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Attivismo e costruttivismo interazionista: il ruolo attivo e cooperativo dei bambini

IL LINGUAGGIO MEDIATORE DEI PROCESSI EDUCATIVI E DI SVILUPPO: PROSPETTIVE TEORICHE DI RIFERIMENTO

1.3 Attivismo e costruttivismo interazionista: il ruolo attivo e cooperativo dei bambini

I primi segnali di nuovo modo di interpretare i processi di apprendimento e di sviluppo dei bambini, che lo orienteranno verso prospettive socio-costruttiviste e culturali, sono rintracciabili nel costruttivismo interazionista di stampo piagetiano (1923, 1924) e nell’attivismo di Dewey (1915, 1916) che mettono in evidenza il ruolo attivo del bambino, in relazione con l’ambiente esterno e con i pari, nella costruzione della conoscenza, nell’apprendimento e nello sviluppo. Ciò avvia prospettive educative e didattiche come le scuole attive (Cousinet, 1949, Freinet, 1969) e il

cooperative learning (Johnson & Johnson, 1987; Slavin, 1991) che pongono al centro delle

dinamiche di crescita l’esperienza del bambino e la sua azione nel mondo, insieme al confronto tra prospettive differenti su di esse, attivato nello scambio dialogico tra pari.

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Il contributo di Piaget (1923, 1924) allo sviluppo di una prospettiva costruttivista è rappresentativo di una iniziale svolta nella concezione dei meccanismi di apprendimento. Lo psicologo ginevrino introduce infatti l’idea, centrale nella sua teoria, che il soggetto è un “costruttore” attivo della conoscenza, che si realizza nella dimensione relazionale con l’ambiente, sebbene tale relazione assuma nell’evoluzione delle sue ricerche e delle sue teorizzazioni dei caratteri che nel tempo pongono in secondo piano l’iniziale ruolo attribuito dallo psicologo al contesto sociale e al linguaggio nello sviluppo.

Secondo la teoria piagetiana l’apprendimento è dato dalle dinamiche di assimilazione e

accomodamento23 attraverso le quali il bambino, interagendo con il mondo naturale esterno, si adatta ad esso, costruendo e modificando le sue strutture cognitive, che evolvono progressivamente determinando uno sviluppo mentale che avviene per stadi successivi.24 Ponendo al centro la dimensione dell’equilibrio25 in un alternarsi di meccanismi di assimilazione e accomodamento, in cui azione e pensiero si ridimensionano in seguito ad ogni variazione esterna, Piaget evidenzia come la progressiva organizzazione dell’intelligenza dipenda da un sempre più preciso adattamento dell’organismo all’ambiente esterno, attraverso il quale vengono costruite, de-costruite e ri-costruite le strutture cognitive, in un alternarsi di momenti in cui vengono utilizzate quelle che il soggetto già possiede, accanto ad altri che ne richiedono invece la modificazione.26 È il modo in cui il soggetto si rapporta con il mondo esterno a determinare il processo di apprendimento, rendendo inscindibili soggetto e conoscenza, poiché ricorsivamente il soggetto agisce sulla conoscenza e viceversa, attraverso dinamiche di scambio o adeguamento.

Varisco (2002), nella sua riflessione sul contributo di Piaget alla teoria socio-costruttivista riconosce a questa visione di apprendimento per adattamento una serie di meriti, tra i quali, oltre all’aver evidenziato la funzione attiva e intenzionale del soggetto nei processi di costruzione della conoscenza, anche l’aver riconosciuto una necessaria relazione dinamica tra

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Con il termine “assimilazione” Piaget intende “ il processo mediante il quale un aspetto o un oggetto della realtà

esterna vengono incorporati nella struttura mentale del soggetto, oppure vengono interpretati dal funzionamento intelligente del soggetto, in modo coerente con il tipo di organizzazione cognitiva di cui l’individuo è dotato”, si tratta

del momento in cui il soggetto prende coscienza e attiva l’apprendimento. Il processo di “accomodamento”, complementare all’assimilazione, si ha invece quando “i dati dell’esperienza, incorporati nella struttura mentale del

soggetto, la modificano, accomodandola alle loro caratteristiche. L’accomodamento rappresenta la produttività dell’incontro fra la struttura mentale e le nuove opportunità offerte dall’ambiente esterno. […] la possibilità dell’individuo di adattarsi plasticamente alle esigenze che il mondo esterno gli presenta” (Valentini, 1998, p.146-147).

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Non è tra gli obiettivi del presente lavoro una disamina esaustiva dell’opera di Piaget, basta qui ricordare che secondo Piaget esistono diversi stadi dello sviluppo cognitivo: senso-motorio (dalla nascita a 18/24 mesi), pre-operatorio (2-7/8 anni), pre-operatorio-concreto (da 7/8 anni a 11/12 anni), formale astratto (oltre gli 11-12 anni). Cfr. Valentini, Tallandini, 1998, pp.159-186.

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Cfr. Valentini (1998).

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struttura mentale preesistente e stimoli cognitivi esterni. Tuttavia, definisce questo tipo di costruttivismo interazionista poiché “pur riconoscendo il ruolo attivo del soggetto nei processi

cognitivi, attivati da un’interazione tra dati esterni e dati interni ai suoi schemi concettuali, non presta però alcuna attenzione alla mediazione contestuale, sociale e culturale […], confina[ndo] il rapporto del soggetto al mondo fisico […] e trascurando i contesti sociali reali, ricchi e multiformi, formali e informali, scolastici ed extrascolatici, nei quali quotidianamente apprendiamo (Varisco,

2002, pp. 96-97). Ricorda così che lo stesso linguaggio assume per Piaget primariamente una funzione cognitiva (intrasoggettiva) e solo successivamente una funzione sociale, comunicativa (intersoggettiva) (ivi, p.97).

Secondo Piaget infatti il linguaggio è secondario, geneticamente posteriore, rispetto alle strutture logiche del pensiero e se gioca un ruolo nella formazione del pensiero, lo fa solo in quanto costituisce una delle manifestazioni della funzione simbolica (Piaget, 1923). In questa direzione il linguaggio rappresenta un potente strumento per il pensiero poiché con la sua conquista il bambino si appropria di veri e propri segni, significanti completamente differenziati dal loro significato. La rappresentazione verbale consente di richiamare oggetti e avvenimenti che non sono effettivamente presenti. Il linguaggio consente ragionamenti rapidi, poiché non è vincolato all’azione, ma può operare su un piano evocativo, svincolando il pensiero dal contingente e dall’immediato, portandolo a operare su una realtà spazio-temporale molto più vasta. Attraverso il linguaggio il bambino può cogliere simultaneamente rappresentazioni complesse, che l’intelligenza senso-motoria potrebbe elaborare solo poco per volta. La sua struttura logica, elaborata e condivisa socialmente, offre al pensiero uno strumento infinitamente più potente degli altri significanti, quali l’imitazione, il gioco simbolico, l’immagine mentale. Questi ultimi infatti costituiscono dei simboli, poiché presentano richiami o somiglianze con i loro significati, mentre il linguaggio è costituito da segni convenzionali, elaborati collettivamente ed acquisiti dal bambino attraverso un processo sociale di imitazione, che consiste nell’adattamento e nell’uso peculiare di modelli esterni. Tuttavia, nello sviluppo, secondo Piaget la logica mantiene un primato sul linguaggio, poiché si basa sulla coordinazione degli schemi delle azioni, dal livello senso-motorio fino alla costituzione delle operazioni logico-matematiche. Come dimostrato dal confronto tra progressi del linguaggio e quelli delle operazioni intellettuali è la logica secondo Piaget che consente la strutturazione del linguaggio e non viceversa (Piaget, Inhelder, 1966).

L’idea che Piaget non abbia sottolineato il ruolo giocato dall’interazione sociale e dal linguaggio nello sviluppo è evidenziata anche da altri studiosi interessati al ruolo del contesto sociale e

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culturale in tale processo. Carugati ad esempio definisce il costruttivismo piagetiano come un “costruttivismo in solitudine” (Carugati, 1988, p.105) in cui vi è una sostanziale indifferenza sia dal punto di vista teorico, che metodologico, rispetto alle più ampie condizioni storico-culturali in cui avviene l’apprendimento e ai contesti della vita quotidiana (come può essere ad esempio la scuola). Rogoff (1990, p.3) ribadisce come l’attenzione di Piaget sia rivolta prevalentemente all’individuo più che agli aspetti del mondo che il bambino si sforza di comprendere o ai modi in cui la società contribuisce allo sviluppo individuale, sottolineando come nella teoria piagetiana lo sviluppo è interpretato come un processo cha va dall’individuale al sociale. Pontecorvo (1991) infine, evidenzia in particolare come il ruolo del linguaggio e in generale della mediazione semiotica è per lo psicologo sempre secondario e relegato al periodo pre-logico.

Questi ultimi autori, tuttavia, e insieme a loro altri che hanno prestato attenzione a una rilettura diacronica dell’opera piagetiana, in particolare all’interno della psicologia sociale genetica, hanno riconosciuto l’iniziale attenzione di Piaget per la dimensione sociale e con questa per l’uso del linguaggio come mediatore privilegiato per l’azione. Si tratta di un’attenzione presente nelle opere iniziali di Piaget e che si modifica molto presto, divenendo solo secondaria, ma che è interessante richiamare sia per evidenziarne la natura e meglio comprenderne gli sviluppi che da essa sono stati orientati, in una prospettiva di continuità o di rottura, sia per evidenziare alcuni aspetti utili per la riflessione sull’uso della lingua da parte degli adulti nei confronti dei bambini più piccoli.

Barbara Rogoff (1990, p.35) evidenzia innanzitutto come in relazione allo sviluppo cognitivo, Piaget, posto di fronte al problema del ruolo della società nella logica dello sviluppo, afferma che individuo e società sono due elementi inseparabili: “Il fatto primario non è […] l’individuo, né

l’insieme degli individui, ma il rapporto tra gli individui, e un rapporto che modifica senza posa le stesse coscienze individuali” (Piaget, 1977). Ciò indica che la relazione tra i soggetti è considerata

significativa nel processo di modificazione e sviluppo, sebbene poi non sia interpretata come centrale. L’attenzione alla dimensione socio-culturale e al linguaggio è presente in particolare nelle prime opere di Piaget (Le langage et la pensèe del 1923 e Le jugement et le raisonnement

chez l’enfant del 1924), nelle quali egli pone l’attenzione sulle relazioni fra organizzazione

culturale della vita degli adulti e risultati sia dello sviluppo cognitivo, che dell’educazione morale nel bambino, mettendo l’accento sulla funzione dello scambio sociale e interrogandosi sull’origine sociale del pensiero logico. In tali opere Piaget riconosce allo scambio con gli altri un ruolo significativo sullo sviluppo del pensiero. In particolare, la cooperazione tra pari per la risoluzione di conflitti cognitivi derivanti dalla diversità di prospettiva, viene considerata un

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fattore centrale, sia dal punto di vista dello sviluppo morale, che intellettuale, poiché “non

soltanto la discussione fa sì che le opposizioni si interiorizzino in ciascuno sotto forma di dialogo mentale o dialettico, ma ancora, e noi diremmo soprattutto, ogni operazione e ogni affermazione sono situate in un insieme tale da acquisire il loro giusto valore in relazione a quello delle altre”

(Piaget, 1923, p.267). Inoltre, interrogandosi sull’origine sociale del pensiero logico, mette l’accento sul ruolo degli scambi sociali per lo sviluppo cognitivo, poiché è “l’urto dei nostri

pensieri con quelli degli altri che producono in noi il dubbio e il bisogno di dimostrare” (ivi, p.20),

mentre rispetto allo sviluppo del giudizio morale secondo Piaget “la via sociale è necessaria per

permettere all’individuo di prendere coscienza del funzionamento dello spirito” (ivi, p.324).

Rimane comunque primario il conflitto che l’interazione con l’altro produce all’interno del soggetto, piuttosto che, come sarà per Vygotskij (1934), il piano sociale di tale conflitto, che avviene tra soggetti, a livello interindividuale, per essere risolto nella relazione e poi interiorizzato. In Piaget il processo di interiorizzazione è invece innescato dall’azione del soggetto quando questa diviene mentalmente reversibile trasformandosi in operazione (Pontecorvo, 1999, p.12).

Il ruolo primario del conflitto socio-cognitivo è attribuito da Piaget allo scambio tra bambini, piuttosto che a quello con l’adulto, poiché, secondo lo psicologo ginevrino, le interazioni tra pari rendono necessaria la socializzazione e l’esplicitazione del proprio pensiero perché l’altro possa comprenderlo. Cosa che invece viene meno nell’interazione con l’adulto, rispetto al quale, a causa di una relazione quotidiana e di uno squilibrio nelle relazioni di potere che attribuisce al bambino una posizione di inferiorità, il bambino vive un’esperienza di comprensione da parte dell’adulto che non lo inducono a precisare il suo pensiero per poter essere compreso e per poter convincere l’altro delle sue posizioni. Il bambino non sente il bisogno di esplicitare il suo pensiero all’adulto perché nell’esperienza quotidiana viene da questo ugualmente compreso (Piaget, 1923, p.214). Inoltre, tale relazione di potere fa sì che ciò che dice l’adulto venga interpretato dal bambino come qualcosa cui è necessario adeguarsi, portandolo ad esprimersi come crede che l’altro si aspetti da lui. Anche rispetto all’educazione morale Piaget aveva sostenuto che le norme della società adulta possono costituire ostacoli per lo sviluppo del pensiero morale e di comportamenti morali autonomi (Carugati, Selleri, 2001, p.26).

Queste idee sono riflesse anche nel metodo utilizzato da Piaget per “interrogare i fanciulli” e comprendere le loro idee e prospettive sul mondo e sui suoi fenomeni, che prevede l’uso di un colloquio clinico, cioè di alcune domande, accompagnato, nel metodo critico, anche a dei materiali concreti, in cui è necessario prestare estrema attenzione a non suggestionare i

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bambini, considerati in uno stadio di sviluppo “egocentrico”, non ancora capaci dunque di decentrarsi e di considerare diverse prospettive e facilmente influenzabili.27

Tuttavia, date queste premesse, come ben evidenzia Pontecorvo (1991, pp.41-43), ben presto nel modello proposto da Piaget muta il fattore che viene considerato determinante nello sviluppo mentale, dallo scambio sociale si passa alla coordinazione graduale delle azioni, che viene ritenuta la “matrice comune” sia delle operazioni della ragione che della cooperazione interindividuale. L’egocentrismo intellettuale e verbale viene superato grazie alla coordinazione delle azioni che permette la cooperazione. Così il linguaggio come mezzo di rappresentazione di sé e come mezzo di comunicazione con gli altri assume un ruolo secondario, portando alla svalutazione anche della funzione dell’interazione verbale tra pari. “Alla scarsa considerazione,

già sostenuta in precedenza, del ruolo del discorso che si svolge fra adulto e bambino, che è visto soltanto come un poco efficace intervento dell’adulto orientato a spingere il bambino verso modalità e processi che gli sono allieni, si aggiunge ora una svalutazione del ruolo del linguaggio tra bambini” (Pontecorvo, 1991, ed. 2004, p.42).

Tale aspetto, tuttavia, non approfondito da Piaget, è stato ripreso da alcuni studiosi, in particolare da Willem Doise e Gabriel Mugny (1981), Perret-Clermont (1979) che, condividendo una concezione socio-costruttivisa dello sviluppo, hanno analizzato l’influenza dell’interazione tra pari nello sviluppo dei più piccoli indicando nella cooperazione e nella coordinazione, soprattutto fra bambini, per la risoluzione di conflitti socio-cognitivi, il processo dinamico che fa dell’interazione la fonte dei progressi cognitivi. In particolare l’attenzione è stata rivolta al ruolo del confronto e del conflitto cognitivo e socio-cognitivo tra punti di vista differenti, anche se non corretti, che produce un cambiamento della prospettiva dei due interlocutori che non possono mantenere le loro posizioni precedenti. L’efficacia di tale conflitto è stata messa in evidenza anche in bambini di età prescolare in relazione alle prove piagetiane di conservazione nel passaggio dallo stadio pre-operatorio a quello operatorio ed è stato ripreso da Orsolini e Pontecorvo (1991) per l’interpretazione di situazioni discorsive in relazione a gruppi di bambini di 5 anni della scuola dell’infanzia.28

Assumendo tale direzione la prospettiva interazionista e costruttivista allo sviluppo e all’apprendimento ha prodotto un aumento degli interessi per la dimensione sociale e di gruppo dell’educazione a scuola, come strumento non solo per lo sviluppo sociale, ma anche cognitivo dei bambini. Questo approccio ha portato ad adottare un nuovo sguardo verso i contesti

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Cfr. cap. 2 par. 2.4.4.

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educativi e di apprendimento, spostando l’accento dall’interazione insegnate-allievo all’interazione tra insegnante e gruppo di bambini e tra bambini, valorizzando il gruppo quale contesto potenzialmente ricco di possibilità evolutive.

Un contributo importante in tale direzione è stato offerto dal filosofo e pedagogista statunitense John Dewey (1915, 1916), che, nell’ambito del pragmatismo americano, valorizza la dimensione sociale della scuola, ponendo al centro dell’educazione il concetto di esperienza come rapporto tra l’uomo e l’ambiente e la sua rielaborazione e attribuendo una fondamentale importanza al ruolo della comunicazione e della trasmissione sociale all’interno di una società democratica, in cui la scolarizzazione ha un ruolo centrale per favorire lo sviluppo di atteggiamenti cooperativi e orientati positivamente verso la società. Nella prospettiva deweyana la dimensione sociale svolge una duplice funzione: da un lato l’individuo si sviluppa all’interno di una società partecipando a esperienze condivise come attività e come media, primo fra i quali il linguaggio, dall’altro vi è il ruolo dell’educazione e dunque di un “ambiente speciale” (Dewey, 1916, p.24) quale è la scuola, che si realizza in modi che sono a fondamento degli scopi che la società persegue (Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1991, p.40). Dewey fonda, da un punto di vista propriamente epistemologico, “l’idea dell’inscindibilità tra i processi di conoscenza e di pensiero

e le esperienze sociali, ponendo il tema della natura sociale della mente e richiamando l’attenzione sull’importanza del linguaggio e della comunicazione in quanto veicoli di costruzione dell’esperienza condivisa” (Mazzara, 2003, p.33).

L’apprendimento viene dallo studioso considerato come fenomeno sociale poiché l’esperienza è sempre esperienza sociale e si sostanzia nell’arricchimento e nell’espansione dell’individuo attraverso il confronto con una pluralità di opinioni e modi di pensare. Tale processo avviene attraverso l’incontro con problemi reali che stimolano l’impulso all’investigazione, a sua volta scatenato dall’intreccio tra due dimensioni: l’istinto al fare, l’impulso a costruire e l’istinto alla conversazione o comunicazione. Tale impulso può però essere abbandonato al caso, oppure essere diretto “per vie che diano buoni risultati” (Dewey, 1915). Compito della scuola diviene allora quello di costruire consapevolmente tali vie interrogandosi rispetto a quale esperienza può essere realmente efficace nell’accrescere le conoscenze (Dewey, 1916).

In questa direzione viene sottolineata l’importanza di creare nella scuola occasioni di comunicazione e conversazione pensate dall’insegnante per rispondere alla naturale propensione dei bambini alla curiosità verso le esperienze e alla loro investigazione: “Dirigendo

le attività dei giovani, la società determina il proprio futuro determinando quello dei giovani. Da quando il giovane da un dato momento ad un altro compone la società di quel periodo, la loro

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natura sarà largamente volta verso la direzione delle attività dei bambini che è stata loro data in un periodo precedente” (ivi, p.41). In altre parole, per una società che funziona effettivamente

come una democrazia, in cui le decisioni sulle questioni di primaria importanza sono prese sulla base di dialoghi informati tra i suoi membri, la disposizione e le competenze per agire in questo modo devono essere acquisite attraverso la promozione di tali pratiche negli anni formativi della scuola (Wells, 2007, p.265).

Il pensiero di Dewey sembra in qualche modo anticipare la questione della mediazione semiotica e dello sviluppo umano che vedremo in Vygotsky (Glassman, 2001; Miettinen, 2001, cit. in Wells, 2007, p.265): allo stesso modo, egli stesso ha dedicato il suo pensiero alle condizioni che devono essere soddisfatte per far fiorire il dialogo. Su una cosa è sicuro: perché gli studenti si impegnino su un argomento questo deve essere di loro interesse, ma anche porre problemi o sollevare dubbi, che motivano gli studenti ad esplorare ulteriormente la questione. Ciò ha portato Dewey a porre grande enfasi sull’indagine, la ricerca, l’investigazione, sia come motivazione per impegnarsi, sia come principio organizzativo per la selezione di attività di apprendimento. I presupposti delle prime teorie piagetiane e di quelle deweyane vengono assunti, a partire dagli anni ’20, dal movimento della pedagogia attiva, o attivismo, che valorizza l’interazione sociale in ambito educativo come occasione di apprendimento attraverso esperienze di comunicazione e dialogo.

In realtà è già a partire dalla fine dell’Ottocento che inizia a diffondersi la necessità di ripensare il rapporto tra insegnamento e apprendimento, connotati da un modello didattico trasmissivo, con alla base un concetto di apprendimento lineare, cumulativo, passivo. Grazie al diffondersi dell’attivismo iniziano a svilupparsi nel mondo didattico e pedagogico un insieme di esperienze che si dirigono verso un modello che pone al centro l’attività autonoma di colui che apprende, attorno al quale ruota il processo di crescita conoscitiva. L’attivismo propone una scuola in cui la didattica trasmissiva viene abbandonata a favore di metodi che valorizzano l’esperienza diretta e partecipata del soggetto che apprende. Molti pedagogisti si fanno promotori di esperienze innovative, che in qualche modo anticipano i modelli attuali “ideali”, verso i quali oggi sarebbe interessante gettare un nuovo sguardo (cfr. Ligorio, Pontecorvo, 2010). Si sviluppano le proposte dello studioso Pestalozzi e del suo discepolo tedesco Froebel, dalle quali nasce il movimento delle scuole attive con i loro fondatori come Adolphe Ferriére, l’esperienza svizzera di Cleparàde, le scuole italiane fondate da Maria Montessori e dalle sorelle Agazzi.29

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Convinto seguace dell’attivismo, Roger Cousinet (1949), riprendendo le posizioni di Piaget e Dewey delinea, alla fine degli anni ’40, il “metodo di lavoro libero per gruppi”, che attribuisce alle relazioni tra bambini un ruolo chiave per l’educazione e l’istruzione. In particolare egli sottolinea il ruolo dell’insegnate nell’organizzazione dell’ambiente di vita degli alunni per permettere loro di istruirsi in un contesto in cui la presenza degli altri bambini svolge un ruolo chiave nel passaggio dall’azione al pensiero attraverso gli scambi verbali che permettono di prendere coscienza degli altri e delle loro idee. La comunicazione verbale tra pensieri individuali