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Prefazione

Simone, chiamato anche Pietro, il più grande discepolo di Dio,

per caso, sul finire del giorno,

quando la sera rosseggia di color giallo, 5 aveva tolto la ricurva ancora

cogliendo il soffio dei venti con le vele per passare all’altra riva.

La notte suscita un vento contrario in grado di sconvolgere il mare dal fondo 10 e di scuotere la barca sbattuta.

Un clamore di marinai, fra pianti e grida, ferisce l’aria con stridore di gòmene: non vi era alcuna speranza

15 per i naufraghi vicini a essere sommersi, quando di lontano la schiera,

pallida di paura per i pericoli,

vede Cristo calpestare il mare con i piedi, come se, per una via ben ferma,

20 camminasse su una spiaggia asciutta. Si stupiscono di questo miracolo gli altri marinai impauriti;

Pietro, il solo a non tremare, riconosce il signore del cielo

25 e della terra e del mare senza strade, alla cui onnipotenza appartiene sottomettere ai suoi piedi le acque. Supplice tende le mani,

implora il noto aiuto.

30 Ed egli, annuendo placidamente, gli ordina di saltare giù dalla barca. Agli ordini ubbidisce Pietro, ma aveva cominciato a bagnare le sue orme al pelo dell’acqua 35 e con passo vacillante

Mortalem Deus increpat, quod sit non stabili fide,

nec calcare fluentia 40 nec Christum valeat sequi.

Tum dextra famulum levat sistitque, et docet ingredi tergum per tumidum freti. Sic me tuta silentia 45 egressum dubiis loquax infert lingua periculis,

non, ut discipulum Petrum, fidentem merito et fide,

sed quem culpa frequens levem 50 volvat per freta naufragum.

Sum plane temerarius, qui noctis mihi conscius quam vitae in tenebris ago, puppem credere fluctibus 55 tanti non timeam viri,

quo nunc nemo disertior. Exultat, fremit, intonat, ventisque eloquii tumet; cui mersare facillimum est 60 tractandae indocilem ratis, ni tu, Christe potens, manum

dextro numine porrigas, facundi oris ut inpetus non me fluctibus obruat, 65 sed sensim gradiens vadis

insistam fluitantibus. ***

Hactenus et veterum cunabula prima deorum, et causas quibus error hebes conflatus in orbe est diximus, et nostro Romam iam credere Christo; nunc obiecta legam, nunc dictis dicta refellam. 5 Unde igitur coepisse ferunt, aut ex quibus orsum,

quo mage sancta ducum corda inlice flecteret arte? Armorum dominos vernantes flore iuventae, inter castra patris genitos, sub imagine avita eductos, exempla domi congesta calentes,

Dio rimprovera l’uomo di non avere una fede sicura e di non riuscire né a calcare i flutti 40 né a seguire Cristo.

Con la destra solleva allora il servo

e lo rende fermo e gli insegna a camminare attraverso il dorso rigonfio dell’onda. Così me, da sicuri silenzi

45 uscito, la lingua loquace porta in pericoli dubbiosi non, come il discepolo Pietro, fiducioso nel merito e nella fede ma un debole naufrago che

50 la forza delle colpe sconvolge fra le onde. Sono davvero temerario,

io che, pur consapevole a me stesso della notte che conduco nelle tenebre della vita,

non temo di affidare la barca 55 ai flutti di un uomo tanto valente

di cui nessuno al momento è più facondo. Balza freme tuona

E si gonfia dei venti dell’eloquenza;

un uomo per cui è facilissimo sommergere 60 chi non ha imparato a condurre la barca,

se tu, Cristo potente, non porgi la mano con assenso favorevole,

perché l’impeto della sua bocca eloquente non mi travolga nei flutti,

65 ma piano piano camminando

possa restar fermo sui flutti ondeggianti. ***

Fin qui e le prime culle dei vecchi dei,

e i motivi che hanno suscitato nel mondo uno sciocco errore abbiamo esposto, e che Roma ormai crede al nostro Cristo. Ora leggerò le obiezioni, ora confuterò le parole con altre parole. 5 Dunque, da dove ha iniziato Simmaco o da quali parole ha esordito

per piegare con più forza il pio cuore degli imperatori con arte ammaliatrice? I signori di armi, nel fiore rigoglioso della giovinezza,

nati fra gli accampamenti del padre, sotto l’immagine del nonno cresciuti, rinvigoriti dagli esempi raccolti in casa,

10 orator catus instigat, ceu classica belli clangeret, exacuitque animos et talia iactat: «Si vobis vel parta, viri, victoria cordi est

vel parienda dehinc, templum dea virgo sacratum obtineat vobis regnantibus! Ecquis amicus 15 hostibus hanc vestro sancte negat esse colendam

Imperio, cui semper adest, quod laudibus implet?» Haec ubi legatus, reddunt placidissima fratrum ora ducum: «Scimus quam sit victoria dulcis fortibus, Ausoniae vir facundissime linguae; 20 sed quibus illa modis, qua sit ratione vocanda,

novimus; hac primum pueros pater imbuit arte, hanc genitore suo didicit puer ipse magistro. Non aris, non farre molae victoria felix exorata venit; labor inpiger, aspera virtus, 25 vis animi excellens, ardor, violentia, cura

hanc tribuunt, durum tractandis robur in armis. Quae si defuerint bellantibus, aurea quamvis marmoreo in templo rutilas Victoria pinnas explicet et multis surgat formata talentis, 30 non aderit versisque offensa videbitur hastis.

Quid, miles, propriis diffisus viribus aptas inrita femineae tibimet solacia formae? Numquam pinnigeram legio ferrata puellam vidit, anhelantum regeret quae tela virorum. 35 Vincendi quaeris dominam? Sua cuique dextra est,

et Deus omnipotens, non pexo crine virago, nec nudo suspensa pede, strophioque recincta, nec tumidas fluitante sinu vestita papillas. Aut vos pictorum docuit manus adsimulatis 40 iure poetarum numen conponere monstris, aut lepida ex vestro sumpsit pictura sacello quod variis imitata notis ceraque liquenti duceret in faciem, sociique poematis arte aucta coloratis auderet ludere fucis. 45 Sic unum sectantur iter, sic cassa figuris

somnia concipiunt et Homerus et acer Apelles et Numa, cognatumque malum pigmenta, camenae, idola: convaluit fallendi trina potestas.

Haec si non ita sunt, edatur: cur sacra vobis 50 ex tabulis cerisque poetica fabula praestat?

10 quello scaltro oratore instiga, come se suonasse

le trombe di guerra, e punge i loro animi scagliando tali parole: «Uomini, se a voi sta a cuore la vittoria ottenuta

o quella da ottenere in seguito, la dea vergine mantenga sotto il vostro regno il tempio a lei consacrato. Quale amico

15 di nemici nega che questa debba essere santamente venerata dal vostro impero, a cui ella è sempre vicina e che riempie di lodi?» Così l’ambasciatore; dopodiché rispondono le labbra serenissime dei fratelli regnanti: «Sappiamo quanto sia dolce la vittoria

per i forti, o uomo, il più eloquente della lingua italica; 20 ma in quali maniere, in quale modo essa sia invocare,

lo abbiamo conosciuto. Di quest’arte il padre ci ha imbevuto fin dall’infanzia, quest’arte il padre stesso ha appreso dal suo genitore maestro.

Non con altari, non con farro macinato giunge la felice vittoria, implorata: una fatica alacre, il valore rigoroso,

25 una forza d’animo straordinaria, l’ardore, la veemenza, la cura, assegnano questa, e l’aspra forza nel maneggiare le armi. Se mancheranno queste cose ai combattenti, l’aurea Vittoria pur dispiegando le sue ali scintillanti nel tempio marmoreo e pur stagliandosi foggiata di molti talenti,

30 non sarà presente e apparirà contraria alle aste distrutte. Perché, o soldato, diffidando delle tue forze, ti rivesti del vano sollievo di una figura femminile?

Mai una legione armata vide una donna alata, in grado di guidare le armi degli uomini anelanti.

35 Cerchi una signora delle vittorie? Per ciascuno è la propria destra e Dio onnipotente, non una virago dai capelli ben pettinati né sospesa su un piede nudo e col seno cinto da una fascia né vestita di pieghe svolazzanti nei turgidi seni.

O la mano dei pittori vi insegnò a comporre una divinità 40 con finti prodigi, secondo la legge dei poeti,

o la graziosa pittura ha preso da un vostro tempietto

qualcosa e dopo averlo imitato con vari segni e con cera liquida, gli ha dato un aspetto; fortificata dall’arte dell’alleata poesia, ha osato divertirsi con tinte colorate.

45 Così perseguono un unico cammino, così sogni privi di immagini concepiscono Omero, il valoroso Apelle,

Numa, e un male simile i colori, le camene,

gli idoli: si è irrobustito il triplice dominio dell’inganno. Se non è così, si dichiari perché a voi i riti sacri sono offerti 50 dal racconto poetico, sulla base di tavole e cere?

inguina, cum pulchrum poesis castraverit Attin? Cur etiam templo Triviae lucisque sacratis cornipedes arcentur equi, cum Musa pudicum 55 raptarit iuvenem volucri per litora curru,

idque etiam paries tibi versicolorus adumbret? Desine, si pudor est, gentilis ineptia, tandem res incorporeas simulatis fingere membris; desine terga hominis plumis obducere: frustra 60 fertur avis mulier magnusque eadem dea vultur.

Vis decorare tuum, ditissima Roma, senatum? Suspende exuvias armis et sanguine captas, congere caesorum victrix diademata regum, frange repulsorum foeda ornamenta deorum. 65 Tunc tibi non terris tantum victoria parta,

sed super astra etiam media servabitur aede.» Talia principibus dicta interfantibus ille

prosequitur, magnisque tubam concentibus inflat. Allegat morem veterem, nil dulcius esse

70 adfirmat solitis, populosque hominesque teneri lege sua: «Sicut variae nascentibus» inquit, «contingunt pueris animae, sic urbibus adfert hora diesque suus, cum primum moenia surgunt, aut fatum aut genium, cuius moderamine regnent.» 75 Addit et arcanum rerum verique latebras

prosperitate aliqua deprendi posse secundi per documenta boni, si sint felicia quae quis experiendo probet: cessisse parentibus omne idolium semper feliciter et pede dextro. 80 Enumerat longi vim temporis, excitat ipsam,

crinibus albentem niveis et fronte vietam, ore reposcentem querulo sua numina Romam: «Libera sum, liceat proprio mihi vivere more. Ecquis erit qui mille meos reprehenderit annos? 85 Uno omnes sub sole siti vegetamur eodem

aëre; communis cunctis viventibus aura; sed qui sit qualisque Deus, diversa secuti quaerimus, atque viis longe distantibus unum imus ad occultum: suus est mos cuique genti,

90 per quod iter properans eat ad tam grande profundum.» His tam magnificis tantaque fluentibus arte

dal momento che la poesia ha castrato il grazioso Attis? Perché dal tempio di Trivia e dai boschi consacrati si tengono ancora lontani i cavalli dal corneo zoccolo,

55 giacché la Musa ha trascinato per i lidi con carro veloce il casto giovane, e ti raffigura questo fatto anche una parete variopinta.

Cessa infine, stoltezza pagana, se hai vergogna, di modellare cose incorporee con membra finte,

cessa di ricoprire le spalle umane con piume; inutilmente

60 si parla di una donna uccello e della medesima dea come un avvoltoio. Vuoi decorare, ricchissima Roma, il tuo senato?

Appendi le spoglie catturate con armi e sangue, raccogli, vincitrice, i diademi dei re uccisi, spezza i vergogni ornamenti degli dei cacciati. 65 Allora non solo in terra otterrai la vittoria,

ma la conserverai anche sopra gli astri, nel centro del santuario celeste.» Mentre i principi lo interrompono, dicendo tali cose,

quello continua e gonfia la tromba dell’eloquenza con grandi accordi. Come prova produce l’antico costume, afferma che niente è più dolce 70 dell’abitudine, che i popoli e gli uomini sono tenuti insieme

dalla propria legge: «Come ai bambini che nascono – dice –

spettano varie anime, così alle città, non appena sorgono le sue mura,

il giorno e la loro ora arrecano o un fato o un genio, con la cui guida regnare.» Aggiunge inoltre che una certa prosperità,

75 tramite le prove di un bene favorevole,

può cogliere il mistero delle cose e i segreti della verità,

nel caso siano felici quelle cose che uno attesta con l’esperienza. Ogni culto idolatrico dei padri

ha avuto esito sempre positivo e favorevole.

80 Elenca la forza di un lungo tempo storico, rianima perfino Roma, candida di nivei capelli e con la fronte avvizzita,

che invoca con tono lamentoso i propri dèi:

«Libera io sono, mi sia lecito vivere secondo il mio costume. Chi sarà colui che oserà rimproverare i miei mille anni? 85 Noi tutti, sotto un unico sole, viviamo per la medesima aria:

comune a tutti i viventi è il cielo.

Ma seguendo cammini diversi, cerchiamo

chi sia e quale sia Dio, per vie molto distanti andiamo tutti verso un unico mistero: ogni popolo ha il suo costume,

90 per la cui strada incamminarsi e procedere verso un mistero tanto profondo.» A parole tanto magnifiche, che scorrono con grande abilità,

pandere vestibulum verae ad penetralia sectae. Nam cum divinis agimus de rebus, et illum 95 qui vel principio caruit vel fine carebit,

quique chao anterior fuerit mundumque crearit, coniectare animo contendimus, exigua est vis humani ingenii tantoque angusta labori.

Quippe minor natura aciem si intendere temptet 100 acrius ac penetrare Dei secreta supremi,

quis dubitet victo fragilem lassescere visu, vimque fatigatae mentis sub pectore parvo turbari, invalidisque hebetem subcumbere curis? Sed facilis fidei via provocat Omnipotentem 105 credere, qui bona non tantum praesentia donat,

sed ventura etiam longisque intermina saeclis promittit, ne totus eam resolutus inane

in nihilum, pereamque brevem post luminis usum. Muneris auctorem ipso de munere pendas:

110 Aeterna aeternus tribuit, mortalia confert mortalis, divina deus, peritura caducus.

Omnia, quae tempus peragit quaeque exitus aufert, vilia sunt brevitate sui, nec digna perenni

largitore, cui propria est opulentia, numquam

115 desinere idque homini dare quod non desinat umquam. Nam si corruptum corrumpendumve deus quid

praestat, habetque nihil quod sit pretiosius istis, pauper et infirmus, et summo indignus honore, et non omnipotens, sed inanis numinis umbra est. 120 Hac ratione fides sapienter conicit, immo

non dubitat verum esse Deum, qui, quod sumus et quod vivimus, inlaesum semper fore, si mereamur,

nos sperare iubet: «Caelestia si placet» inquit «scandere, terrenas animo depellite curas. 125 nam quantum subiecta situ tellus iacet infra,

dividiturque ab humo convexi regia caeli, tantum vestra meis distant mundana futuris, dira bonis, scelerata piis, tenebrosa serenis. Quidquid obire potest, fugiatis censeo, quidquid 130 naturae ratione capit vitium atque senescit,

pro nihilo, in nihilum quia sunt reditura, putetis.

Cuncta equidem, quae gignit humus, quae continent, ipse principio institui, nitidoque insignia mundo

l’atrio ai penetrali della vera religione. Infatti quando parliamo di cose divine 95 e cerchiamo di congetturare nell’animo

colui che mancò di un principio e mancherà di una fine, colui che fu anteriore al caos primigenio e che creò il mondo,

la forza della mente umana è debole e limitata per una fatica così grande. Giacché se una natura inferiore prova a immergere lo sguardo

100 più a fondo e a penetrare i segreti del Dio supremo,

chi potrebbe dubitare che essa nella sua fragilità si affatichi, dopo che la vista viene sconfitta, e che il vigore dell’anima affaticata in un piccolo cuore si turbi e soccomba nella propria insufficienza alle sue deboli preoccupazioni?

Ma la semplice via delle fede spinge a credere

105 all’Onnipotente, a colui che dona non solo i beni presenti, ma promette anche quelli futuri e durevoli in eterno, affinché non mi dissolva del tutto nella vacuità del nulla e non perisca dopo aver goduto della breve luce. Giudica l’autore del dono dal dono stesso: 110 l’eterno assegna beni eterni, il mortale ammassa

beni mortali; beni divini un dio, beni perituri un essere caduco. Tutto quanto il tempo consuma e quanto la morte rapisce sono di poco conto per la loro brevità, indegne di un eterno donatore, a cui appartiene una propria ricchezza,

115 quella di non aver mai fine e di dare all’uomo ciò che non termina mai. Se infatti Dio offre qualcosa di corrotto o di corruttibile

e non ha niente che sia più prezioso di queste cose, è un dio povero, fragile, indegno del massimo onore, non onnipotente, ma solo un’ombra di una vuota divinità. 120 Per questa ragione sapientemente la fede congettura, anzi

non dubita che vero è Dio che ci ordina di sperare che rimarrà sempre incolume, se lo meritiamo,

ciò che siamo e ciò che viviamo: «Se vi piace ascendere – dice – alle cose celesti, scacciate dall’animo le preoccupazioni terrene. 125 Quanto la terra giace in basso in posizione inferiore

e quanto la reggia della volta del cielo è divisa dalla terra, così le vostre cose del mondo distano dalle mie cose future,

le cose crudeli dalle buone, le scellerate dalle pie, le oscure dalle chiare. Ogni cosa che può morire, io consiglio di fuggire,

130 ogni cosa che si corrompe e invecchia secondo la legge di natura, consideratela un nulla, perché nel nulla dovrà tornare.

Tutto ciò che è generato dalla terra e che in essa è contenuto, io stesso in principio ho creato, e al mondo splendente ho dato insigni ornamenti e ho plasmato semi graziosi.

135 Sed tamen esse modum volui, parcisque fruenda moribus indulsi, quantum moribundus et aeger corporis ac vitae volucris sibi posceret usus, non ut captus homo studiis et inaniter ardens duceret omne bonum positum in dulcedine rerum 140 et specie tenui, quas currere tempore iussi.

Atque aevum statui, sub quo generosa probarem pectora, ne torpens et non exercita virtus robur enervatum gereret sine laude palestrae. Inlecebrosus enim sapor est et pestifer horum, 145 quae, dum praetereunt, miro oblectamine mentes

implicitas vinctasque tenent. Vincenda voluptas, elaqueanda animi constantia, ne retinaclis mollibus ac lentis nexa et captiva prematur. Luctandum summis conatibus, inter acerba 150 sectandum virtutis iter, ne suavia fluxae

condicionis amet, nimium ne congerat aurum, ne varios lapidum cupide spectare colores ambitiosa velit, ne se popularibus auris ostentet pulchroque inflata tumescat honore, 155 ne natale solum, patrii ne iugera ruris

tendat, et externos animum diffundat in agros, et ne corporeis addicat sensibus omne

quod vult aut quod agit, ne praeferat utile iusto, spemque in me omnem statuat. Numquam peritura 160 quae dedero, longoque die mea dona trahenda.»

Haec igitur spondente Deo, quis fortis et acer virtutisque capax breve quidque perennibus in se praetulerit, vel quis sapiens potiora putarit gaudia membrorum quam vivae praemia mentis? 165 Nonne hominem ac pecudem distantia separat una,

quod bona quadrupedum ante oculos sita sunt, ego contra spero quod extra aciem longum servatur in aevum? Nam si tota mihi cum corpore vita peribit,

nec poterit superesse meum post funera quidquam, 170 quis mihi regnator caeli, quis conditor orbis,

quis Deus, aut quae iam merito metuenda potestas? Ibo per inpuros fervente libidine luxus,

incestabo toros, sacrum calcabo pudorem, infitiabor habens aliquod sine teste propinqui 175 depositum, tenues avidus spoliabo clientes,

135 Pur tuttavia ho voluto che ci fosse un limite, ho concesso di godere di queste cose con moderazione, nella misura in cui il bisogno del corpo e della vita fugace, malato e votato alla morte, lo richiedeva,

non perché l’uomo, preso da inutili e ardenti desideri, pensasse di riporre ogni bene nella dolcezza

140 e nella bellezza delle cose, che per mio volere si dileguano nel tempo. Inoltre ho fissato un tempo in cui provare i cuori magnanimi, affinché la virtù intorpidita e non esercitata non nutrisse una forza snervata senza lode della palestra.

Allettante e mortale è il sapore di queste cose 145 che, mentre passano, legano e avvincono

l’anima con incredibile piacere. Bisogna vincere il piacere, liberare dai lacci la costanza d’animo, perché non sia

legata, imprigionata e schiacciata da legacci sciolti e allentati. Bisogna lottare con ogni massimo sforzo, in mezzo alle difficoltà 150 bisogna seguire la via della virtù, perché questa non ami

le dolcezze di una vita dissoluta, perché non ammassi troppo oro, perché, ambiziosa, non guardi avidamente i vari colori

delle pietre preziose, perché non si esponga

in cerca del favore popolare e non si gonfi superbamente di onore, 155 perché né il suolo natale né il campo paterno voglia

estendere, perché non allarghi il suo desiderio verso i campi vicini