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Ricerche sulle interazioni verbali tra insegnante e bambini in classe

IL LINGUAGGIO MEDIATORE DEI PROCESSI EDUCATIVI E DI SVILUPPO: PROSPETTIVE TEORICHE DI RIFERIMENTO

1.2 Dalla comunicazione lineare al discorso in interazione

1.2.5 Ricerche sulle interazioni verbali tra insegnante e bambini in classe

L’ambito di ricerca relativo all’interazione verbale in classe rappresenta uno dei riferimenti più importanti per questo lavoro e si presenta come molto ampio e variegato. Esiste infatti una lunga tradizione di studi e di ricerche che si è concentrata sull’interazione verbale in classe tra insegnanti e allievi, sviluppatasi in particolare in ambiente anglofono, per poi arrivare anche in Italia, dove ha trovato un terreno fertile per la sua crescita. Sebbene le ricerche in questo ambito non siano ancora in Italia così ricche, negli ultimi anni sembra esserci una maggiore attenzione a riguardo e una moltiplicazione delle ricerche ad esso dedicate.

Si tratta di un campo di ricerca complesso, sviluppato in particolare dopo la metà degli anni ’60, in diversi ambiti disciplinari, a volte tra loro contrastanti per impostazione teorica e approccio metodologico (Fele, Paoletti, 2003, p.8). Fino alla metà degli anni ‘60 si trovano pochissimi studi rispetto a ciò che accade in classe, ma successivamente iniziano a svilupparsi alcuni studi sul linguaggio utilizzato nei contesti, accomunati dal presupposto che “solo lo studio reale e diretto

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del linguaggio in classe possa fornire le osservazioni più utili sui processi di insegnamento e apprendimento”, da cui deriva “almeno implicitamente, che le teorie generali sull’educazione risultino più o meno valide proprio se sono in grado di render conto come insegnanti e allievi comunichino tra loro in classe” (Stubbs, 1976, p.78).

I pionieri di queste ricerche furono Bellak negli Stati Uniti e Barnes nel Regno Unito. I loro studi aprirono un nuovo campo di analisi: il modo in cui insegnanti e studenti comunicano tra loro. “Il

linguaggio non è più visto come attributo portato dall’esterno […] e si iniziano a considerare i processi di interazione che strutturano dal vivo la comprensione e i significati dell’esperienza scolastica” (Giolo, Fele, 2003, p.33). Tali primi studi sono concentrati soprattutto sulla

terminologia e lo stile linguistico utilizzato dagli insegnanti (es. uso di linguaggio specialistico). Da essi inizia ad emergere ad esempio la consapevolezza di una routine utilizzata nelle classi: l’insegnate che fa agli alunni una domanda di cui conosce già la risposta, che conserva nella sua mente, una pseudo-domanda chiusa. Inizia così ad evidenziarsi che la partecipazione degli alunni alla vita della classe è molto ridotta, si sviluppano ricerche che confermano questo dato e inizia a essere messo in questione questo tipo di insegnamento direttivo, proponendo una gestione dell’interazione meno dominata dalla figura dell’insegnante. Viene così sottolineata l’importanza dei lavori di gruppo, in cui i bambini possono discutere tra loro incoraggiando partecipazione, responsabilizzazione, cooperazione, senso di appartenenza.

L’avvio di questi studi è influenzato dal fatto che, come visto precedentemente, nella seconda metà degli anni ’60 le scienze sociali iniziano ad adottare approcci innovativi e interpretativi: microsociologia, sociologia della vita quotidiana, sociolinguistica, lavori di ricerca basati su metodi antropologici ed etnografici; e anche la linguistica inizia a prendere in considerazione contesti più ampi (ivi, p.34).

Si sviluppa così la ricerca sull’interazione in classe che, seguendo Fele e Paoletti (2003) può essere divisa in due filoni: quantitativo e qualitativo, che rispecchiano due direzioni di studio individuabili nelle ricerche: “una prima direzione, anche in ordine storico, che viene denominata

“processo-prodotto”, ha cercato di cogliere la relazione tra insegnamento e apprendimento nel senso di stabilire una relazione tra il tipo di comunicazione dell’insegnante e il rendimento degli allievi”, mentre la seconda direzione è “più interessata alla descrizione e alla definizione di ciò che gli insegnanti e gli allievi dicono effettivamente in classe, in un contesto che è definito dall’interazione tra loro e dalle regole implicite che la governano” (Pontecorvo et al., 1991, p.63).

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La prima tradizione, orientata quantitativamente, si basa sull’applicazione di griglie di analisi al comportamento verbale dell’insegnante e a volte degli allievi, per categorizzarlo e definirlo in alcune caratteristiche ritenute significative in relazione all’efficacia dell’insegnamento.

La seconda tradizione, di stampo qualitativo, è invece basata su approcci sociolinguistici, etnografici e antropologici, che prestano attenzione a una descrizione microanalitica dei comportamenti verbali, anche di pochi eventi comunicativi, al fine di mettere in luce i modi in cui i contesti comunicativi influenzano l’interazione e i processi comunicativi e conoscitivi che in essi si realizzano, avviando riflessioni in merito, in grado di mettere in evidenza i meccanismi e i contenuti del discorso e ciò che tramite di essi viene costruito da insegnanti e allievi.

Tradizione quantitativa

Sebbene la riflessione qui proposta sul linguaggio utilizzato nei contesti sia chiaramente orientata verso la tradizione qualitativa è importante ricordare le origini quantitative degli studi sulle interazioni verbali, in quanto è dalla loro critica che si è sviluppata in Italia la tradizione di ricerche di Lucia Lumbelli (1981, 1987), che nel rispondere alle mancanze di tale tradizione, elabora una riflessione sul comportamento verbale adottabile dalle insegnanti dei contesti educativi.

L’approccio quantitativo, che si sviluppa in origine negli Stati Uniti e trova successiva diffusione anche in Italia, si basa su modelli di osservazione sistematica del comportamento esibito dagli insegnanti in classe, attraverso la sua rilevazione e codifica tramite griglie o elenchi di categorie pre-specificate, elaborazione statistica e discussioni aggregate dei dati. L’idea è che tale tipo di osservazione possa fornire un quadro “oggettivo”, non impressionistico, dell’abilità degli insegnanti, una “misura” del loro stile comunicativo, che si presuppone abbia un ruolo determinante nella realizzazione degli obiettivi didattici ed educativi. Si tratta di ricerche nate con lo scopo primario di individuare ed elaborare strumenti il più possibile obiettivi ed attendibili per accertare l’abilità professionale degli insegnanti e, secondariamente, costruire strumenti per migliorare tale abilità, adattando a questo fine quelli elaborati per la sua valutazione. Tutte queste ricerche, come fa notare Lumbelli (1982), condividono un presupposto fondamentale, cioè l’idea che la traduzione in termini comunicativi abbia un rilievo determinante nell’assicurare la realizzazione dei progetti educativi. Si tratta di tentativi, da parte della ricerca psicologica, di descrivere e spiegare fatti comunicativi del rapporto educativo, per indagare “le condizioni alle

quali questi fatti comunicativi risultano adeguati ai progetti e alle intenzioni di chi si propone di dare un significato educativo alla propria interazione verbale con persone che vengono

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considerate destinatarie e fruitrici di quei progetti e quelle intenzioni, con persone cioè in cui quei progetti e quelle intenzioni dovrebbero realizzarsi” (Lumbelli, 1982, p.47).

La ricerca del sistema di categorie più adeguato per osservare il comportamento degli insegnanti ha portato all’elaborazione, in particolare negli anni ’70, di molte proposte di griglie, spesso adattate da modelli precedenti, che utilizzano concetti in parte dedotti da differenti teorizzazioni psicologiche e in parte indotti dall’esperienza quotidiana in classe. Si ricorda ad esempio il modello Ned Flanders (1970), che è stato oggetto di diverse critiche, ma anche di una quantità elevata di rielaborazioni e integrazioni, come ad esempio il Sistema di Categorie di Interazione Verbale (S.C.I.V.) di E. Amidon e E. Hunter (1966) o quello messo a punto qualche anno dopo da da G. De Landsheere (1974),19 basato sul principio che ogni comportamento verbale dell’insegnante può essere definito in termini di funzioni. Ai modelli sono state poste diverse critiche, in particolare Lumbelli (1982), cui si rimanda per un approfondimento, sottolinea il fatto che il processo di deduzione delle diverse categorie non è trasparente, a partire dai principi stessi su cui si basa, apparendo piuttosto casuale, determinato dal buon senso influenzato dall’esperienza e dalla sensibilità educativa e culturale del ricercatore. Manca un sistema di ipotesi collegato a giustificazioni teoriche, che non vengono integrate con le conoscenze derivanti dal contatto con la concreta realtà educativa. Il sistema di categorie proposto da De Landsheere si distingue parzialmente perché introduce una svolta concettuale significativa: “non

siamo più di fronte a un’analisi dettagliata dei singoli atti, ma al tentativo di collocarli nel contesto dell’attività, considerandoli funzionali al raggiungimento degli obiettivi inseriti nella programmazione” (Selleri, 2004, p.49). L’uso del termine funzione che egli fa al posto di

categoria sembra rimandare a una concezione del linguaggio come atto linguistico. Come sottolinea Lumbelli, tale termine non sembra comportare una novità sul piano teorico e metodologico, poiché la definizione che ne fornisce l’autore stesso (“atto verbale di insegnamento prodotto da chi insegna”) recupera la specificità di significato che il termine di funzione e di atto ricevono nell’ambito della teoria linguistica (Lumbelli, 1982, p.78).

Nonostante le diverse critiche, sollevate ai modelli di osservazione che utilizzano categorie pre-specificate, diversi modelli simili sono stati sviluppati e hanno avuto successo. Si tratta infatti di modelli facili da utilizzare, semplici da presentare, utili nei processi di formazione, monitoraggio, valutazione dell’insegnamento, anche se si tratta di strumenti rigidi, basati su presupposti educativi datati e su un frainteso “oggettivismo” del ricercatore (Fele, Paoletti, 2003, p.37). I sistemi di categorie, seppure con i limiti in parte esplicitati, rappresentano infatti una prima

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possibilità di descrizione dei comportamenti verbali che le insegnanti realizzano nei concreti contesti educativi e possono iniziare a rappresentare un orizzonte significativo nel fornire alcune linee guida per porre attenzione ai comportamenti e riflettere sul loro significato. Porre ad esempio una differenza tra influenza diretta o indiretta come fa Flanders, vuol dire evidenziare l’importanza tra le forme di comunicazione in cui l’influenza di una persona sull’altra è evidente o “frontale” e quelle in cui non è così evidente ed esplicita (Lumbelli, 1982, p.64), significa iniziare a interrogarsi sull’effetto che il comportamento verbale ha sugli allievi, nell’interazione e nel contesto e sui modi in cui tale influenza agisce, anche “inconsapevolmente”. La differenza proposta da Amidon e Hunter tra domande circoscritte e domande aperte inizia ad evidenziare e discriminare nel comportamento delle insegnanti delle differenze significative sulle quali è importante riflettere. L’attenzione alle funzioni degli interventi, seppure non ancora intesa in modo pragmatico, permette di riflettere sulla finalità cui sono orientati i comportamenti verbali e di dar loro un nome. Inoltre in questi studi si fa del comportamento verbale dell’insegnante una variabile indipendente di fondamentale importanza per la qualità e l’efficacia dei processi di apprendimento, in quanto componente essenziale delle strategie con cui vengono perseguiti obiettivi didattici e finalità educative (Lumbelli, 1982).

Le categorie di analisi proposte da questi e da altri ricercatori, riviste, ampliate e specificate sono state adottate in diverse ricerche e proposte come strumenti per l’auto-osservazione e la formazione delle insegnanti in servizio. In riferimento alla scuola dell’infanzia, ad esempio, Zuccherini, propone, accanto all’attenzione ad altri aspetti dell’interazione, la possibilità di prendere in considerazione anche queste griglie per la discussione in gruppo, tra insegnanti, di situazioni di interazione verbale registrate in sezione. Tuttavia lui stesso evidenzia che “lo stesso

uso delle scale pone problemi pratici non indifferenti, poiché in concreto risulta difficile attribuire un intervento a una o all’altra delle categorie, specie in un gruppo di non specialisti […] è comunque difficile, in ultima analisi, che un gruppo di educatori possa utilizzare proficuamente tali scale per procedere ad un lavoro di autoanalisi e di adeguamento del comportamento e delle reazioni alle intenzioni educative” (Zuccherini, 1991, p.78). Esse possono forse rappresentare

degli strumenti in parte utili per avviare una riflessione sul proprio comportamento verbale, in particolare rispetto alla possibilità di fornire una terminologia per nominare quanto viene osservato e per rendersi conto di alcuni comportamenti “prevalenti”, magari non corrispondenti alle proprie intenzioni, ma calare dall’esterno un sistema descrittivo ed interpretativo senza che questo venga discusso e fatto proprio da coloro che lo utilizzano, non solo rispetto ai descrittori delle categorie, ma anche alle loro presupposizioni teoriche e alle specifiche finalità e

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orientamenti educativo-didattici delle insegnanti stesse, non risponde pienamente alle potenzialità di un processo formativo sull’interazione verbale, che possa aiutare e sostenere le insegnanti a interrogarsi e a mettersi in gioco in prima persona nella discussione del proprio comportamento. Avere una griglia riassuntiva dei propri interventi verbali e di quelli dei bambini, scoprendo ad esempio che si utilizza un comportamento più o meno direttivo, più o meno attivo o reattivo, se da un lato permette di avviare sicuramente un processo di riflessione dall’altro rischia di chiudere la descrizione in un’interpretazione in qualche modo valutativa, che non aiuta ad interrogarsi su ciò che quel comportamento verbale “fa” in quella specifica situazione e ciò che contribuisce a co-costruire.

Come si vedrà anche in seguito, non si tratta di etichettare un comportamento e vedere quante volte si ripresenta nella situazione, ma scendere nel dettaglio della descrizione e dell’interpretazione per decostruire micro-analiticamente ciò che accade tra i soggetti, ricostruendo lo sviluppo dell’interazione, con i meccanismi complessi che la compongono. Lo stesso Zuccherini, del resto, chiarisce che “nessuna griglia esaurisce l’analisi, ma va usata come

riferimento per la discussione, che deve invece trovare autonomamente il proprio metodo e non escludersi altre possibilità di analisi. In particolare, una analisi quantitativa (numero degli interventi, durata, ecc.) non è mai sufficiente ad affrontare i problemi sorti nell’interazione esaminata” (Zuccherini, 1991, p.93).

Tradizione qualitativa

Successivamente agli studi “classici” processo-prodotto le ricerche sull’interazione verbale in classe hanno conosciuto un progressivo cambiamento grazie alle sollecitazioni e ai contributi provenienti dalla sociolinguistica, dall’antropologia, dall’approccio etnometodologico, sostenuto dagli strumenti dell’analisi della conversazione. Le ricerche iniziano ad occuparsi delle dimensioni sociali e pragmatiche del linguaggio a scuola, considerando la classe e il discorso che in essa si tiene come una situazione particolarmente utile per lo studio dell’effetto dei fattori socioculturali sulle pratiche e i risultati dell’istruzione (Pontecorvo, 1999, p.71).

Viene data particolare attenzione a tutte le dimensioni del discorso dei partecipanti e si iniziano a chiarire i modi in cui le classi scolastiche operano come importanti istituzioni sociali, dove la costruzione di conoscenza è prodotta collettivamente in relazione alla distribuzione del potere e alle diverse strategie comunicative adattate da insegnanti e studenti.

La classe inizia ad essere considerata come luogo specifico in cui studiare la strutturazione del contesto sociale (Fele, Paoletti, 2003, p.29). Il più importante e rappresentativo lavoro di questo

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tipo di approccio, dedicato all’analisi dell’interazione verbale in classe, può essere considerato quello di Sinclair e Coulthard (1975), rielaborato dallo stesso Sinclair (1982) negli anni successivi, che si avvale del paradigma di ricerca dell’analisi della conversazione nato in sociologia e poi applicato ai contesti istituzionali. Il tentativo realizzato da questi studiosi è quello di superare il tradizionale approccio strettamente linguistico per prendere in considerazione il discorso, andando al di là dell’analisi di singole frasi, fino ad allora considerate le unità d’analisi più ampie, per disegnare una struttura discorsiva più allargata. Il confronto tra il modo di funzionare della conversazione ordinaria, in contesti informali (Sacks et al. 1974) e nel contesto scolastico mette in luce il tipo di ambiente sociale che è la classe scolastica, che il discorso stesso contribuisce largamente a formare.

Analizzando il discorso in classe Sinclair e Coulthard (1975) propongono innanzitutto cinque livelli di articolazione di tale discorso, che vanno dal generale al particolare: lezione, transazione, scambio, mossa, atto. Le lezioni sono considerate macro-unità discorsive composte da sotto-unità chiamate transazioni. Queste sotto-sotto-unità sono identificate in blocchi tematici e di attività, marcati da un’espressione che serve ad introdurre un argomento (bene, dunque, allora, …), seguita da un’espressione meta-comunicativa che riguarda la formulazione dell’argomento che si sta per affrontare (es. oggi parleremo di…). Ogni transazione è composta da scambi, cioè da episodi interattivi fatti di mosse, rivolti ad affermare qualcosa (scambi informativi), ordinare di fare qualcosa (scambi direttivi), sollecitare un comportamento verbale, come fare una domanda (scambi sollecitativi). Le mosse che formano gli scambi sono identificate nelle forme di presa della parola, rappresentate da atti, a loro volta suddivisi, in base alla loro funzione nell’interazione (diversi dalla nozione di atto linguistico di derivazione filosofica, come nelle analisi di Searle e Austin), in meta-interattivi (“marker” che realizzano mosse che segnalano un contesto, meta-affermazioni che realizzano mosse che focalizzano il discorso su certi argomenti esplicitamente affermati, “loop” che riportano indietro il discorso a prima della risposta), interattivi (informativi, direttivi, escussivi, iniziativi, accettativi, riconoscitivi, reattivi, replicativi, commentativi, valutativi), orientati alla presa del turno (suggerimento, candidatura, chiamata), “aside” (rivolto a classificare gli atti in cui l’insegnante non è rivolto nello specifico all’interazione).

Il contributo più significativo e maggiormente riconosciuto di questi studiosi è stato quello di aver individuato, approfondendo la struttura degli scambi sollecitativi, la tipica struttura “a tripletta” (Sinclair e Coulthard, 1975) dell’interazione in classe,20 che rappresenta il nodo

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centrale della differenza con le interazioni verbali “ordinarie”, in cui l’insegnante fa una domanda, lo studente risponde, l’insegnante fornisce una valutazione della risposta (IRF, inizio-risposta-follow up). Tale configurazione sarebbe presente a tal punto da rendere rilevante la mancanza del terzo elemento, laddove sia assente, implicando in tal caso il giudizio negativo dell’insegnante rispetto alla risposta data dall’alunno. La sequenza triadica modifica il sistema della presa di turno tipico della conversazione ordinaria, basato sul fatto che ogni partecipante può intervenire, in una gestione degli scambi di tipo locale, in cui il senso del discorso si stabilisce turno dopo turno, introducendo un modello in cui la presa di parola non è affidata alla libera iniziativa, ma torna regolarmente all’insegnante, che può ridare la parola allo stesso alunno, a un altro, o mantenere il turno. In questo modo anche il contenuto e il senso dell’interazione non è negoziabile, se non in minima parte ed è fortemente controllato dall’insegnante che può accettare, correggere o ignorare il contributo di ciascuno, mentre gli alunni devono cercare di seguire lo sviluppo impresso dall’insegnante all’argomento trattato. Questo risultato sarà poi confermato da ricerche successive, in particolare da quelle di Mehan (1979) che identifica lo stesso pattern interattivo, chiamandolo però IRE, identificando nel terzo turno un comportamento di Valutazione (evaluation) da parte dell’insegnante. In Italia Berruto et al. (1983) hanno ripreso lo stesso modello per analizzare alcune lezioni nella scuola superiore, ma non hanno ritrovato la sequenza a tre con la stessa frequenza di apparizione che nelle ricerche inglesi e poi americane.

Come fanno notare anche Fele e Paoletti (2003, p.32) l’approccio discorsivo all’interazione in classe ha focalizzato la sua attenzione sulle forme delle relazioni discorsive, senza indagare il modo in cui questo modello poteva essere utilizzato concretamente dagli insegnanti nel loro lavoro quotidiano, né le conseguenze sociali di tale uso. Tuttavia ha avuto il merito di evidenziare il modo in cui si struttura regolarmente la lezione in classe, con il peso discorsivo più forte da parte dell’insegnante. Ha evidenziato la funzione educativa dello specifico discorso che si svolge in classe e ha permesso di spostare lo sguardo dalle caratteristiche del linguaggio a un discorso creato collaborativamente dai parlanti (Coulthard, 1985, p.144).

Il lavoro di Sinclair e Coulthard inizia ad entrare nel merito delle funzioni svolte dal linguaggio nell’interazione in classe elaborando un metodo puntuale di analisi ancora oggi utile. Tuttavia permane una prevalenza di analisi quantitativa, volta a rilevare la frequenza di precise sequenza discorsive che non riesce a cogliere la complessità dell’interazione verbale tra insegnante e bambini come veneto socialmente e culturalmente connotato.

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Una svolta importante è rappresentata poco dopo, a partire soprattutto dalla seconda metà degli anni ’70, dall’influenza dell’approccio etnolinguistico sulle ricerche interessate all’uso del linguaggio nella scuola, che attribuisce un’importanza centrale al contesto d’uso del linguaggio. Hymes (1964) sottolinea la necessità di studiare le convenzioni comunicative, le relazioni sociali, i valori e le motivazioni che in diverse comunità linguistiche sono implicate nell’uso del linguaggio. Una richiesta, una risposta, un silenzio, possono avere una molteplicità di significati ed intenzioni, compresenti nello stesso enunciato. Le diverse “significazioni” che si esprimono in un atto comunicativo possono essere comprese solo all’interno della cultura condivisa da una determinata comunità linguistica. Per Hymes, “comunità linguistica” è un singolo gruppo sociale accomunato non dalla conoscenza di una lingua (o di un dialetto) ma piuttosto da un modo di utilizzare il linguaggio: regole per iniziare il discorso con chi si conosce poco, modi per fare