor cognoscitur.

109. muneris auctorem ipso de munere: il verso risente di Ov., met. VIII 430 illi letitiae est cum

munere muneris auctor, riferito alla gioia di Atalanta nel ricevere un dono471. Si noti lo iato fra

auctorem e ipso, come anche in II 159 in me // omnem; II 227 ego // elementa; sono gli unici tre iati in tutto l’opus prudenziano e si trovano soltanto in CS II: essendo «difficilmente giustificabili in ambito classico»472, essi costituiscono la probabile spia di una mancata revisione del libro. 111. peritura caducus: l’enumerazione si conclude con due termini tecnici nella teologia

cristiana. Il participio peritura non è frequente nella letteratura classica (Verg., georg. II 498; Prop. II 26, 12; Ov., am. I 15, 23). Seneca lo impiegò con uso sostantivato per indicare i beni caduchi

467 Cfr. apoth., praef. II 31-32 deque imbecillis subiugavit fortia, / simplex ut esset credere. In apoth. 207-210 Prudenzio sembra

ammettere che anche i pagani fossero giunti, tramite la ratio e una norma di vita ragionevole, a intuire l’esistenza di un dio unico. In per. X 306-310 Romano si stupisce che uomini dalla norma di vita ragionevole non siano giunti a conoscere il vero Dio. In CS I 615 molti senatori abbandonano il paganesimo spinti dalla ratio. Dunque si ammette la possibilità che possano esservi altre vie, rispetto alle quali quella della fides resta facilis. Prudenzio aveva già affermato che la ratio è comunque insufficiente per penetrare il mistero divino e deve essere integrata dalla fides: così la via verso Dio resta comunque una sola. Perciò l’unum iter deprecato da Simmaco si realizza per il cristiano nella facilis fidei via (CS II 104), l’unica per arrivare a Dio.

468 Per un’analisi sulla retta via della verità e le vie labirintiche dell’errore in Prudenzio, cfr. MALAMUD 1989, pp. 101-109. 469 Questa concezione della spes cristiana risale a Clem. Alex., Strom. II 9, 41 ἐλπὶς δὲ προσδοκία ἀγαθῶν ἡ ἀπόντος ἀγαθοῦ

εὔελπις (ma cfr. anche II 6, 27); nel mondo latino, cfr. Cypr., de mort. 12 fiducia futurorum bonorum; Aug., ench. II 8. Si noti che Prudenzio proietta la speranza sia sul presente (bona praesentia) che sul futuro (ventura).

470 LAVARENNE 1933, §§ 1542-1545, cita altri versi di Prudenzio contenenti simili giochi di parole: ham. praef. 2 prima primos procreat; psych. 812 quietum / suscepit iam diva Deum.

471 Cioè le spoglie (la pelle e la testa con le zanne) del cinghiale calidonio, ucciso da Meleagro. Cfr. EWALD 1942, p. 134. 472 PARATORE 1980, p. 64.

che gli uomini cercano stoltamente (Troad. 1143-1144). Nella prima letteratura cristiana periturus si specializza nei discorsi sull’aldilà.

113. vilia sunt brevitate sui, nec digna perenni: altro verso retoricamente costruito con un

parallelismo che evidenzia la forte antitesi fra i due emistichi: vilia… brevitate si oppongono a digna perenni. Il genitivo sui, in luogo dell’aggettivo sua, rappresenta un uso postclassico473.

115. desinere idque homini dare quod non desinat umquam: il poliptoto dei verbi

desinere… desinat che incorniciano il verso mette in risalto la caratteristica essenziale del divino: l’essere egli stesso eterno e il concedere all’uomo l’eternità. L’effetto omoteleutico fra questo e il verso precedente (II 114 numquam / II 115 umquam) sottolinea la pregnanza concettuale degli attributi divini.

116-119.: Dio non può creare qualcosa di corruttibile (si noti il poliptoto corruptum

corrumpendumve) e non possedere il carattere di incorruttibilità. Prudenzio sembra non crearsi il problema di come dall’essere divino incorruttibile derivi una realtà caduca. Anzi, proprio perché ciò risulta filosoficamente inconciliabile, Prudenzio ne conclude che l’uomo è votato all’eternità, perché creato dall’essere eterno. Se così non fosse, dovremmo predicare di Dio i caratteri negativi di povertà (pauper), di debolezza (infirmus) e di inanitas; i vv. 118-119 presentano la solita tendenza di Prudenzio all’elencazione, scandita attraverso cinque passaggi, di cui tre per negazione (infirmus, indignus, non omnipotens), fino all’ultimo che conclude in maniera decisamente amara la rassegna (marcata dalla forte avversione sed): sed inanis numinis umbra est.

120-123.: qui Prudenzio collega la fede e la speranza, le due virtù teologali proprie dell’homo

viator verso la patria celeste474. Esse scaturiscono dalla tensione fra lo iam (II 121 quod sumus et

quod / vivimus) e il nondum (II 122 inlaesum semper fore), una tensione che si realizza nell’opposizione fra tempi presenti (sumus, vivimus) e futuri (fore). La fides porta a credere in Dio e Dio invita il credente a sperare che niente della vita terrena (quod sumus et quod vivimus) si perderà. Naturalmente la speranza del credente non può che volgersi verso un futuro di gloria, che però deve essere meritato (si mereamur). La speranza sembra legarsi alla fede nella risurrezione dei morti, a sua volta congiunta con il meritum. Il Nuovo Testamento (Gc 2, 18; 2, 20; 2, 26) e più ampiamente la patristica475 rimarcavano spesso l’idea che la salvezza derivasse da un’iniziativa

gratuita di Dio (la χάρις o gratia), ma che non fosse pienamente raggiungibile senza l’aiuto delle buone opere, suscitate a loro volta da Dio476; con il libero arbitrio, l’uomo era chiamato a

cooperare al disegno di salvezza di Dio (Iust., apol. I 43-44; Iren., adv. haer. IV 37, 7; Aug., epist.

473 Cfr. LAVARENNE 1933, § 512.

474 A differenza della carità che è intramontabile, la fede e la speranza svaniranno una volta che l’uomo, nella risurrezione dei

morti, si troverà di fronte a Dio: 1 Cor 13, 8-13.

475 Esso è anche all’origine del dibattito che, negli anni di poco successivi al CS, vedrà a lungo impegnati Pelagio e Agostino. 476 Cfr. Clem., epist. ad Cor. XXIX 1 e XXXIII 1; Clem. Alex., strom. V 1; Greg. Naz., orat. XX72, 13; Ioh. Chrys., in Matth. hom.

194, 5, 19). Non si capisce però cosa intenda Prudenzio quando afferma che l’uomo può sperare di risorgere inlaesus solo se lo merita, dal momento che sia i beati che i dannati, al di là dei loro meriti, risorgeranno con un corpo restaurato in tutta la sua prestanza fisica. Va ricordato però che qui non è il teologo che parla, ma la fede sincera del poeta che ‘spera’ lui pure di meritare di risorgere fra i beati.

120. hac ratione fides sapienter: tecnicamente ratio vale qui ‘ragionamento’, ma la contiguità a

fides non può non richiamare l’importanza che aveva la ragione nel fondare la fede477, fin dagli

apologisti greci (a partire da Giustino) per trovare la sua più compiuta teorizzazione in Agostino (in Ioh. XXIX 6 intellectus enim merces est fidei). La posizione cristiana è pertanto radicalmente opposta a quella formulata da Simmaco, dove la ratio non aveva spazio nella conoscenza del divino (rel. III 8). Poiché il paganesimo rappresenta un’età di rusticitas nella storia dell’umanità (CS I 79-81), la ratio può liberare l’uomo da questa cieca superstizione478; in I 615 si dice che i

senatori abbandonano il paganesimo spinti solo dalla ratio: non iussum, sola capti ratione sequuntur. In un secondo momento subentra la fides che rivela il vero Dio479 e conduce a sapientia. Anche in

psych. 875 la Fides è la strada alla vera Sapientia. Il percorso della ratio pagana si incontra con la fides che permette di conoscere quel Dio supremo (unum occultum) in cui anche gli antichi credevano. In questo modo non vi è frattura alcuna fra la razionalità classica e la fede cristiana.

121. verum… deum: i cristiani dei primi due secoli ribattevano spesso sul carattere di verità del

Dio cristiano (ἀληθινός), già formulato nell’Antico e nel Nuovo Testamento, in contrasto con i falsi dèi pagani480. Prudenzio utilizza una simile espressione anche in CS I 325 ille Deus verus; cfr.

anche apoth. 72; 366; 775; 793; per. II 455; V 39; X 674; ham. 51.

121. quod sumus et quod vivimus: formula di chiaro sapore filosofico più che poetico: la

promessa di eternità coinvolge l’uomo nella sua dimensione fisica e spirituale. Una formula analoga si trova in Agostino481, dove il quod sumus delinea bene il valore dell’esistenza data da

Dio (l’essere uomini), mentre il quod vivimus afferisce alla psicologia umana (che pertiene all’anima), distinta dalla sfera intellettiva (quod intellegimus), di competenza del νοῦς o animus. Il confronto con altre espressioni simili usate dal poeta (cath. III 19 quod sumus aut agimus; IV 13 quod sumus aut vigemus; in entrambi i casi la leggera variatio non ne altera il senso) impone di non vedere in questa formula una concettualizzazione della rigida dicotomia fra corpus (quod sumus) e anima (quod vivimus): il quod sumus indica tanto il corpo quanto l’esistenza in generale, il fatto di

477 Sul rapporto fede-ragione in Prudenzio, cfr. EVENEPOEL 1981, che sviluppa molte delle intuizioni avanzate da CACITTI 1972. 478 Prud., per. X 371 o mersa limo caecitas gentilium; più avanti definisce il paganesimo come furor (X 376).

479 Cfr. CACITTI 1972, in particolare pp. 412-14. 480 Cfr. BRAUN 1977, pp. 74-76; LOI 1970, pp. 50-51.

481 Aug., serm. 176, 20 illi ergo debemus quod sumus, quod vivimus, quod intelligimus: quod homines sumus, quod bene viximus, quod recte intelleximus, illi debemus. Cfr. già Cromat., serm. 33, 21.

essere uomini; quod vivimus indica l’«essenza della nostra vita»482, ciò che rende l’uomo tale,

ovvero tutte le attività che derivano dall’anima483.

122. inlaesum semper: la risurrezione della carne, sia dei beati che dei dannati, gode di

immortalità (semper)484 e di una restaurazione integrale di tutte le membra fisiche (inlaesum)485: un

parallelo simile si trova proprio in Prud., apoth. 1078-1079 ne mortuus omnis / non redeat si quid pleno de corpore desit. Ma poiché il soggetto di inlaesus è quod sumus et quod vivimus, ovvero le due dimensioni dell’uomo, inlaesus vale sia inoffensus, in riferimento all’integrità del corpo486, sia

incorruptus, riferito all’impassibilità o incorruttibilità dell’anima487 (l’

ἀφθαρσία di Sap 2, 23), che non sarà più toccata dal dolore: Is 25, 8; 49, 10; Ap 7, 16-17; 21, 4. La traduzione migliore è quindi “integro”, nel corpo e nell’anima.

122. si mereamur: fin dall’età arcaica il verbo mereri era spesso associato con bene o male per

indicare il genere di ricompensa attesa, con il significato negativo di ‘colpa’ o di ‘benemerenza’. Prudenzio adatta un’espressione idiomatica delle forme eucologiche classiche (Verg., Aen. V 692; Liv. XL 11, 6; Ov., fast. III 834) al significato cristiano di meritum: la ricompensa divina per le buone azioni del credente (Cypr., epist. LVIII 11; Luc. Cal., mor. XV 49) o per il sangue dei martiri (Dam., F. 20, 4).

123-160.: in questo punto dell’argomentazione Prudenzio inserisce la prima delle due orationes

divine. La solita tendenza alla drammatizzazione è un procedimento che il poeta utilizza anche in altre opere per sottolineare l’importanza del concetto: in ham. 607-707 Dio si rivolge all’uomo ricordando di avergli donato il libero arbitrio; in cath. III 110-114 Dio invita Adamo a godere del creato e stare lontano dal mortiferus stipes; in apoth. 42-43 il discorso in cui Dio dichiara di negare a Mosè la propria vista, anticipa la trattazione sul mistero dell’incarnazione. Negli ultimi due casi le parole di Dio costituiscono una chiara retractatio poetica di due discorsi realmente attestati nel racconto biblico. Le due orationes del CS, come quella di ham. 607-707, completano e ribadiscono un concetto teologico precedentemente espresso. La prima oratio di Dio verte sulla necessità per l’uomo di sollevarsi dai beni terreni e caduchi verso i beni celesti (II 123-124). Lo stesso concetto era espresso in ham. 378-388, dove è rimproverato l’eccessivo amore dell’uomo per ciò che è terreno. La ῥῆσις di Dio presenta molti paralleli, concettuali e lessicali, con il X

482 GARUTI 1996, p. 169, ad loc. Si noti inoltre che Prudenzio indica più volte l’anima con il termine substantia dell’uomo, che per

i cristiani valeva come sinonimo di essentia (cfr. nota a II 212).

483 Lattanzio (op. Dei 18, 1) distingueva fra anima, illud quo vivimus, e animus, illud quo sentimus et sapimus. Ma, analizzando apoth. 802-806, possiamo notare che per Prudenzio l’anima assume in sé i connotati propri dell’animus (all’immortalità propria

del soffio vitale, si aggiungono la capacità di sapienza, di conoscenza, di etica). Dunque è possibile che il quod vivimus di CS II 121-122 si riferisca alla sfera dell’interiorità umana. Tanto più se consideriamo che Dio sta promettendo all’uomo l’immortalità: ora, se l’anima è immortale, il quod vivimus deve riferirsi necessariamente all’intera psicologia dell’uomo.

484 Cfr. 1 Cor 15, 53; Lc 20, 35; Ap 21, 4.

485 Cfr. Aug., civ. XXII 17; vedasi anche Prud., apoth. 1071-1073 quod casus rapuit, quod morbus quod dolor hausit, / quod truncauit edax senium populante veterno, / omne revertenti reparata in membra redibit.

486 Cfr. ThlL VII/1, 336, 26-69. 487 Cfr. ThlL VII/1, 337, 1-11.

inno del Cathemerinon, composto per le esequie di un defunto488: molti di essi, più che a una

volontà di autocitazione, sono da ascrivere al repertorio formulare della lingua cristiana nel trattare lo stesso tema della caducità del mondo.

123-128.: la distinzione degli elementi naturali (l’oriente e l’occidente; il cielo e la terra) come

specchio della distinzione fra il bene e il male è concetto classico: Hor., sat. I 3, 113-114 nec natura potest iusto secernere iniquum, / dividit ut bona diversis, fugienda petendis; Luc. VIII 487-488 sidera terra / ut distant et flamma mari, sic utile recto. Prudenzio vi sovrappone la suggestione biblica di Is 55, 9 quia sicut exaltantur caeli a terra, sic exaltatae sunt viae meae a viis vestris, et cogitationes meae a cogitationibus vestris (riferita all’imperscrutabilità del disegno divino): cfr. già Lact., inst. II 9, 4 tanto enim haec ab illis superioribus distant, quantum mala a bonis et vitia a virtutibus.

123-124. animo depellite curas: riutilizzo in chiave etico-religiosa del motivo simposiaco

espresso in Hor., carm. I 7, 31 nunc vino pellite curas489. La raccomandazione divina riecheggia

l’invito paolino nel cercare i beni celesti, abbandonando quelli della terra: Col 3, 1-14.

126. regia caeli: la visione del paradiso come un sontuoso palazzo governato da Cristo,

tratteggiato come imperatore, allude chiaramente all’immaginario dell’imperium Christi e a quel lessico della sovranità divina, che rappresentava il Salvatore nei termini dell’iconografia imperiale490 (cfr. II 766-768). La formula regia caeli risentiva dell’immaginario classico (Hor., carm. II 78; Luc. I 45; Ov., met. I 257; II 298); ma probabilmente fu per il tramite virgiliano (Aen. VII 210) che nella poesia cristiana si diffuse questa romanizzazione metaforica della corte celeste491.