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Atteggiamento verso il bilinguismo

IL REPERTORIO LINGUISTICO DEGLI STUDENTI BILINGUI OGGETTO DELLA RICERCA

5.3. ANALISI DEL REPERTORIO LINGUISTICO DEGLI STUDENTI BILINGUI OGGETTO DELLA RICERCA

5.3.3. Atteggiamento verso il bilinguismo

Dall’analisi dei dati della prima parte dell’intervista in cui sono state fornite delle coppie di aggettivi bipolari per definire la lingua italiana emerge, innanzitutto, un atteggiamento sicuramente positivo rispetto all’italiano. Tutti gli studenti della ricerca sono unanimi nel definirla come una lingua facile. Dai commenti di alcuni studenti si può rilevare, tuttavia, che questo aggettivo è stato scelto pensando alla maggiore difficoltà di parlare in cinese e, quindi, ad una percezione di minore competenza in cinese rispetto all’italiano. Un ulteriore criterio alla base di tale scelta è legato ai diversi tempi di acquisizione di più lingue e alle difficoltà ad essi connesse. Non si percepisce, quindi, l’italiano come lingua facile a priori, ma facile solo se appresa da piccoli. Gli studenti sono, inoltre, generalmente dell’idea che l’italiano sia una lingua bella, e sostanzialmente utile. Per gli studenti della secondaria il concetto di utilità si lega sia con la possibilità di capire, di sapersi difendere e di parlare con le persone, sia con il paese in cui ci si trova. Dai commenti emerge, anche in questo caso, la visione di una lingua non utile a priori, ma tale perché è la lingua che si parla nel paese in cui gli studenti vivono.

Rispetto alla seconda parte, il questionario somministrato solo agli studenti della secondaria, è stato analizzato in maniera multidimensionale creando delle sotto-categorie in cui far convergere le diverse affermazioni presenti nel test. Il primo punto analizzato è stato l’atteggiamento verso le lingue conosciute e parlate dai soggetti della ricerca. I dati confermano quanto emerso nella prima parte rispetto all’italiano e ci permettono, inoltre, di definire l’atteggiamento verso il cinese ugualmente positivo. Gli studenti si sono mostrati d’accordo rispetto all’importanza di saper parlare sia il cinese che l’italiano, e non credono basti solamente sapere l’italiano. Quest’ultima affermazione è molto probabilmente legata al fatto che nei diversi domini d’uso è ancora fortemente necessario l’uso o del dialetto o del putonghua perché gli interlocutori all’interno della comunità non conoscono l’italiano. La conoscenza delle due lingue, in ogni caso, secondo i dati riportati, non crea problemi alle persone. Non c’è accordo nelle risposte date dai soggetti rispetto al legame bilinguismo- maggiore intelligenza, ma emerge l’idea generale che si sappiano più cose se si

parlano più lingue. Non viene, invece, espressa un’opinione sulla difficoltà o meno di un bilinguismo simultaneo.

È interessante notare che l’insegnamento delle due lingue non è generalmente ritenuto un compito della scuola italiana. Per qualcuno, tuttavia, dovrebbero esserci indicazioni bilingui nella scuola , per altri è indifferente, mentre altri sono in disaccordo. Generalmente gli studenti sono dell’idea che entrambe le lingue dovrebbero avere lo stesso peso nella città in cui vivono, ritenendo, infatti, che esse possano benissimo convivere senza problemi nella stessa città. Questi ultimi dati fanno pensare che nei soggetti della ricerca c’è sicuramente una visione positiva del bilinguismo, ma che gli ambiti di apprendimento delle due lingue debbano essere separati, sebbene si auspichi una maggiore visibilità della lingua cinese, al pari dell’italiano.

Una seconda sotto-categoria presa in considerazione è l’atteggiamento verso le persone che parlano cinese. Dal momento che gli studenti per primi danno al loro bilinguismo un valore positivo, possiamo, chiaramente, dedurre che lo stesso valore venga attribuito anche ai parlanti sinofoni. Questo atteggiamento non sembra essere un fenomeno transitorio e strettamente legato al presente, visto che dalle affermazioni fatte emerge come gli stessi studenti vorrebbero essere riconosciuti anche da adulti come parlanti bilingui e vorrebbero continuare ad usare il cinese con i figli in modo tale che anch’essi possano parlare entrambe le lingue. Chi parla cinese, è, dunque, percepito positivamente, e un tale atteggiamento favorevolmente proiettato anche nel futuro ha sicuramente un’influenza positiva sul mantenimento della lingua cinese.

L’ultima sotto-categoria presa in esame riguarda, infine, l’atteggiamento verso l’uso funzionale o strumentale del cinese. Dall’analisi emerge che il bilinguismo, non limitandosi, quindi, alla sola conoscenza del cinese, è percepito come un fattore importante per trovare lavoro, anche se poi gli studenti globalmente non esprimono giudizi sull’idea di un guadagno maggiore legato allo status di parlanti bilingui.

Come sostiene Mackey (1962) “bilingualism is the property of the individual. Each individual creates a unique ‘print’ of his or her bilingual world. It’s the individual interactions with the wider community that create the phenomenon of bilingualism”. Allo stesso modo l’atteggiamento sviluppato verso il bilinguismo non è semplicemente dato dalle percezioni individuali e dalle

opinioni personali del parlante bilingue. Anche in questo caso la comunità, nel senso più ampio del termine, all’interno del quale il parlante bilingue si trova a vivere ha un’influenza e un peso nella formazione di un atteggiamento più o meno positivo verso il bilinguismo.

I soggetti della ricerca sono parlanti bilingui inseriti in un contesto monolingue, in cui non è attiva nessuna politica scolastica specifica per il supporto dei soggetti bilingui. Vista l’alta percentuale di parlanti non italofoni presenti nella scuola, le politiche educative sono al momento impegnate nell’attivazione di laboratori di italiano L2 rivolti agli alunni neoarrivati o con bassa competenza dell’italiano. Il plurilinguismo degli studenti è, quindi, una realtà stabile nella scuola in cui è stata condotta la ricerca, similmente alle altre scuole del Comune di Prato, ma non sono ancora state attivate politiche specifiche per i parlanti bilingui come i soggetti della nostra ricerca.

La specificità della realtà scolastica del Comune di Prato ha portato gli insegnanti ad assumere nel tempo diversi comportamenti rispetto al bilinguismo, come emerge dalle osservazioni sul campo. Una parte limitata di insegnanti, infatti, richiede agli studenti bilingui, come i soggetti della ricerca, e ai non italofoni, con diversi livelli di competenza in italiano, l’uso esclusivo dell’italiano all’interno del contesto scolastico. Un’analoga percentuale è consapevole dell’importanza del mantenimento della L1 nei processi glottodidattici secondo la teoria dell’interdipendenza (Developmental

Interdependence Hypothesis) di Cummins (1984). La maggioranza degli

insegnanti, invece, non esprime alcun giudizio e permette l’uso della lingua della comunità come lingua veicolare utilizzata dai parlanti bilingui verso i pari con minore o bassa competenza in italiano e come strumenti di accoglienza. Azioni positive finalizzate al sostegno del mantenimento del putonghua nei bambini bilingui sono state realizzate nel corso degli anni sia dal Comune di Prato che dalla stessa comunità cinese.

Come abbiamo detto nel capitolo 1, infatti, molte famiglie percepiscono la conoscenza della lingua cinese, in particolare scritta, come fondamentale per la preservazione dell’identità culturale, per la possibilità di mantenere rapporti con il resto della famiglia rimasta in Cina, nonché per possibili rientri nel paese d’origine o possibili opportunità di business a cavallo fra i due mondi.

Sono quindi nate nel corso degli anni delle vere e proprie scuole, dove viene insegnata la lingua cinese o addirittura viene proposto un percorso di studi parallelo a quello effettuato nelle scuole italiane ma in cui il cinese viene utilizzato come lingua veicolare.

Constatato il bisogno espresso e allarmato dell’espandersi di iniziative che evidentemente si muovono ai margini della legalità, il Comune di Prato ha cercato di rispondere all’esigenza attivando a sua volta dei corsi di lingua cinese specificatamente pensati per i bambini e i ragazzi di seconda generazione.

Non esistono studi in merito al funzionamento di queste strutture cinesi, sia per i limiti dell’attuale ricerca scientifica sia per le logiche cautele adottate da realtà che si pongono ai limiti della legalità; ma dai colloqui fatti nel corso degli anni con i genitori durante gli incontri scuola-famiglia emerge, tuttavia, che anche la scuola organizzata dalla comunità si è differenziata nel tempo nel tentativo di rispondere alle esigenze della comunità stessa. Accanto allo studio del cinese, sempre più spazio hanno assunto l’insegnamento di contenuti disciplinari, soprattutto di tipo matematico, ma anche l’insegnamento della lingua italiana realizzato attraverso l’uso del cinese come lingua veicolare. Parlando con i genitori si evince, però,anche una chiara indicazione di priorità legata al progetto migratorio intrapreso.

Nel caso il genitore abbia la percezione che sia troppo impegnativo e difficile per il figlio stesso frequentare parallelamente i due percorsi di studio, viene sempre più spesso deciso di interrompere la frequenza della scuola cinese e magari rimandarla di qualche anno.

D’altra parte gli studenti più grandi oggetto della ricerca hanno raccontato di aver iniziato a seguire i corsi di cinese solo negli ultimi anni a dimostrazione del fatto che si sta recuperando nella comunità l’importanza di sapere anche leggere e scrivere in cinese. Gli studi sulla comunità cinese di Prato (per approfondimenti cfr. cap. 1) fanno supporre, infatti, che il diverso atteggiamento nei confronti del mantenimento della lingua non nasca soltanto da un atteggiamento positivo nei confronti del bilinguismo e dal desiderio di mantenimento dell’identità culturale, ma sia legato anche al cambiamento nel progetto migratorio. Da una parte non si esclude, infatti, la possibilità di tornare in Cina, dall’altra la diversificazione delle attività economiche

all’intero della comunità ha visto nascere e crescere il business a cavallo tra i due Paesi. La combinazione di questi motivi spiega l’impulso dato negli ultimi anni all’alfabetizzazione in cinese dei figli. I genitori, infatti, continuano a pensare che sia difficile acquisire le due lingue contemporaneamente e che possa creare confusione - avvallati in questa opinione anche dagli insegnanti –; ma la frequenza ad entrambe le scuole viene, comunque, percepita come parte delle difficoltà necessarie per la realizzazione del progetto migratorio

Nel corso degli anni, invece, non sono cambiate le abitudini linguistiche dei genitori che non usano quasi mai l’italiano per comunicare con i figli.

Nella maggior parte dei casi sono tutti figli di prima generazione che, per le caratteristiche della comunità stessa (cfr. cap. 1), non hanno necessità e non hanno mai imparato la lingua. Anche nei casi in cui i genitori siano arrivati in Italia da piccoli e abbiano seguito un percorso quasi regolare di scuola e abbiano, quindi, una buona competenza in italiano, dalle osservazioni sul campo si è potuto rilevare che si rivolgono comunque in putonghua o in dialetto ai figli.

Rispetto a tutte le influenze esterne prese in considerazione possiamo, quindi, concludere che da parte degli insegnanti, gli studenti non desumono un valore necessariamente negativo o positivo per quanto riguarda il bilinguismo. Per i diversi atteggiamenti sopra descritti, vengono, piuttosto, trasmessi messaggi contrastanti, affiancati all’aspetto istituzionale di legittimazione della L1 attraverso la presenza dei mediatori culturali e dei documenti inerenti la scuola tradotti nelle varie lingue. Le politiche attuate inizialmente dal Comune di Prato e successivamente portate avanti dalla comunità cinese per quanto riguarda il mantenimento della lingua d’origine, accanto alle abitudini linguistiche dei genitori, hanno, infine, contribuito nel sostenere e promuovere l’atteggiamento positivo nei confronti del bilinguismo che gli studenti hanno dimostrato di avere.

CAPITOLO 6

IL PROFILO LINGUISTICO DEGLI STUDENTI BILINGUI