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Co-costruire discorso e pensiero: intersoggettività e alterità

attraverso il linguaggio

1.8 Co-costruire discorso e pensiero: intersoggettività e alterità

Il processo sociale e conversazionale che, come abbiamo illustrato in precedenza, sottende e dà forma all’acquisizione e all’organizzazione di conoscenze, dunque all’apprendimento e allo sviluppo, implica un processo di costruzione dei significati condivisi, per il quale è necessario l’instaurarsi di intersoggettività e alterità (Molinari, 2002, Rogoff, 1998), che rappresentano forme diverse tramite le quali ‘passa’ il sostegno sociale alla costruzione delle conoscenze offerto al bambino dagli altri, sia pari che adulti (Pontecorvo, 1986, Zucchermaglio, 1991, ed. 2004).

Per avviare, sostenere e far procedere un episodio di interazione verbale i partecipanti alla conversazione devono poter condividere e comprendere reciprocamente il senso di ciò che avviene, stabilendo e mantenendo un accordo circa la situazione in cui si trovano, l’argomento di cui stanno parlando e le finalità del discorso, cioè circa l’oggetto del parlare e ciò che stanno facendo nel parlare. L’intersoggettività è dunque la condizione che consente agli interlocutori di partecipare intenzionalmente e congiuntamente alla stessa situazione comunicativa (Rommetveit, 1985) costruendone anche il significato condiviso (Zani, Selleri, 1994, p.38). In questa prospettiva essa può essere vista come lo strumento alla base dei processi di scaffolding, grazie ai quali è possibile offrire al bambino o ai bambini l’aiuto necessario a costruire conoscenze e apprendimenti, essa è “l’opera collettiva di costruzione della condivisione e delle

aspettative necessarie all’azione pubblica e alla realizzazione di uno spazio del pensiero che, da collettivo, diventa poi progressivamente privato” (Molinari, 2010, p.36).

La nozione di intersoggettività, descritta originariamente da Trevarthen (1974), è stata ulteriormente sviluppata da Rommetveit (1985), Hundeide (1988), Wells (1993) e Wertsch (1998), ed è da quest’ultimo definita come quella particolare situazione sociale che consente a due o più individui, ognuno dei quali parte dalla propria definizione di una stessa situazione, di arrivare a costruirne una definizione comune (cit. in Molinari, 2002, p.55), elaborando una condivisione dei presupposti impliciti sulla situazione e sull’oggetto del discorso. Presupposto di tale concezione è che ciascun partecipante nel corso dell’interazione possa trascendere il suo mondo privato prestabilito, per riuscire ad ascoltare “le voci della mente” dell’altro, adottando

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nel proprio discorso una funzione dialogica in grado di mediare tra i propri presupposti e quelli che ritiene siano i presupposti del suo interlocutore (Molinari, 2002, p.55). Essa è in qualche modo implicita nelle situazioni sociali, “deve in un certo senso essere data per scontata per poter

essere raggiunta” (Rommetveit, 1985, p.189) poiché si basa sull’idea, accettata dagli

interlocutori, che esiste un mondo sociale di cui entrambi condividono significati e regole (Zani, Selleri, 1994, p.38).

La sua costruzione discorsiva non è un compito facile, lineare e che può essere raggiunto definitivamente. Si tratta piuttosto di un processo costantemente negoziato nel corso dell’interazione stessa, che può presentare dei malintesi, spesso dovuti a presupposizioni divergenti, che vengono negoziate al fine di raggiungere un accordo che possa garantire il rispetto del “contratto comunicativo” vigente in un dato contesto (Zani, Selleri, 1994, p.38). Interessante per comprendere le molteplici dimensioni che permetto lo stabilirsi dell’intersoggettività è un lavoro di Wells (1993) in cui l’autore evidenzia che la possibilità di raggiungere un accordo sull’oggetto del discorso testimonia e contemporaneamente dipende dal raggiungimento dell’intersoggettività su una serie di dimensioni collegate tra loro, rispetto alle quali a volte l’intersoggettività viene “assunta implicitamente, sulla base di presupposizioni che

ogni partecipante si è costruito nel corso della propria esistenza, come risultato della partecipazione a un numero di gruppi culturali”, mentre atre volte viene “negoziata verbalmente attraverso una considerevole serie di discorsi” (Wells, 1993, p.360).

Analizzando le interazioni verbali tra insegnante e alcuni alunni di una classe sesta,51 il ricercatore fa riferimento in particolare a cinque dimensioni relative all’intersoggettività, che possiamo considerare in gioco in ogni interazione verbale: attenzione condivisa, referenza, senso, obiettivo dello scambio, affettività.

L’attenzione condivisa rappresenta una dimensione fondamentale in qualsiasi interazione linguistica poiché costituisce la convinzione, reciprocamente intesa, che ciascuno stia partecipando allo stesso evento, nelle stesse circostanze degli altri e ne sia consapevole (Wells, 1993, p.360). La capacità di stabilire e mantenere l’attenzione condivisa deve essere acquisita e si fonda sulla comparsa dell’intenzionalità. Si tratta di abilità sociali che vengono acquisite precocemente dai neonati, che sono in grado di esibire una varietà di pattern di attività che ricevono risposta da parte di chi si prende cura di loro, portando adulto e bambino a costruire le prime “protoconversazioni” (Trevarthen, 1974; Stern, 1977). Le prime forme di intersoggettività

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vengono dunque costruite tra adulto e bambino anche quando quest’ultimo non è in grado di parlare, assumendo la forma della condivisione dell’attenzione.

Trevarthen (1974) rende conto dello sviluppo dell’intenzionalità condivisa in termini di sviluppo dell’intersoggettività primaria e secondaria. L’intersoggettività primaria emerge nel comportamento reciproco di bambino e caregiver quando sono impegnati in episodi di attenzione congiunta. L’intersoggettività secondaria, raggiunta solitamente in una forma rudimentale verso la fine del primo anno di vita, include una terza parte, cioè l’oggetto della loro attenzione o azione condivisa. La focalizzazione condivisa dell’attenzione su un oggetto fornisce la cornice entro la quale il bambino piccolo acquisisce il linguaggio, come un sistema culturale semiotico per specificare a cosa si sta prestando attenzione e per fare commenti su di esso (Wells, 1981; cit. in Wells 1993, p.361). L’oggetto di attenzione acquisisce così una funzione sia materiale che simbolica (Wells, 2007, p.247). Sebbene le prime forme di intersoggettività vengano raggiunte piuttosto precocemente, nel corso della vita una completa intersoggettività resta sfuggente, sia nelle conversazioni casuali che in quelle più intenzionali e, per questo, deve essere costantemente negoziata (Wells, 2007, p.247).

Strettamente connessa con la dimensione dell’attenzione condivisa è quella dell’affettività che, sebbene come indica Wells (1993, p.366) abbia ricevuto minore attenzione rispetto alle altre dimensioni, risulta ciononostante fondamentale. Infatti “se i partecipanti si impegnano nel

tentativo reciproco di proiettare se stessi nei ‘mondi privati’ che gli altri stanno rappresentando attraverso ciò che dicono, essi devono essere ben disposti verso le altre persone e devono essere attenti alla loro posizione sull’argomento in discussione – o almeno devono comportarsi come se lo fossero. Quando i sentimenti degli altri dominano, che sia antipatia per gli altri o preoccupazione per lo stato interno di qualcuno, ciò interferisce con l’apertura che è un prerequisito per dare un senso ai loro atti comunicativi. […] Al contrario, quando i partecipanti stabiliscono sentimenti reciproci molto positivi, è più probabile che raggiungano un accordo intersoggettivo sull’argomento in discussione” (Wells, 1993, p.366). Un impedimento

all’intersoggettività affettiva tra i partecipanti rende i soggetti meno abili a partecipare alla comprensione condivisa.

Strettamente legata all’attenzione condivisa è anche la dimensione della referenza. L’oggetto di attenzione condivisa, rispetto al quale avviene l’interazione verbale può essere indicato sia in modo non verbale, che attraverso lo strumento della referenza linguistica. Secondo Wells l’atto linguistico della referenza è fondamentale nella gestione dell’attenzione condivisa. Esso si riferisce alla capacità di etichettare e successivamente di riferirsi agli oggetti secondo le

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convenzioni specifiche della propria cultura. A 3 anni, ricorda Wells (1993, p.362), tutti i bambini padroneggiano l’intersoggettività della referenza utilizzando frasi nominali semplici e, al momento di andare a scuola, la maggior parte di loro usa espressioni e clausole definitorie per ottenere una maggiore specificità della referenza. In una conversazione il referente può essere già stato stabilito e presupposto come un argomento di accordo intersoggettivo, oppure può venir dedotto tramite inferenze rispetto a una presupposta conoscenza condivisa, o ancora, può essere costruito nell’interazione.

Oltre a un accordo sul referente nelle conversazioni è necessario raggiungere un accordo intersoggettivo rispetto al significato dei termini utilizzati, nello specifico contesto del loro uso. L’accordo intersoggettivo rispetto all’attribuzione del senso non è un presupposto scontato, vi possono essere differenze nella comprensione di un termine utilizzato o differenze rispetto ai criteri utilizzati per applicare il termine allo specifico contesto. Wells nell’articolo precedentemente citato, analizzando una conversazione tra insegnante e alunni che ha lo scopo di decidere quali elementi includere in una narrazione, porta come esempio la determinazione del senso del termine “importante” riferita al referente “Arthur” intersoggettivamente riconosciuto come “il cane”. Secondo alcuni alunni “Arthur”, il cane, è importante nella storia letta, secondo altri no. Non vi è un accordo intersoggettivo circa l’importanza di “Arthur”, sebbene non sia possibile stabilire se ciò dipenda da una mancata comprensione da parte degli alunni del termine “importate” in sé, o dai diversi criteri da loro utilizzati per valutare tale importanza. Nel corso dell’interazione diversi alunni portano delle evidenze a supporto dell’importanza di “Arthur” che fanno sì che alla fine non ci siano più voci dissenzienti sul suo valore. L’interazione discorsiva ha permesso di raggiungere un accordo intersoggettivo sulla questione e lo avrebbe fatto anche se alcuni non fossero stati d’accordo dell’importanza del cane, ma ne avessero condiviso l’orizzonte di interpretazione.

Oltre alle dimensioni appena descritte, che riguardano la negoziazione che si trova al livello dei reciproci atti comunicativi, la negoziazione intersoggettiva comprende un secondo livello, che fa riferimento al contesto più ampio in cui questi scambi sono inseriti, alla definizione del compito e all’obiettivo dello scambio.

Perché l’interazione verbale possa avere successo è necessario che il suo obiettivo sia condiviso dai partecipanti, che tutti siano d’accordo sul “cosa stiamo facendo qui”. In particolare, nei contesti scolari e prescolari, è importante che i bambini condividano l’obiettivo e la definizione del compito che ha in mente l’insegnante, perché possano comprendere ciò che sta accadendo e partecipare in modo adeguato alla costruzione del discorso e all’evoluzione dell’interazione e

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dell’attività in corso. Del resto la partecipazione attiva che è posta alla base dei processi di apprendimento può essere esercitata solo se i bambini comprendono e condividono l’orizzonte entro cui le azioni sono inserite, altrimenti il rischio, come si vedrà nel secondo capitolo, è che cerchino da adattarsi alle richieste e/o alle domande dell’insegnante concentrandosi sulla comprensione di ciò che questa si aspetta da loro, piuttosto che sull’attività in sé o il discorso nella sua totalità.

Nella Zona di Sviluppo Prossimale, già ampiamente illustrata, si stabilisce il contatto interpsicologico, ma la possibilità di una comprensione condivisa del compito dipende dalla “definizione della situazione”, cioè dal modo in cui i partecipanti all’interazione si rappresentano il setting del loro incontro. La rappresentazione, che è attivamente costruita da entrambi i partner è diversa per ciascuno di loro: “lo scopo dell’interazione e dell’istruzione è quello di

pervenire a una ‘ri-definizione condivisa della situazione’, attraverso livelli di progressiva maggiore intersoggettività che lasciano spazio alla negoziazione” (Pontecorvo, 1991, p.33).

Come indicato da Wertsch (1984, p.13, cit. in Pontecorvo, 1991, p.56) l’adulto e il bambino possono avere una rappresentazione e una definizione diversa della situazione in cui si trovano, ma la loro interazione, finalizzata all’acquisizione di conoscenza, può portare a una sua ridefinizione, attraverso una progressiva condivisione del compito e la costruzione di una crescete intersoggettività che porta alla sua comprensione sul piano intrapsicologico. Colui che apprende partecipa sempre di più all’interazione, fino alla completa interiorizzazione delle operazioni, delle procedure e delle conoscenze. Se non si realizza tale accordo possono insorgere dei problemi comunicativi che rendono gli interlocutori incapaci di controllare lo sviluppo della conversazione, portando alla sua interruzione o ad una inadeguata comprensione di ciò che sta accadendo (Zani, Selleri, 1994, p.38).

Le ricerche di psicologia dello sviluppo di stampo post-piagetiano mettono in luce chiaramente come la condivisione degli obiettivi comunicativi possa facilitare il bambino nella risoluzione dei compiti e nella partecipazione all’interazione verbale stessa, mettendo in campo competenze e capacità che non vengono evidenziate quando l’obiettivo non è chiaro e/o non è condiviso. Interpretando i contesti discorsivi attraverso i Principi di Cooperazione di Grice (1978) queste ricerche mostrano che per i bambini non è semplice comprendere le violazioni a questi principi e che una chiarezza comunicativa del contesto consente loro di partecipare all’interazione in modo più competente.52

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Ciò rappresenta un questione centrale per l’interazione verbale che avviene tra insegnante e bambino/i nella scuola dell’infanzia, poiché, a rendere maggiormente complessa la costruzione dell’intersoggettività interviene la possibilità che vi sia una differenza di prospettive e di modalità di interpretare la situazione più difficile da colmare, in virtù di esperienze e conoscenze quantitativamente e qualitativamente molto diverse, di competenze comunicative, linguistiche e sociali differenti tra gli interlocutori.

“I significati che vengono “scambiati” nel corso di un dialogo non sono già tutti chiari e definiti fin dall’inizio per ogni partecipante; non solo le singole parole possono avere ‘sensi’ diversi per adulto e bambino, ma anche l’esperienza reale, a cui il discorso fa riferimento, può avere un significato diverso. In particolare, il bambino può avere sottolineato certi elementi (eventi, persone, oggetti coinvolti) che per l’adulto costituiscono invece dettagli. Inoltre, adulto e bambino possono avere contrastanti ‘teorie’ su come va il mondo. Dialogando, l’adulto fa riferimento ad una determinata rappresentazione di situazioni reali […]. Questa rappresentazione fa da sfondo alle informazioni che l’insegnante ritiene ‘coerenti’ e importanti rispetto a quel determinato argomento. È molto probabile però che le ‘rappresentazioni’ utilizzate dal bambino siano profondamente diverse da quelle dell’adulto, benché anch’esse in qualche modo organizzate. Rispetto ad uno stesso tipo di evento i bambini possono avere teorie e ‘rappresentazioni’ molto lontane da quelle dell’adulto. […] perché il dialogo sia un’occasione effettiva di scambio di informazioni è allora importante usare strategie comunicative che permettano di costruire un ‘comune universo di esperienza’: i significati introdotti dal bambino e dall’insegnante vanno ‘negoziati’, contrattati, reciprocamente chiariti” (Orsolini, 1988, pp.85-86).

La possibilità che i partecipanti all’interazione giungano a condividere un comune universo di riferimento dipende dalla possibilità di assumere reciprocamente i rispettivi punti di vista (Zani, Selleri, 1994, p.35), di decentrarsi e prendere in considerazione la prospettiva dell’altro, anche se non necessariamente condividerla.

Il processo di decentramento è preso in considerazione da diversi autori in riferimento alla possibilità di partecipare efficacemente all’interazione verbale comprendendosi reciprocamente. Piaget, ad esempio, evidenzia come centrale il superamento della posizione egocentrica del bambino, che si riflette anche nell’uso del linguaggio, che appare poco chiaro fino a che il bambino non è in grado di “mettersi nei panni dell’altro”.

Tuttavia, le recenti ricerche sullo sviluppo di una teoria della mente evidenziano come tale capacità possa essere posseduta dai bambini anche molto prima di quanto evidenziato da Piaget, a patto che la situazione comunicativa sia chiara e sufficientemente familiare per il bambino.

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Da questo punto di vista la responsabilità della costruzione di una base intersoggettiva è posta nelle mani dell’adulto, dell’insegnante, che può utilizzare le sue maggiori competenze e conoscenze, sia a livello comunicativo che di contenuto, per offrire al bambino il sostegno necessario a comprendere la situazione in tutti i suoi diversi livelli, partendo dalla base di competenze e conoscenze già acquisite dal bambino. Deve fare tutto ciò tenendo in considerazione il piano dell’interazione verbale sia quando questa è l’attività in sé che viene condivisa, sia quando questa accompagna le attività pratiche, che nella scuola dell’infanzia possono essere le attività chiamate “di routine”, come il pasto, le attività considerate libere, come il gioco e quelle che si potrebbero definire “attività didattiche”, cioè esplicitamente pensate come nuclei fondanti del progetto educativo elaborato per i bambini.

Come evidenziato da Selleri (2004, p.24) “tra un adulto e un bambino spetta all’adulto il compito

di chiedersi ‘perché non ho capito?’ e ricostruire eventuali incomprensioni sul piano semantico. I bambini non sbagliano, semplicemente utilizzano le loro conoscenze in un modo che a noi sembra insufficiente e incompleto”. Proseguendo nel ragionamento la studiosa indica come

spesso la difficoltà risieda negli adulti, che possono essere in difficoltà nell’adattare il loro comportamento comunicativo in relazione all’età dei bambini. In una ricerca svolta in alcuni nidi è stato ad esempio evidenziato come le educatrici si rivolgano a bambini di 22 o 32 mesi come se non esistessero diversità, come se avessero di fronte un gruppo di bambini dalle abilità linguistiche e comunicative omogenee (Emiliani, Zani, Carugati, 1981).

Nonostante le difficoltà è l’insegnante che può agire per garantire la costruzione dell’intersoggettività, cioè di una comprensione reciproca, tra lei e i bambini e anche tra questi ultimi, rispetto a ciò che si sta dicendo e si sta facendo. Come indicato da Rogoff, (1990, tr. it. 2006, p.238) la possibilità di costruire un terreno comune d’interazione per raggiungere l’intersoggettività dipende dalla sensibilità e dalla confidenza che si instaura tra i partner che permette un’apertura e una condivisione delle prospettive. Tuttavia, anche se la sensibilità e la confidenza sono importanti “occorre bilanciarle con stimoli sufficienti a permettere e

incoraggiare il cambiamento. Per comunicare sono necessarie sia le analogie sia le differenze a livello di punti di vista e di idee” (Rogoff, 1990, p.238).

A tal fine, come evidenziato e sottolineato da diversi autori (Wertsch, 1998, Rogoff, 1990; Molinari, 2010), insieme ad un’intersoggettività interpretata come condivisione di un orizzonte di senso reciprocamente inteso, un secondo meccanismo è prolifico per la costruzione di un dialogo e un pensiero produttivo: quello del conflitto, inteso non tanto, o non solo, in senso di

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scontro, quanto in senso di un’opposizione produttiva, in cui punti di vista diversi possono dar luogo a modifiche ed evoluzioni del discorso e del pensiero, introducendovi creative novità.

“Sostenuta da lungo tempo nella psicologia dello sviluppo per la sua importanza in quanto dimensione che sostiene la crescita sociale e cognitiva fin dai primi mesi di vita, la nozione di intersoggettività si integra dunque con quella di alterità, e acquista così maggior forza nello spiegare la comprensione e l’interpretazione del cambiamento” (Molinari, 2002, p.213).

Wertsch (1998) per spiegare la natura socioculturale dei processi impiegati nella costruzione della conoscenza fa riferimento a due opposte tendenze, con funzioni diverse, ma integrate:

intersoggettività e alterità. L’intersoggettività, come già indicato, riguarda il grado in cui due o

più interlocutori, in una situazione comunicativa, condividono una prospettiva, sulla base linguistica di una “bozza di contratto” parzialmente negoziata tra gli interlocutori. La sua funzione, centrale per la comunicazione umana, è il tentativo di raggiungere, partendo da interpretazioni diverse di una stessa situazione, che sono l’espressione di punti di vista privati, di una prospettiva comune, che consente di stabilire e condividere un “terreno sicuro” su cui parlare. L’interpretazione “privata” di ciascuno può in questo modo essere messa in comune, può essere discussa, diventando una realtà sociale comunemente stabilita e costantemente modificata dalle azioni dei parlanti.

L’alterità corrisponde invece alla tendenza verso l’eterogeneità e il conflitto fra le diverse voci dei parlanti, la sua funzione non è di stabilire un’unica prospettiva, ma di sviluppare un “meccanismo per pensare”, utilizzando ciò che si dice come meccanismo per riflettere su eventuali nuovi significati e interpretazioni.

L’univocità della prospettiva raggiunta con l’intersoggettività e l’eterogeneità delle voci raccolte con l’alterità sono funzioni ugualmente importanti della comunicazione, in quanto ogni scambio comunicativo riguarda: “sia caratteristiche univoche di trasmissione dell’informazione, quindi

l’intersoggettività, sia tendenze dialogiche, generative del pensiero, e quindi l’alterità” (Wertsch,

1998, p.117, cit. in Molinari, 2002, p.212).

Molinari (2010, pp.35-36) evidenzia che se intendiamo l’intersoggettività come una forma di comunicazione che mira unicamente alla ricerca di una convergenza tra il Sé e l’Altro rischiamo di penalizzare la ricerca dell’innovazione, della creatività e del cambiamento. In realtà, a livello interpersonale, il confronto quotidiano con Altri, che ha alla base una condivisione di intersoggettività, porta all’incontro e allo scontro con punti di vista, percezioni, sentimenti, parole, obiettivi diversi, che rappresentano un’opportunità per creare qualcosa di nuovo, un cambiamento.

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Questa diversità di punti di vista, indica Molinari, può essere intesa come conflitto, battaglia intellettuale o emozionale, o interpretata come possibilità di confronto, in grado di attivare dinamiche dialettiche importanti per l’apprendimento.

Se non vi fossero differenze di idee, punti di vista, prospettive, conoscenze “la comunicazione

non sarebbe né indispensabile né stimolante, né i partner avrebbero interesse a conoscersi meglio o a stabilire un collegamento tra visioni alternative” (Rogoff, 1990, tr.it. 2004, p.238).

Le radici di questo meccanismo conversazionale possono essere riconosciute nel costrutto del conflitto socio-cognitivo, di stampo post-piagetiano, che mette in luce come la differenza tra punti di vista per la risoluzione di un problema, indipendentemente dal fatto che siano giusti o