attraverso il linguaggio
1.7 Partecipazione guidata: condividere routine ed esperienze linguistiche situate
Come brevemente illustrato nei paragrafi precedenti la prospettiva socio-costruttivista e culturale mette in evidenza come il processo di apprendimento e sviluppo del bambino sia realizzato grazie all’interazione con altri membri della comunità in cui il bambino cresce, primi tra tutti i genitori e gli adulti che si occupano di lui, che svolgono nei suoi confronti, anche se non sempre in modo consapevole e intenzionalmente mirato, un ruolo tutoriale che gli permette di partecipare ad attività condivise che non saprebbe svolgere autonomamente e in questo modo di interiorizzare ed appropriarsi delle abilità agite sul piano sociale. In questo processo il linguaggio, come illustrato, svolge un ruolo fondamentale, sebbene non esclusivo, in quanto strumento simbolico che media l’incontro del bambino con il mondo, guidando le sue azioni e le sue interpretazioni.
In ambito socio-costruttivista e culturale alcuni studiosi hanno evidenziato il ruolo centrale svolto dagli adulti e dai membri più competenti coi quali il bambino entra in relazione, mettendo in evidenza i modi in cui questi offrono il loro sostegno e l’aiuto nello sviluppo.
45
Cfr. Bernstein, 1971, Tough, 1973, Michaels, 1981, 1984; Mèndez Barletta, 2008. La declinazione esemplificativa di tali aspetti è descritta nel cap.2, par. 2.3.4, cui si rimanda, in cui viene discussa la questione delle implicazioni del contesto discorsivo nel costruire la possibilità di una comprensione chiara e reciproca (intersoggettiva, cfr. par. 1.8) tra adulto e bambini e ciò che si sta facendo.
102
Il ruolo di supporto è stato inquadrato in particolare in tre costrutti che sembrano essenziali per una riflessione attorno all’uso del linguaggio da parte dell’insegnante: quello di Zona di Sviluppo Prossimale, elaborato da Vygotskij (1934), quello di Scaffolding individuato da Bruner (Wood, Bruner, Ross, (1976) e, più recentemente, quello di Partecipazione Guidata, evidenziato da Rogoff (1990), che integra in qualche modo i precedenti.
Si tratta di costrutti che mettono in evidenza il ruolo tutoriale svolto dall’adulto, l’importanza di partire dal livello di sviluppo e dalle conoscenze dei bambini per “andare oltre”, la rilevanza delle attività condivise in quanto contesti dell’interazione, la partecipazione attiva dei bambini ai processi di interiorizzazione e appropriazione delle abilità e delle conoscenze agite sul piano sociale.
Il primo a concettualizzare il meccanismo tutoriale alla base dell’apprendimento e dello sviluppo è Vygotskij, che elabora il concetto di “Zona di Sviluppo Prossimale”, per indicare l’area intermedia tra ciò che un bambino sa fare autonomamente e ciò che può fare con il supporto di una guida, un’area di transizione in cui il bambino ancora non padroneggia una certa abilità, ma può essere aiutato ad esprimerla al massimo delle sue possibilità grazie al sostegno di un adulto o di un soggetto con maggiori competenze, che svolge una forma di interazione e regolazione in grado di attivare e sostenere le funzioni che non operano ancora da sole, ma hanno bisogno di un supporto esterno. In questo modo la Zona di Sviluppo Prossimale rappresenta anche le capacità di apprendimento del bambino, che si situano appunto tra ciò che il bambino sa fare in modo autonomo e quello che è in grado di fare con un aiuto, verso le quali va dunque mirato l’intervento educativo.
Questi due aspetti del costrutto sono contenuti in due definizioni successive offerte dallo psicologo russo nei suoi scritti. Nel testo “Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori” Vygotskij (1931) offre infatti una prima enunciazione del concetto di Zona di Sviluppo Prossimale o Potenziale definendola come “la distanza fra il livello attuale di sviluppo del bambino, così
come è determinato da problem solving autonomo ed il livello di sviluppo potenziale, così come è determinato attraverso il problem solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci” (ivi, p. 127). Viene qui evidenziata un’area di possibilità, di potenziale
apprendimento per il bambino, che, attraverso il supporto dell’altro (adulto o compagno più esperto), può operare "al di là" del suo livello attuale di sviluppo.
Riflettendo sul rapporto tra apprendimento e sviluppo delle funzioni cognitive superiori, Vygotskij offre poi una seconda versione della definizione di tale costrutto, definendolo come zona che delimita i limiti cognitivi inferiori e superiori entro i quali l’insegnamento può avere
103
efficacia. Perché l’apprendimento possa avere luogo è infatti necessario secondo Vygotskij che l’aiuto offerto dall’esperto da un lato si agganci alle competenze già possedute dal bambino e contemporaneamente faccia leva sulle funzioni in corso di maturazione, dunque agisca propriamente all’interno della Zona di Sviluppo Prossimale, permettendo l’apprendimento nell’interazione con l’altro, in vista dello sviluppo. L’adulto fornisce il supporto necessario affinché il bambino divenga capace di produrre abilità che già è in grado di comprendere, benché non ancora in grado di padroneggiare in autonomamente.
Sottolinea Vygotskij, che: “è buono quell’apprendimento che precede lo sviluppo. [che] risveglia e
attiva una serie di funzioni che si trovano in uno stadio di maturazione, quelle che si trovano nella Zona dello sviluppo prossimale” (Vygotskij, 1934, p.252).
In questa prospettiva l’insegnamento è dunque utile solo quando si colloca oltre il livello di sviluppo attuale, conducendo il bambino ad intraprendere attività che lo inducono a superare se stesso (Carugati, Selleri, 2001, p.53). Esso può anche creare una “nuova zona” (Pontecorvo, 1991, ed.2004, p.33) poiché “il livello potenziale può essere espanso dall’intervento
dell’istruzione”.
La Zona di Sviluppo Prossimale è l’espressione più evidente dalla tesi vygotskijana secondo la quale lo sviluppo cognitivo avviene grazie al fatto che il bambino è inserito in un contesto sociale che gli permette di esercitare sul piano intermentale, nell’interazione con altri maggiormente competenti, le abilità di pensiero e ragionamento che poi potrà interiorizzare sul piano intramentale, facendo proprio quanto sperimentato nell’interazione, passando dalla regolazione condivisa dell’attività all’autoregolazione. È la zona in cui si realizza il “legame” tra i partecipanti all’interazione che permette il loro incontro sul piano del funzionamento interpsicologico (Pontecorvo, 1991, ed.2004, p.33).
Essa rappresenta il contesto il cui avviene la trasmissione di conoscenze dalle generazioni precedenti alle nuove ed ha dunque un ruolo essenziale nel far entrare il bambino in contatto con la cultura, attraverso gli “strumenti culturali”, cioè i mezzi tecnologici e psicologici perfezionati nel corso della storia di ogni società per sostenere ad ampliare la nostra comprensione del mondo, dei quali il linguaggio è considerato il più importante. L’adulto regola l’attività del bambino, la supporta e la guida, anche attraverso indicazioni verbali che orientano il comportamento e offrono significati sulla situazione, che poi vengono interiorizzati. L’assistenza del più esperto si operazionalizza grazie alla mediazione dei processi di comunicazione che si esprimono nelle pratiche educative: parole, gesti, richiami dell’attenzione su alcuni aspetti del compito funzionano come un ragionamento esteriorizzato (Pontecorvo, 1991) che aiuta il meno
104
esperto a seguire il ragionamento e le azioni utili per risolvere un compito, facendo propri i diversi passaggi e le strategie utilizzate (Selleri, 2004, p.28).
I processi che hanno luogo tra il bambino e il suo partner nella Zona di Sviluppo Prossimale e che portano il bambino ad interiorizzare parti del compito portate a termine grazie al contributo del partner esperto come abilità proprie, possono essere compresi grazie al concetto di scaffolding, formulato da Wood, Bruner e Ross (1976) e definito come “il processo che consente a un
bambino o a un principiante di risolvere un problema, eseguire un compito o raggiungere un obiettivo che, senza aiuto, sarebbe oltre le sue capacità” (Wood, Bruner, Ross, 1976, p.34).
Letteralmente il termine significa “impalcatura” e definisce un processo contingente, collaborativo e interattivo, attraverso cui un partner più esperto offre il suo aiuto al bambino per la risoluzione del “compito”, adeguando il tipo e la quantità di aiuto al livello di prestazione del bambino stesso. È presente dunque anche qui, come in Vygotskij, un adattamento dell’aiuto da parte dell’adulto alle competenze già possedute dal bambino.
Bruner mette in evidenza che l’“impalcatura” fornita dal partner più competente serve a compensare il dislivello tra le abilità richieste da una certa attività e le capacità del bambino, consentendo a quest’ultimo di realizzare l’attività e di progredire verso livelli più avanzati di partecipazione e di acquisizione di competenze.
Per comprendere ciò che un adulto fa quando esegue un compito insieme ad un bambino con il fine di aiutarlo a diventare capace di risolverlo da solo, gli autori applicano la metafora dello scaffolding in una ricerca che analizza le situazioni interattive tra un adulto-tutor (la madre) e 30 bambini di 3, 4 e 5 anni, presi singolarmente, mentre sono impegnati nella risoluzione di un compito, che inizialmente non riescono a completare da soli: la costruzione di una piramide. I ricercatori individuano così due regole che sembrano essere seguite dalle madri: quando il bambino sembra essere in difficoltà, l’adulto gli offre un aiuto maggiore mentre quando il bambino se la cava bene l’adulto riduce il suo aiuto. Queste due regole di contingenza indicano che il comportamento dell’adulto si modifica costantemente in base alle prestazioni del bambino, portandolo progressivamente alla padronanza finale. Il ruolo dell’adulto in queste attività è infatti “fare in modo che dove c’era uno spettatore ci sia un partecipante” (Bruner, 1983), cioè, come si è visto prendendo in considerazione il costrutto della Zona di Sviluppo Prossimale, che dalla regolazione condivisa si passi all’autoregolazione.
Un esempio di sostegno di questo tipo (riportato da Rogoff, 1990, tr. it. 2006, p.107, rifacendosi agli studi di Eisenberg, 1985 e McName, 1980) riferito in modo specifico a situazioni prettamente discorsive è il modo in cui gli adulti strutturano lo sviluppo delle abilità di narrazione dei bambini
105
ponendo loro domande che possono organizzare le loro storie e i loro racconti. Ad esempio, se il bambino si ferma troppo presto o tralascia informazioni importanti l’adulto può chiedere: “E poi? Cosa è successo dopo?” oppure: “Chi altro c’era?”. Tali domande fungono da schema per la narrazione, poiché forniscono suggerimenti che permettono ai bambini di organizzare la loro abilità narrative.46
Man mano che il bambino si impadronisce del compito, l’adulto diminuisce il grado di regolazione mantenendosi sempre “sul confine in continua espansione della competenza del
bambino” (Bruner, 1986, pp.95-96). Si ha così il progressivo passaggio dal livello interpsicologico
a quello intrapsicologico, con il venir meno della regolazione esterna dell’adulto.
Gli studi sullo scaffolding, realizzati in particolare su coppie adulto (in genere la madre)/singolo bambino, mostrano che esso si articola essenzialmente su una serie di componenti, che presentano una progressione interna: reclutare il bambino al compito, attirando l’interesse del bambino per il compito da lui proposto e definito; mantenere la direzione dell’attività verso il problema da risolvere, sollecitando il mantenimento della strada verso l’obiettivo e tenendo alta la motivazione; semplificare le componenti del compito, riducendo il numero di passaggi per risolverlo e permettendo così di controllare la frustrazione e l’ansia per il raggiungimento dell’obiettivo; sottolineare gli aspetti cruciali del compito, evidenziando eventuali discrepanze tra quello che il bambino produce e la situazione ideale; proporre o mostrare in prima persona le soluzioni possibili (modeling); ridurre i gradi di libertà, alleggerendo il compito in base al livello di apprendimento alla portata del soggetto, controllando la frustrazione (Wood, Bruner, Ross, 1976). In questi modi l’adulto controlla dunque quelle parti del compito che sono al di là delle capacità del bambino e progressivamente il bambino trasforma le indicazioni offerte dall’adulto in linguaggio interno, attraverso il quale dirige le sue stesse azioni (Wertsch, 1984, cit. in Pontecorvo, 1991, p.57).
Naturalmente le attività di scaffolding possono essere riferite a “compiti” di diverso tipo. Le ricerche che hanno indagato tale costrutto hanno analizzato in modo particolare situazioni diadiche, adulto/bambino in cui il bambino doveva affrontare un problem-solving, una situazione concreta da risolvere, ad esempio costruire una torre, fare un puzzle, ma anche situazioni strettamente discorsive, non mediate da attività intese in senso pratico, come narrazioni, conversazioni, discussioni, dialoghi (come l’esempio sulla narrazione riportato
46
Come indicato da Rogoff, (1990, tr. it. 2006, p.108), a partire dalla prospettiva di Bruner, McNamee (1980, p.6), suggerisce che “se esistono degli schemi di storia nei bambini più piccoli, essi aleggiano nella conversazione tra adulti e bambini”.
106
precedentemente), in cui l’adulto fornisce il sostegno per realizzare in un modo ritenuto efficace gli scambi verbali, in riferimento sia alle competenze comunicative che ai contenuti.
Dal punto di vista discorsivo il linguaggio rappresenta uno strumento molto utilizzato dall’adulto per offrire il suo aiuto e il suo supporto al bambino, orientandolo nelle diverse attività, sia in relazione a situazioni prettamente linguistiche, che rispetto ad attività pratiche, non necessariamente orientate in modo esplicito all’apprendimento.
Sia lo scaffolding, che il lavoro nella Zona di Sviluppo Prossimale, hanno una funzione “di tipo
tutorio e consentono di definire l’apprendimento e lo sviluppo della conoscenza come processi situati, in quanto non esistono indipendentemente dal modo in cui i partecipanti li trasformano in forme tangibili di azioni discorsive” (Molinari, 2002, p.39). Rappresentano situazioni di
interazione sociale in cui è possibile osservare la compenetrazione tra il funzionamento intramentale, cioè quello che Vygotskij definirebbe come livello attuale di sviluppo, e quello intermentale, in cui più persone con diverso livello di competenza operano nella zona di sviluppo prossimale della persona meno capace. Mettono così in luce i processi con i quali i bambini acquisiscono abilità e conoscenze che, in quanto apprese nel contesto sociale mediato dal linguaggio, sono culturalmente caratterizzate e strettamente connesse a ciò e a come l’adulto (o i soggetti più competenti con i quali interagisce) agisce nell’interazione.
Il modello dello scaffolding, applicato soprattutto a situazioni interattive diadiche di soluzione di compiti (come ad es. puzzle), è stato utilizzato per comprendere come gli adulti possono facilitare il bambino nel compimento di un’attività generale suddividendola in una serie di passaggi più semplici (es. guardare il modello, prendere un pezzo dal mucchio, collocarlo nel posto giusto). Interessante per gli scopi di questo lavoro è una critica al modello da parte di Addison Stone (1993) riportata da Pontecorvo (1999, p.209). Secondo tale autore nella metafora dello scaffolding manca la dimensione semiotica, che Pontecorvo propone di recuperare all’interno dei meccanismi naturali della conversazione a più partecipanti, “perché è nel discorso
e nella discussione in classe che si creano le condizioni comunicative per l’intersoggettività (Rommetveit, 1984) e quindi per la negoziazione e condivisione dei significati” (Pontecorvo, 1999,
p.20). In questi processi interattivi i bambini non hanno un ruolo passivo, ma piuttosto di partecipanti attivi, che diventano mano a mano più abili ed autonomi nel realizzare le diverse attività, acquisendo conoscenze e competenze e progredendo nello sviluppo, rielaborando le conoscenze che apprendono nell’interazione con gli adulti. I modi di queste interazioni e quelli in cui al loro interno si concretizza lo scaffolding non sono univoci, ma variano in relazione alle idee, alle opinioni e alle credenze degli adulti che le realizzano, determinando il tipo di idee,
107
conoscenze, valori acquisiti e riprodotti in modo “interpretativo” (Corsaro, 1997) dai bambini. La partecipazione attiva dei bambini e la variabilità culturale, insieme all’attenzione per i processi comunicativi (verbali e non verbali) e alle attività condivise, non esplicitamente orientate all’apprendimento, sono aspetti messi in luce in modo significativo dal costrutto della Partecipazione Guidata elaborato da Barbara Rogoff (1990) che, riprendendo i concetti di Zona di Sviluppo Prossimale e di Scaffolding, ma facendo riferimento anche alla teoria piagetiana, ne evidenzia il concreto realizzarsi nei processi comunicativi che hanno luogo nell’interazione adulto-bambino in diversi contesti culturali.
Rogoff definisce la Partecipazione Guidata come “il processo che vede i bambini realizzare il
proprio sviluppo attraverso il coinvolgimento nelle pratiche peculiari della comunità di cui fanno parte”. Mostra in tal modo che sia la guida da parte degli adulti che la partecipazione da parte
dei bambini in attività apprezzate culturalmente sono essenziali per l’apprendistato nel pensiero da parte del bambino (Rogoff, 1990, p.7) e che il passaggio attraverso la Zona di Sviluppo Prossimale, descritto da Vygotskij soprattutto in riferimento alle forme esplicite di istruzione, avviene anche nel caso di interazioni maggiormente casuali e informali, come nel gioco reciproco e nella conversazione: “l’assistenza fornita dagli adulti nelle attività dei bambini raramente è
intesa come insegnamento: essa prevede attenzione e coinvolgimento attivi ai fini della conversazione o del raggiungimento di obiettivi pratici immediati, ma questo processo non viene percepito dai partecipanti come una lezione” (ivi, p.109). Ciò assume particolare importanza per
l’analisi delle interazioni discorsive nella scuola dell’infanzia, nella quale solitamente non esistono vere e proprie “lezioni” formali, ma piuttosto una serie di attività pratiche e routine condivise sulle quali si articola un processo di insegnamento-apprendimento legato tradizionalmente alla dimensione esperienziale, in cui forme più esplicite di insegnamento si intrecciano a una quotidianità ritenuta in se stessa educativa e forse per questo esposta al rischio di non sempre organizzata ed “agita” consapevolmente come tale, soprattutto a livello verbale.
Il concetto di Partecipazione Guidata permette di guardare alla scuola dell’infanzia come un contesto culturale in cui i bambini partecipano ad attività e pratiche condivise con i pari e con gli adulti scambiando con questi interazioni discorsive che veicolano forme di pensiero, apprendimento, sviluppo culturalmente orientate, entro le quali si dà dunque quel processo di
socializzazione linguistica precedentemente illustrato. Si tratta di un processo rispetto al quale
Rogoff sottolinea i ruoli complementari di bambini e adulti: un ruolo di guida alle pratiche culturali è assunto dall’adulto, in modo implicito o esplicito, mentre il bambino assume il ruolo di
108
un “apprendista partecipante”, che contribuisce attivamente in modo variabile e progressivamente sempre maggiore al compito su cui si concentra. “I bambini vengono
considerati apprendisti del pensiero, attivi nei loro sforzi per imparare attraverso l’osservazione e la partecipazione con i pari e con membri più esperti del loro gruppo sociale, capaci di sviluppare le abilità necessarie per risolvere problemi culturalmente definiti con gli strumenti disponibili e di lavorare a partire da questi dati per costruire nuove soluzioni all’interno del contesto dell’attività socio-culturale” (ivi, p.6). Utilizzando le risorse sociali come guida, sostegno e sfida i bambini
acquisiscono una conoscenza sempre più ampia e una competenza sempre maggiore nella gestione dei problemi intellettuali della loro comunità e raggiungono ruoli sempre più qualificati nelle attività, acquisendone progressivamente maggiori responsabilità (cfr. ivi, p.7).
Gli adulti, o altri partner, svolgono invece la funzione di stimolare, forzare e aiutare i bambini a creare e risolvere problemi, sia attraverso un’organizzazione materiale di attività e responsabilità, sia attraverso la comunicazione interpersonale, strutturando la partecipazione dei più piccoli perché possano gestire progressivamente sotto-obiettivi adatti alle loro capacità, ma che contemporaneamente stimolino attività gradualmente più complesse, sviluppando così conoscenze e abilità e realizzando un trasferimento crescente di responsabilità.
Partecipando alle attività condivise i bambini si appropriano delle abilità e dei significati culturali. Non si tratta secondo Rogoff di interiorizzare le azioni sugli oggetti come per Piaget o le attività sociali come per Vygotskij, non si tratta cioè di interiorizzare un prodotto esterno al soggetto, ma di partecipare a un’interazione sociale che genera essa stessa cambiamenti nell’individuo (ivi p.231): “la partecipazione dei bambini ai processi comunicativi è la base su cui si fonda la loro
capacità di comprensione. Quando i bambini partecipano alle attività in corso, si adeguano al senso sociale dei loro partner e acquisiscono le abilità e le prospettive della loro società. Se sono seguiti nel processo di problem solving, vengono coinvolti nella visione e nella comprensione dei partner abili, nel tentativo di ampliare i concetti di cui dispongono alla ricerca di un terreno comune; quando collaborano e fanno ipotesi con altre persone, considerano nuove alternative e cambiano idea allo scopo di comunicare o di convincere. In queste attività i bambini arricchiscono i propri pensieri nel processo di partecipazione.”
Come evidenziato da Leont’ev: “il processo di interiorizzazione non è il trasferimento di
un’attività esterna verso un ‘piano di coscienza’ interno, preesistente: è il processo grazie a cui questo piano interno si forma” (Leont’ev, 1981, p.57, cit. in Rgoff, 1990, p.232).
Rispetto a queste situazioni di “partecipazione guidata”, in cui il bambino appunto partecipa attivamente come apprendista al compito, grazie alla guida dell’adulto, la ricercatrice riconosce
109
un ruolo centrale alla comunicazione, intesa sia in senso verbale che non verbale, riconoscendo