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Dopo lo scontro su un terreno teologico, Prudenzio passa a confutare punto per punto le argomentazioni formulate da Simmaco in II 71-90. La terza confutazione si concentra sulla fedeltà al pristinus mos di Simmaco (II 274, che riprende rel. III 8 sequendi sunt nobis parentes, qui secuti sunt feliciter suos; II 69-70 adlegat morem veterem, nil dulcius esse / adfirmat solitis, e II 79-80 cessisse parentibus omne / idolium semper feliciter et pede dextro). Prudenzio ribatte con una doppia argomentazione. In primo luogo, afferma che l’umanità (e Roma stessa) si è sempre evoluta in un continuo profectus in melius. Questa prima argomentazione si snoda attraverso due fasi:

1. II 276-316: recuperando il mito dell’età dell’oro, Prudenzio presenta un quadro dell’umanità primitiva realistico e rozzo, da cui i primi uomini sono evoluti verso un progressivo affinamento della ratio. Come exempla, Prudenzio propone le abitudini dei popoli assoggettati da Roma (II 291-292 inmanes quondam populi… edomiti), per poi concentrarsi sui costumi primitivi della stessa Roma (II 298-308).

2. II 317-334: il progresso della storia umanità è quindi paragonato al corso della vita umana, che passa dall’età infantile all’età senile, in cui meglio si esercita la ratio e si può volgere lo sguardo verso le cose celesti (II 317-334). In questo modo Prudenzio mostra ancora una volta la ragionevolezza della conversione alla fede cristiana673.

La seconda argomentazione si incentra sull’indigena pietas del popolo ebraico (II 342), che per primo abitò la terra dopo il diluvio universale. L’umanità era in origine monoteista. Anche Roma, all’inizio della sua storia, venerava pochi dei. Poi, con l’inizio dei suoi trionfi, si è aperta a ogni forma di peregrina religio con il risultato che il mos pristinus rivendicato da Simmaco non è più un mos patrius (II 369)674.

Le due sezioni evidenziano la duplice tensione apologetica della poesia prudenziana: difendere la nuova religione (il novus rappresenta quel profectus in melius) e minare la convinzione pagana dell’antichità del mos maiorum. Le due posizioni risultano concettualmente antitetiche: nella

671 LOI 1970, pp. 20-22. 672 MORESCHINI 2001, p. 18.

673 Ricordiamo la conversione dei senatori in I 615 non iussum sola capti ratione sequuntur.

prima si convince l’avversario della validità della novitas cristiana (II 329 rerum novitate), nella seconda si cerca di ancorare la nuova religio all’indigena pietas dell’umanità, nonché all’essenza costitutiva del mos romano. Se quest’ultimo, apertosi a culti sempre nuovi (II 362 semper), è inquinato radicitus, il cristianesimo rappresenta invece l’essenza autentica (indigena) della Roma primitiva. Due aspetti opposti della stessa battaglia. Ancora una volta, il poeta tenta di descrivere il cristianesimo come il prodotto migliore della romanitas, presentandolo ora come il frutto maturo della sua evoluzione storica ora come l’essenza genuina del suo mos patrius.

270-276.: il nuovo discorso di Simmaco ripete in sostanza le argomentazioni formulate in II 71-

90. Se lì il poeta aveva fedelmente parafrasato le parole di Simmaco, ora ne rielabora i concetti in maniera tendenziosa675. Le poche parole pronunciate da Simmaco denunciano un

atteggiamento di ostinata chiusura. Privo di razionalità, l’oratore chiude le orecchie alle parole di Dio (II 270), nega la validità del cristianesimo676: ormai privo di ragione (II 272 ratione relicta), si

ostina a difendere il vetus mos (II 272) e finisce col diventare un nemico dei valori più profondi di Roma, indicati nella via iustitiae, nella pietas, nella fides veri e nella rectae regula sectae677. I baluardi

della Roma classica (iustitia, pietas, fides, religio678) ora appartengono al cristianesimo; eppure i

pagani continuano ad anteporle il pristinus mos (II 274). Prudenzio spinge fino all’assurdo la posizione di Simmaco679 per presentare il cristianesimo come l’esito naturale della Roma pagana.

La cecità di fronte ai valori tipici di Roma suona ancor più grave in un uomo dalle innegabili qualità: dopo averne sottolineato più volte l’abilità oratoria, adesso Prudenzio ne sottolinea la sapientia (II 271 doctissime; II 273-274 sapientis acumen / ingeniumque viri, dove l’enjambement evidenzia la disposizione chiastica dei membri). Simmaco sembra incarnare quel binomio sapientia-eloquentia della più illustre tradizione oratoria romana, per cui l’oratore doveva possedere anche una statura morale680. Il fatto che Simmaco, eloquente e saggio, non riconosca

le virtutes di cui lui stesso è imbevuto rende la situazione ancor più paradossale. Si noti infine la somiglianza di II 271 Italae censor doctissime gentis con II 19 Ausoniae vir facundissime linguae, con lo

675 Stesso atteggiamento nella strategia citazionale di Ambrogio, che prima di ogni confutazione presenta le argomentazioni

dell’avversario, talvolta sotto una luce parodica (cfr. NAZZARO 2001, p. 256).

676 CACITTI 1972, p. 413: «il rimprovero […] è quello di aver trascurato il principio della ragione, contentandosi della falsa

apparenza, della consuetudine, della tradizione».

677 La iustitia è presentata tramite una iunctura di matrice biblica (via iustitiae in Eccl 4, 12; 17, 20; 34, 22; 36, 19; Mt 21, 32; 2 Pt 2,

21); la pietas che deriva dal cielo richiama invece la concezione pagana, espressa in Verg., Aen. II 536 Di, si qua est caelo pietas; Stat., silv. III 3, 1-2. Nel verso successivo fides veri richiama Claud., Goth. 554 veri sera fides, mentre il rectae regula sectae, dal ricercato effetto allitterante con due elementi paronomastici e omoteleutici (rectae…sectae), rimodula la formula recta regula (fidei) usata dagli scrittori cristiani per indicare l’ortodossia dogmatica contro le deviazioni ereticali: cfr. App., in Cant. I 624; Arn. Iun., psalm. 44, 36; Aug., epist. 95, 5; 217, 4; Trin. II 10. Cfr. anche Prud., apoth. II praef. 27 nodos tenaces recta rumpit regula. Nel nostro passo non è la regula ad essere recta, ma la dottrina cristiana, in contrasto con la falsità del paganesimo.

678 Nella rectae regula sectae di cui parla Prudenzio si può cogliere non solo un rimando alla verità di fede cristiana (di per sé

già espressa nel precedente fides veri), ma anche una ripresa del bagaglio di norme etiche, esposte nelle orationes di Dio. In per. X 307 il martire Romano si meraviglia che i pagani, pur seguendo una norma di vita ragionevole, non sappiano riconoscere la verità cristiana. Quindi la norma di una retta dottrina può alludere benissimo al codice comportamentale richiesto al cristiano, connotato dall’almus pudor e dal flos pudicitiae. In tal modo verrebbero ripresi i quattro elementi cardinali del

templum mentis cristiano, che non sono altro che le virtutes basilari della tradizione romana classica.

679 Simmaco è tratteggiato come un hostis, al pari di Annibale, i cui vitia (inumano, sleale, senza scrupoli religiosi) rovesciano

specularmente le tre più grandi virtutes romane (Liv. XXI 4, 9).

680 Classica la definizione di Marco Porcio Catone: fr. 14 orator est, Marce fili, vir bonus, dicendi peritus, ricordata e commentata

stesso ordo verborum, lo stesso uso di un superlativo. I due cola riferiti a Simmaco evidenziano proprio la duplice qualità di facundia e sapientia.

272-273. ratione relicta / eligis: il cristianesimo è frutto di scelta (eligere) da compiersi in base

alla ragione. Libero arbitrio e ratio sono i due elementi che connotano la libertas degli antichi, in base alla quale Roma rivendicava il proprio mos (II 83 libera sum, liceat proprio mihi vivere more). La sua posizione è qui radicalmente rovesciata. Se libertà è vivere secondo ragione681, secondo la

viva mens (II 384-392), il pristinus mos non è più una scelta libera perché va contro la ratio.

271. censor: il termine si riferisce non tanto alla carica politica, che con Domiziano era stata

assunta dal potere imperiale e non più ripristinata, ma alla cura morum di cui erano garanti i censori nella Roma repubblicana. Fu proprio Simmaco, fra i pagani, il più convinto oppositore alla proposta di restaurare la carica censoria682. La definizione di censor poteva dunque suonare

particolarmente ironica alle orecchie dei contemporanei. Prudenzio utilizza il termine quattro volte, nel senso di iudex683 o più semplicemente come criticus o accusator684: qui la censura di

Simmaco, pur non riferendosi ad alcuna prerogativa giuridica685, allude a quell’aspetto di severa

inflessibilità che non gli permette di riconoscere la ragionevolezza della fede cristiana. L’attributo doctissime segna ironicamente la distanza fra una reale sapientia di Simmaco e la sua mancanza di ratio nel riconoscere la ragionevolezza della fede cristiana686.

277. rudibus mundi nascentis in annis / mos: la sequenza rudibus... in annis ricorreva nella

stessa posizione metrica già in Claud., III Hon. cos. 85, riferita agli anni giovanili di Onorio in cui già si manifestava la pietas. Prudenzio la impiega riferendola alla giovinezza del mondo e sostituendo la pietas con il mos (II 278). L’aggettivo rudis va inteso nel doppio significato di ‘molto giovane’ e ‘non ancora istruito’687, come in Quint. I 1, 5; si può notare infatti come il

discrimine fra un’età e l’altra dell’umanità sia dettato proprio dalla sua disponibilità ad apprendere (docilitas): I 145-146 tantum posse omnes illo sub tempore reges / indocilis fatui ducebat ineptia vulgi; I 245 hunc morem veterum docili iam aetate secuta; I 511-513 tunc primum senio docilis sua saecula Roma / erubuit; II 328-329 (il passaggio dall’età infantile alla pueritia, in cui si iniziano ad apprendere le artes) mox tenerum docili ingenio iamque artibus aptum / noscendis varia rerum novitate politum est. Nell’interpretazione organicistica di Prudenzio, i rudes anni corrispondono all’infantia

681 Plot., Enn. III 1, 9, 4-16.

682 In epist. IV 29; IV 45; V 9 (del 396-397) si fa riferimento alla sua oratiuncula de repudianda censura. È probabile quindi che la

restaurazione degli antichi valori di Roma da parte degli ultimi pagani fosse volta a ristabilire anche le cariche dell’antica repubblica. HARTKE 1940, pp. 97-98, pensa che beneficiario di questa carica ripristinata dovesse essere Virio Nicomaco Flaviano, secondo alcuni bersaglio polemico del Carmen adversus paganos.

683 In cath. VII 133 definisce censor Dio, summus vindex, che vuol punire i fatti vergognosi di Ninive. Ancora in per. X 246-248 il

martire Romano apostrofa censor bone il proprio carnefice, che vorrebbe convincerlo ad adorare gli dei pagani.

684 ThlL III 801, 24-70.

685 In carm. adv. paganos 63 (ambieras censor meliorum caedere vitam) è definito censor l’ignoto praefectus urbis, ‘giudice

implacabile’, «da connettere con l’attività giurisdicente del praefectus» (CRACCO RUGGINI 1979, pp. 98-99, n. 296). Secondo BARTALUCCI 1998, p. 134, l’anonimo autore descrive il praefectus «come uno che vuole approfittare dei suoi poteri per colpire i

meliores, vale a dire i cristiani». Non è però il caso di Simmaco.

686 La stessa distanza ironica si ritrova anche nel censor bone di Per. X 246. 687 GARUTI 1996, p. 173, ad loc.

dell’umanità, come già per Ambr., epist. 73, 27 nos quoque aevi rudes sensus habemus infantiae, sed mutati in annos ingenii rudimenta deponimus. Ancora in Ambr., epist. 73, 29 sono rudes gli animi dei pagani, che ancora non hanno potuto conoscere Cristo. L’espressione mundi nascentis ricorre invece anche in Prud., ham. 340 sempre in riferimento al mondo appena creato.

279. revolvamus sua per vestigia saeclum: l’espressione revolvere saeclum è modulata sulla più

comune (e)volvere saecula (in Verg., georg. II 295; Sen., Oed. 252; Claud., rapt. I 53; Eutr. II 60). Il verso ricalca Verg., georg. II 402 atque in se sua per vestigia volvitur annus, seppur con un significato tutto nuovo (non il ritorno ciclico delle stagioni, ma un risalire indietro nel tempo). Per una corrispondenza di revolvere saeculum, cfr. Claud., carm. min. 27, 104-105 te saecula teste / cuncta revolvuntur a indicare l’incessante fluire del tempo; in Claud., rapt. I 53 evolvere saeculum si riferisce alla filatura del tempo che lentamente si dipana dalle mani delle Parche. Il verbo evolvere/revolvere rimanda tecnicamente allo srotolamento/riavvolgimento del papiro (volumen)688.

281. repperit usus: ripresa della iunctura con cui Virgilio descriveva la graduale acquisizione

dell’esperienza: georg. II 22 sunt alii, quos ipse via sibi repperit usus (dalla natura, l’uomo impara nuovi sistemi per far riprodurre le piante, creandone anche di artificiali). Ancor più significativo è l’uso che della clausola virgiliana fece Manil. I 83, che la inserì nel suo excursus sul progresso costante dell’umanità (come farà lo stesso Prudenzio). Il termine, che ritorna nella clausola di II 316, indica tradizionalmente il primato dell’usus sulle arti689, permettendo il progresso della ratio.

Nel suo mito dell’età dell’oro, Claudiano mostra un’analoga concezione progressista dell’uomo, dove le artes nascevano prima dalla sollertia e solo dopo si nutrivano dell’usus (rapt. III 30-32).

282-290.: Prudenzio riprende la tesi del profectus in melius di tutte le cose (Ambr., epist. 73, 23)690.

Degli argomenti proposti da Ambrogio, Prudenzio si concentra su due (l’evoluzione dell’umanità e la concezione organicistica della storia), quelli che meglio evidenziano il progresso della civiltà umana e l’affinarsi della mente umana con gli anni691, rielaborando

l’antico mito pagano delle età della storia umana692, i cui caratteri dominanti sono tre693:

688 A questo allude Seneca quando parla di chi vuole antiquitates evolvere (de ot. V 2); ma vedasi anche Tac., dial. XXX 1 in evolvenda antiquitate. In Ennio, che utilizzava il verbo in riferimento al dispiegarsi della materia narrativa (Enn., ann. 178 V2),

richiamava l’apertura dei grandi rotoli che contenevano i resoconti annalisitici. Cfr. anche Hor., sat. I 3, 112. Metafora simile in Dante, Par. XXXIII 85-87 nel suo profondo vidi che s'interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l'universo si squaderna.

689 Usus è considerato magister artium: cfr. il passaggio dall’età di Saturno a quella laboriosa di Giove in Verg., georg. I 133-134. 690 Tutto è in continuo miglioramento: il mondo (73, 23), il ciclo della luce solare e lunare (23-24), la storia dell’umanità (25), il

ciclo delle stagioni (26), il ciclo vitale dell’uomo (27). L’avvento del cristianesimo segna la raggiunta maturità del mondo, la

venerabilis canae fidei… senectus (28). Tale fides si è diffusa solo quando gli uomini erano preparati (29). L’idea di una

conduzione provvidenziale della storia aleggia sullo sfondo dell’epistola, che esprime «la volontà di adeguare, almeno in parte, il proprio discorso alla cultura dell’interlocutore» (MAZZUCCO 1980, p. 223; cfr. anche GUALANDRI 1995).

691 CACITTI 1972, p. 418, n. 91 nota che in Prudenzio la visione di progresso si articola sotto un profilo essenzialmente

umanistico (in un’evoluzione pedagogica dell’umanità), mentre in Ambrogio rimaneva ancorato soprattutto a un divenire cosmologico. In questo modo Prudenzio seleziona quegli argomenti di Ambrogio necessari per far affiorare la concezione provvidenziale della storia (che verrà meglio delineata nella sezione aurea del poema) che in Ambrogio rimaneva sommersa.

692 Su cui, PIANEZZOLA 1979.

693 Sono alcuni degli elementi fissati già dalla tradizione letteraria classica. In realtà non tutti questi caratteri appartengono

1. l’assenza di agricoltura, che spingeva gli uomini a cibarsi di semplici ghiande (282-284); 2. la mancanza di arti che permettessero di lavorare il legno e i metalli (285-287);

3. la piccolezza e modestia delle abitazioni, nonché del vestiario (288-290).

La scansione con cui Prudenzio presenta tali caratteri è precisa: il primo verso, che si avvale di una citazione classica, propone la topica raffigurazione letteraria dell’età aurea. Seguono quindi due versi in cui il poeta concentra le proprie considerazioni ironiche. Un analogo atteggiamento irrisorio e beffardo verso questo mito si riscontrava anche in CS I 43-85 (età di Saturno e di Giove)694. A Prudenzio poco importa fornirne una descrizione accurata, ma presentare un

quadro di sostanziale rusticitas dei primi uomini: una vita ferina (II 292-293 ferinos / in mores), segnata dalla mancanza di artes, priva di quella ratio che distingue l’uomo dagli animali. Diversamente dal mito tradizionale, la storia dell’umanità non è un percorso di degenerazione morale, ma di progressiva evoluzione da uno stato primitivo a una condizione razionale, il cui frutto più esplicito è la scoperta delle artes e il culmine la pietas in un unico Dio. Sono completamente accantonati tutti i privilegi edenici dell’età aurea e sono messi in risalto solo gli elementi di difficoltà. Il Virgilio georgico e Giovenale sono i modelli di base, accomunati da una raffigurazione realistica della vita primigenia, scevra di ogni tratto favoloso-edenico. Vi aleggia anche l’influsso di Lucrezio, che rifiutava ogni nostalgico rimpianto verso la religio primitiva, nata in un tempo di ferinità (Lucr. V 947; 967 saecla ferarum; CS II 291-293).

282-284.: secondo il mito, l’età dell’oro non conosceva la fatica e la terra forniva da sé ciò di cui

gli uomini avevano bisogno; per Prudenzio essa offriva solo ghiande. Nelle Georgiche la scoperta dell’ars agricola nel passaggio dal regno di Saturno al regno di Giove695 permette all’uomo di

non cibarsi più di ghiande, cibo ‘ferino’ per eccellenza. Per Colum. VI 3, 6 le ghiande di quercia e di leccio erano il cibo prediletto per gli animali selvatici, in particolare dei cinghiali (Hor., sat. II 4, 40). Ambrogio, parlando del cibo di ghiande durante la carestia, lo definisce pecudum pastus e infelicis victus (epist. 73, 17). Così ancora Prud., CS II 946-947 iamque Remi populo quernas Sardinia glandes / subpeditat. A ciò si aggiunga la possibile suggestione biblica di Lc 15, 16 che identificava nelle ghiande, alimento dei porci, la decadenza raggiunta dal peccatore. Il passaggio dalla ghianda alla cerealicoltura è τόπος ampiamente esaltato696. Il percorso inverso era sinonimo di involuzione: lo stesso Simmaco ammetteva che il ritorno alle ghiande di Dodona rappresentava un abbrutimento delle condizioni di vita dei contadini (rel. III 16 rursus ad Dodoneas arbores plebis rusticae inopia convolavit). Nell’ironica pointe finale di II 284 Prudenzio riecheggia perciò la contraddizione di un paganesimo che, se da una parte rimpiange nostalgicamente l’età di

fatica; le abitazioni in speluncae sono invenzioni dell’età dell’argento. La mancanza di ingegno e di abitazioni e la mancanza di

ars nel lavorare il legno appartenevano all’evoluzione dell’umanità narrata da Prometeo in Aesch., Prom. 447-466. 694 Prudenzio dimostra di non credere alla versione mitica dell’età dell’oro anche per bocca di Romano (per. X 206-210). 695 Cfr. anche Tib. I 3, 41-42, pur con qualche ambiguità interpretativa sulla bontà di tale ars (su cui cfr. PERRELLI 2002, p. 105). 696 Verg., georg. I 7-8; Ov., fast. IV 401-402 e 509-510; Hyg., astron. II 14, 1; Val. Fl. I 68-70; Iuv. XIV 182-184; Claud., rapt. III 47.