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I contesti educativi per l’infanzia come comunità di pratiche sociali e culturali mediate dal discorso

IL LINGUAGGIO MEDIATORE DEI PROCESSI EDUCATIVI E DI SVILUPPO: PROSPETTIVE TEORICHE DI RIFERIMENTO

1.5 I contesti educativi per l’infanzia come comunità di pratiche sociali e culturali mediate dal discorso

Adottando un’ottica socio-culturale che integra le prospettive antropologiche e sociali sul linguaggio, la scuola e ciascun gruppo classe, e dunque le scuole dell’infanzia e ciascun gruppo sezione, possono essere concepiti come specifiche comunità culturali, come contesti, mondi sociali, in cui si costruiscono e si generano delle culture che producono e dotano di senso tutte le interazioni e le pratiche concrete che quotidianamente vengono agite da insegnanti e bambini (Molinari, 2007, 2010; Rogoff, 2003) facendone uno “spazio privilegiato per la costruzione di

conoscenze” (Molinari, 2010, p.15) e per la socializzazione al linguaggio e attraverso il linguaggio

(Ochs, 1986, 2006).36

In questa prospettiva la co-costruzione di significati culturali, attraverso le interazioni discorsive tra i membri della comunità scolastica, sia tra insegnante e bambini che tra pari, rappresenta una delle finalità essenziali di questa stessa comunità. Al suo interno il processo di apprendimento/insegnamento è considerato come un’attività di co-costruzione dialogica di saperi che sono culturalmente, storicamente e contestualmente determinati, piuttosto che un

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processo di trasmissione di conoscenze e saperi come fatti oggettivi. L’adulto non trasferisce saperi verso il discente, ma lo guida alla costruzione di saperi, alla scoperta di nuove conoscenze favorendone la partecipazione e la rielaborazione autonoma.

Come originariamente espresso da Cole e colleghi (1971) in relazione all’educazione, è importante comprendere i processi di sviluppo del pensiero e di apprendimento alla luce dei principi contestuali e culturali, secondo i quali la cognizione umana non esiste solo all’interno della mente degli individui, ma nel contesto delle attività, negli strumenti utilizzati e fra i partecipanti alle attività. “Nella prospettiva socio-culturale, la cultura gioca un ruolo cruciale

nell’organizzare l’esperienza sociale umana, in particolare nel corso dei quotidiani scambi interattivi e simbolici fra adulti e bambini […] è calata nella realtà e riconoscibile nelle pratiche quotidiane a cui partecipano solo i membri che tale cultura condividono e sanno interpretare”

(Molinari, 2002, pp.59-60).

Condividendo ogni giorno innumerevoli azioni e pratiche adulti e bambini progressivamente danno vita a un luogo che diviene significativo per chi regolarmente lo frequenta, poiché

“Ognuna di queste pratiche partecipa alla definizione della scuola, e delle classi al suo interno, come sistemi di interazioni sottesi da significati culturali veicolati in primo luogo attraverso gli strumenti semiotici, come il linguaggio e la comunicazione” (Molinari, 2010, p. 15).

Partecipando ai processi discorsivi che si sviluppano in classe con gli insegnanti e con i pari, i bambini prendono parte attivamente alla cultura scolastica, apprendono i modi discorsivi tipici di tali contesti e, apprendendoli, vengono socializzati alla cultura scolastica, a quella della loro specifica classe e a quella del Paese in cui si trovano, in essa riflesso. Nel farlo, si appropriano creativamente delle informazioni ottenute nell’interazione con gli adulti, risignificandole anche nelle interazioni con i pari (Corsaro, 1997).

La scuola dell’infanzia, costituisce da questo punto di vista una “comunità di pratiche dotata di

significati condivisi da tutti coloro che si trovano quotidianamente a frequentarla, e gli aspetti organizzativi, i valori, le rappresentazioni, espressione della cultura di riferimento, hanno notevoli conseguenze sui processi di apprendimento” (Molinari, 2010, p.17).

Guardare alla scuola dell’infanzia come luogo culturale vuol dire considerare in questa prospettiva non solo il rapporto tra i bambini e l’insegnante, “ma anche la classe e l’intera scuola

intesa come luogo in cui si veicolano modi di pensare, pratiche culturali, modalità e possibilità di essere persone, individui e cittadini migliori” (Ligorio, Pontecorvo, 2010, p.14).

Le interazioni discorsive che caratterizzano la quotidianità che si dispiega tra adulti e bambini possono essere reinterpretate all’interno delle pratiche e delle attività che in tal modo

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costruiscono, quali tempi e spazi di condivisione all’interno dei quali si realizza la Zona di Sviluppo Prossimale (Vygotskij, 1934) in cui l’adulto può svolgere il suo ruolo di supporto ai processi di partecipazione e di crescita dei bambini.37

Un costrutto interessante per prendere in considerazione tali pratiche deriva ancora una volta dalla prospettiva vygiotskijana, in particolare dagli sviluppi che da essa sono stati avviati ad opera di Leont’ev (1959, 1975) nella prima metà del Ventesimo secolo, sviluppando, appunto, una Teoria dell’Attività, elaborata da alcuni autori di orientamento socio-culturale che condividono questa prospettiva (Cole, 1996; Wertsch, 1998), che aggiunge alla teoria storico-culturale l’attenzione per le attività concrete entro le quali avviene l’interazione che è alla base dello sviluppo. L’interazione, sociale e discorsiva, che viene posta al centro dei processi di sviluppo, di apprendimento e acquisizione delle conoscenze, non è qualcosa che accade nel vuoto, ma si realizza in funzione di un contesto più largo in cui essa stessa è inserita, che è definito in termini socio-culturali. Al centro dei processi sociali vengono posti “i valori, gli

obiettivi e le pratiche radicate nella comunità culturale e comprensibili solo all’interno di essa”

(Molinari, 2002, p.59). Il contesto cui si fa riferimento non è dunque definito esclusivamente rispetto alle sue dimensioni fisiche e percettive, quanto piuttosto rispetto “alla sua realtà

sociale, alle sue caratteristiche in termini di attese sugli scopi e quindi anche sui ruoli, i mezzi, le procedure, le operazioni” (Pontecorvo et al., 1991, p.33).

Leont’ev (1975) nell’elaborare la sua teoria individua tre livelli: l’attività, le azioni e le operazioni. Definisce attività essenzialmente un’attività esterna, sensibile, pratica, che orienta il soggetto nel mondo oggettivo, caratterizzata da un motivo che ne costituisce l’oggetto. Sono esempi di attività il gioco, l’istruzione formale, il lavoro, ecc. Non si tratta di una reazione, ma di un sistema con una sua struttura, i suoi passaggi, le sue trasformazioni interne, un suo sviluppo. Il livello dell’azione diretta a uno scopo, specifica la relazione mezzi-fini e rappresenta il punto di incontro tra il piano del funzionamento interpsicologico e quello intrapsicologico. È il luogo in cui si realizza l’azione congiunta, la condivisione dell’attività nel contesto di una relazione e nella definizione di un contesto intersoggettivo. Le attività si compongono di azioni, processi subordinati a uno scopo consapevole, che a loro volta hanno un aspetto operativo, dato dalle condizioni di raggiungimento di tale scopo. I modi di realizzare un’azione sono dunque le

operazioni, cioè le condizioni concrete in cui l’azione si realizza. Alcune azioni vengono realizzate

o portano alla costruzione di strumenti, che assumono la forma di operazioni cristallizzate. Sono strumenti sia gli utensili (es. pialla, martello), che sono cristallizzazioni di azioni pratiche, sia gli

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strumenti semiotici (grafici, forme di argomentazione, ecc.), che sono cristallizzazioni di operazioni mentali. Operazioni e strumenti possono essere utilizzati per diversi scopi e dunque anche per diverse azioni.

Pontecorvo (1991, et al.) propone di provare a guardare l’acquisizione di conoscenza nel contesto sociale e culturale che è la scuola adottando questo quadro di riferimento. Indica però che per farlo bisognerebbe specificare meglio il livello delle attività, definendo diversi tipi di gioco, lavoro, situazioni di apprendimento, e suggerisce a tal fine di affiancare alla nozione di attività quella di frames, cioè forme di inquadramenti delle azioni mentali e comunicative. Si tratta di una nozione ripresa da Hymes (1974) e da Goffman (1974) usata per indicare la necessità di sapere se l’attività in cui si è impegnati è giocare, scherzare, chiacchierare, recitare, fare una conferenza. Viene evidenziata in questa prospettiva la necessità di sviluppare aspettative adeguate sull’attività, e quindi di attivare le azioni, anche linguistiche, le operazioni e le procedure coerenti con il frame o attività cui si partecipa. Infatti il livello delle attività, il cui motivo è definito dai partecipanti, guida alla scelta delle azioni e ne determina il significato funzionale. Ad esempio l’azione “camminare per raggiungere un posto” ha un funzione diversa se interpretata nel quadro di attività “esercizio fisico salutare” o “partecipare a una manifestazione” o “andare a lavorare”. Pontecorvo indica inoltre che in un contesto educativo solitamente un’azione si articola per lo più in sub-azioni. L’azione, con le sue sub-azioni è secondo Pontecorvo il luogo in cui avviene la mediazione interpersonale e didattica: rappresenta dunque il luogo di incontro tra esperto e novizio, tra chi sa e chi non sa ancora fare da solo, tra insegnante (o genitore) e bambino (Pontecorvo, 1991, p.36).

I modi di eseguire l’azione si differenziano invece in funzione dei modi in cui è definita l’attività nei suoi termini generali: dipende cioè dal modo in cui i partecipanti si rappresentano o si vanno costruendo la rappresentazione della situazione in cui si trovano, cioè dal modo in cui è condotta l’azione. Variano dunque le operazioni, cioè le condizioni operative di esecuzione dell’azione, relative a comportamenti verbali o non verbali, che dipendono dal modo di rappresentarsi la situazione. Pontecorvo riporta a proposito due situazioni esemplificative che evidenziano la differenza nell’eseguire operazioni da parte di adulti che realizzano compiti educativi interpretando una stessa situazione in modi diversi.

Il primo esempio, ripreso da Greenfield (1984), mostra differenti operazioni messe in campo in situazioni simili da adulti che insegnano ai bambini a tessere (nella cultura Zinancateca). Si tratta di madri da un lato e istruttrici-insegnanti dall’altro. Il ricercatore ha evidenziato che nel caso delle madri il bambino viene guidato strettamente verso il prodotto e si evita che commetta

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errori; mentre le insegnanti lasciano più libertà al bambino e permettono che possa sbagliare. Tali differenze possono essere interpretate, alla luce della Teoria dell’Attività, come una differenza in operazioni che traducono uno stesso tipo di azione e dipendono da modalità diverse di rappresentarsi la situazione di insegnamento da parte degli adulti: madri o insegnanti. Le prime sembrano più preoccupate della riuscita del prodotto finale, mentre le seconde paiono orientate a dare più autonomia al bambino in modo che progressivamente impari a fare da solo. Il secondo esempio riprende gli studi di Wertsch (Wertsch, Minick, Arns, 1984; Wertsch, Sammarco, 1985), che da un lato evidenziano differenze tra genitori e insegnanti: i primi che guidano più direttamente il bambino verso la risposta corretta e i secondi che usano una guida più indiretta; e dall’altro differenzia tra genitori di bambini con diverse capacità linguistiche: quelli i cui figli hanno maggiori problemi solitamente li guidano più direttamente nella risoluzione del problema. Tali ricerche, che prendono in considerazioni diadi alle prese con un’attività congiunta, mostrano che se anche il compito o l’azione da svolgere è la stessa, l’attività di cui tale azione è parte e che di fatto è realizzata attraverso specifiche sequenze di operazioni, non è esattamente la stessa, perché interpretata in modi diversi.

Pontecorvo (1991) indica che “differenze analoghe - a volte molto notevoli - si possono ritrovare

nel modo in cui una stessa azione (didattica) è condotta da diversi insegnanti, in corrispondenza dei modi in cui si rappresenta l’apprendimento. È pertanto evidente che la stessa azione (dal punto di vista del contenuto didattico) può essere condotta attraverso operazioni discorsive che possono essere molto diverse” (p.37). L’ipotesi avanzata dalla ricercatrice è che l’interiorizzazione

di funzioni psichiche superiori si realizzi al livello della traduzione dell’azione solo in particolari condizioni operative attraverso modalità specifiche di realizzare lo scopo che caratterizza l’azione. Nella maggior parte dei casi, lo scopo dell’azione non è assunto automaticamente dal “discente”, dal bambino, ma richiede di essere interpretato e negoziato nell’azione discorsiva. Il contesto delle azioni discorsive che caratterizzano la vita scolastica appare dunque in questa prospettiva caratterizzato dai modi di interpretare le diverse attività da parte degli adulti, che organizzano la quotidianità scolastica attraverso attività che vengono realizzate in modi differenti a seconda delle proprie idee di educazione, istruzione, didattica, bisogni dei bambini, ecc. Si tratta di idee che rispecchiano, e contribuiscono a costruire e riprodurre, in parte la più ampia cultura di appartenenza, in parte la cultura del servizio, ma che possono trovare larghe differenze individuali.

Molinari (2002, p.60) mette in evidenza come la Teoria dell’Attività consenta di comprendere come l’importanza della cultura nello sviluppo umano sia comprensibile solo nelle azioni

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concrete dei membri di una comunità. Soffermandosi sull’attività umana organizzata, sui suoi obiettivi e sui mezzi per raggiungerli, la Teoria dell’Attività si basa infatti su tre premesse.

In primo luogo sottolinea la natura pratica dell’azione umana, cioè come orientata a uno scopo. I bambini crescono e apprendono attraverso attività pratiche definite e organizzate dalla comunità culturale cui appartengono. La struttura di queste attività è dunque strettamente connessa alle pratiche culturali da cui derivano. Ciò vuol dire che lo sviluppo sociale e cognitivo avviene entro questa organizzazione “culturale”, partecipando a pratiche che hanno significati definiti culturalmente e che sono tanto più efficaci quanto maggiore è l’interesse del bambino a raggiungere lo scopo che si propone.

In secondo luogo considera la crescita psicologica come prodotto della storia sociale e culturale a cui il soggetto partecipa. Non si tratta di comprendere solo come la storia culturale promuove il funzionamento psicologico individuale, ma di fondere il contributo della storia personale di ogni individuo con la storia culturale cui partecipa.

Infine, definisce lo sviluppo come processo mediato socialmente poiché le persone non hanno accesso al mondo in modo diretto. Gli strumenti materiali e simbolici e le pratiche sociali sono mediatori e conduttori del comportamento umano, e rendono così possibile il collegamento fra il bambino che cresce e il mondo. Ciò avviene sotto la guida di membri culturali esperti che introducono il novizio nella comunità cui appartiene attraverso attività di apprendistato e partecipazione guidata.38

In questa prospettiva le scuole dell’infanzia, quali comunità educative, possono essere considerate comunità di pratiche sociali e culturali, collettivamente costruite e condivise in quanto rispondono alle condizioni indicate dalla Teoria dell’Attività. In primo luogo sono formate da individui e gruppi che condividono una storia di interazioni e sono dunque socialmente legati. In secondo luogo producono concretamente e ripetutamente pratiche concrete nei contesti della vita quotidiana. Ed infine, scambiano in maniera intersoggettiva parole e discorsi che forniscono ai membri stessi della comunità gli elementi culturali utili a interpretare tali pratiche (cfr. Molinari, 2010, p.17).

Questo vuol dire che partecipando alla quotidianità delle pratiche che costruiscono la vita della classe i bambini hanno accesso a diverse concezioni culturali e morali del mondo, della vita, delle identità e delle relazioni umane, che mediano l’incontro con il mondo e danno senso e significato ai processi di crescita individuali (Molinari, 2010, p.17).

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Come abbiamo precedentemente illustrato la prospettiva socio-culturale assume che lo sviluppo umano implica la partecipazione dei soggetti a comunità culturali fondate sulle pratiche costruite negli anni dalle generazioni precedenti e dunque è partecipando alle attività proprie della comunità in cui cresce che il bambino acquisisce competenze, sviluppa abilità, apprende, in modi culturalmente determinati (Rogoff, 2003).

Concezioni culturali diverse, legate alla più ampia cultura di appartenenza, alla propria esperienza culturale e alla cultura educativa generale e personale, fanno sì che all’interno dei servizi per l’infanzia si producano e riproducano diversi significati culturali, radicati nelle pratiche quotidiane cui partecipano insegnanti e bambini. Questi significati si riproducono nei modi di organizzare la vita della classe e vengono veicolati in modo significativo dal linguaggio che accompagna e costruisce le pratiche quotidiane, a loro volta influenzate dalla modalità di interpretare il valore attribuito al linguaggio dal punto di vista culturale ed educativo.

Il discorso che si realizza in classe riflette e riproduce i significati culturali della comunità di cui fa parte ed è organizzato in modalità che riflettono tali significati e che vengono indirettamente, sebbene attivamente, acquisite dai bambini.

Le teorie implicite che informano i comportamenti delle insegnanti possono essere inferite dai modi di realizzare l’interazione in classe, poiché come esplicitato da Fasulo e Girardet esse “non

sono un corpus organizzato posseduto dai singoli insegnanti: sono rilevabili solo all’interno delle pratiche discorsive tipiche del contesto scolastico e anzi, più esattamente, coincidono con esse. In qualche modo esse coincidono col discorso e con l’idea stessa di ‘scuola’” (Fasulo, Girardet, 2002,

p.59). Le rappresentazioni mentali, o teorie implicite sul linguaggio, sull’apprendimento e l’insegnamento informano le pratiche discorsive realizzate nei contesti. Tradizionalmente le pratiche discorsive prese in considerazione dalle ricerche riguardano il “discorso scolastico” inteso come discorso che avviene in aula ed esplicitamente legato all’istruzione, tralasciando altri tipi di discorso che hanno luogo nella classe o nella scuola (Fasulo, Girardet, 2002, Fasulo, Pontecorvo, 1999), tuttavia, forse entro un’ottica socio-culturale quale quella che abbiamo precedentemente delineato, soprattutto per contesti come quelli della scuola dell’infanzia una tale differenza non ha ragione di essere sottolineata. Si può infatti ritenere che ogni interazione discorsiva sia di per sé legata a processi di educazione e socializzazione e che nei contesti prescolari, in cui viene valorizzata la pratica educativa dell’esperienza quotidiana, ogni situazione è potenzialmente considerata “istruttiva” dalle insegnanti.

Prendendo in considerazione l’influenza che le prospettive culturali delle insegnanti hanno sull’organizzazione delle pratiche discorsive a scuola sembra interessante fare riferimento alle

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ricerche coordinate da Joseph J. Tobin, (et al., 1989, 2009) nei contesti prescolari di tre diversi Paesi: Giappone, Cina e Stati Uniti, nelle quali viene messo in luce come esitano pratiche culturali differenti all’interno dei servizi per l’infanzia dei tre paesi, che riflettono e riproducono diverse idee di infanzia, educazione, responsabilità delle famiglie, ruolo della scuola e della collettività, ma anche i modi di intendere il linguaggio, le interazioni verbali e alcune pratiche ad essi associate.

Tobin osserva ad esempio che nel servizio prescolare di americano gli insegnanti spesso intervengono per modificare la pronuncia dei bambini, ampliare la scelta dei vocaboli e far in modo che sia realizzata con più precisione, introdurre nuove forme grammaticali, suggerire la possibilità di introdurre frasi sempre più complesse, chiare, interessanti per chi ascolta, oppure per controllare volume e tono della voce e limitare l’uso di termini volgari e inadeguati.

Nelle scuole dell’infanzia cinesi, invece, c’è generalmente poca conversazione spontanea tra i bambini da controllare e correggere, gli insegnanti sono molto attenti a supervisionare il linguaggio dei bambini, ma sono orientati a limitarne l’uso spontaneo piuttosto che facilitarlo. Al contrario, le scuole dell’infanzia giapponesi sono molto rumorose, i bambini urlano e conversano liberamente tra loro e diversamente dagli insegnanti americani, quelli giapponesi intervengono poco per controllare o correggere le conversazioni libere tra bambini che occupano la maggior parte della giornata.

Nella pratica del Re narratore sia il feed-back critico che la ricerca del virtuosismo nell’espressione orale rappresentano esempi di quelle che Tobin chiama

Il confronto tra tali pratiche (che per la ricerca sono state videoregistrate), e i commenti che su di esse hanno realizzato i diversi insegnanti coinvolti, appartenenti ai diversi contesti culturali, hanno messo in luce l’esistenza di quelle che Tobin chiama “pratiche culturali implicite”39 e che Bruner (1990, 1996) definisce “pedagogia popolare”, che sono alla base di tali comportamenti, legate a diverse concezioni di linguaggio e di apprendimento degli insegnanti stessi, che riflettono spesso preoccupazioni e/o valori della più ampia comunità culturale cui appartengono. Gli insegnanti americani attribuiscano un grande valore alla comunicazione verbale dei sentimenti e le parole sono considerante un elemento critico per lo sviluppo sociale e cognitivo dei bambini. Sia gli insegnanti che i genitori delle scuole dell’infanzia americane coinvolte nelle

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Tobin et al. utilizzano la denominazione “pratioche culturali implicite” pratiche che, pur non essendo state studiate esplicitamente nei corsi di studio o descritte nei libri di tsto, riflettono una logica culturale implicita. È un concetto simile a quello di “pedagogia popolare” di Bruner, quale insieme di pratiche date per scontate, che emergono da credenze culturali profondamente radicate riguardo al modo in cui i bambini imparano e a quello in cui gli insegnanti dovrebbero insegnare (Bruner, 1996, pp.58-59). Raramente, fa notare Tobin, gli insegnanti considerano le proprie convinzioni e pratiche pedagogiche come elementi culturali.

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ricerche credono che il bambino per imparare ad essere un amico, a far parte di un gruppo, a essere membro della società e un cittadino in una democrazia, debba imparare ad esprimersi verbalmente comunicando i propri desideri, i propri bisogni, i propri sentimenti e le proprie opinioni. Così nelle scuole i bambini sono incoraggiati dalle insegnanti ad utilizzare le parole per esprimere i loro sentimenti, sia positivi che negativi, e sono sollecitati a far capire con le parole agli altri ciò che vogliono e desiderano. In diversi momenti della giornata viene data molta importanza all’espressione verbale. Partendo da questa interpretazione del linguaggio, gli insegnanti americani quando vedono i video girati nella scuola dell’infanzia cinese, li criticano proprio perché ai bambini non sono offerte queste opportunità di espressione verbale.