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Strategie alternative alle domande: contributi paritari, rispecchiamento e confronto tra pari

PARLARE CON I BAMBINI NELLA SCUOLA DELL’INFANZIA: IL RUOLO DELL’INSEGNANTE

2.4 Il livello strategico: le mosse dell’insegnante

2.4.2 Strategie alternative alle domande: contributi paritari, rispecchiamento e confronto tra pari

Come osservato precedentemente la prevalenza di domande nell’interazione con i bambini non sembra rappresentare in generale un aspetto positivo né sul piano strettamente linguistico, né su quello cognitivo, poiché nel dare soprattutto risposte il bambino è portato ad utilizzare frasi brevi, strutture sintattiche semplici e informazioni in qualche modo già contenute nella domanda, facendo esperienza di una limitata varietà di uso del linguaggio, centrata appunto sul fornire risposte. Funzione che tende inoltre a porre il bambino in un ruolo subordinato e passivo, soprattutto nel caso di domande retoriche e/o chiuse.

Si è già ampiamente illustrato che la questione non è semplice e lineare, non si tratta solo di fare un certo tipo di domande piuttosto di altre, ma di tenere in considerazione la complessità del contesto discorsivo e le caratteristiche uniche dei suoi partecipanti. Fare domande ai bambini è un comportamento verbale che non va eliminato, ma usato con consapevolezza e integrato ed alternato ad altre strategie. Infatti, le critiche rivolte all’uso di domande nelle interazioni con i bambini e l’osservazione di interazioni verbali nei contesti hanno portato all’individuazione e alla promozione di strategie alternative, che possono stimolare, facilitare e sostenere la partecipazione dei bambini e i loro processi di ragionamento, promuovendo la conoscenza e stimolando il pensiero divergente e critico.

Si è già accennato, ad esempio, in precedenza all’opportunià di accogliere le domande poste dai bambini stessi, rivolgendole al gruppo, utilizzando queste e le loro osservazioni per guidare i bambini verso una conoscenza sempre più approfondita e complessa. In tale direzione può essere utile anche trasformare gli interventi perentori dei bambini in interrogativi rivolti a tutti97 (Nigris, 2009).

Altre volte, per stimolare i bambini a dire la loro su un argomento è sufficiente porre una questione, un problema, in modo tale che i bambini capiscano su cosa devono focalizzare l’attenzione, basta così una semplice consegna per promuovere la riflessione e gli interventi (ibidem). Si possono utilizzare anche situazioni concrete, oggetti o esperienze fatte, descrivere o presentare un punto di vista con una storia. In questi casi si deve trattare di questioni e problemi comprensibili e accessibili ai bambini, che facciano parte della loro esperienza o che possano essere comunque facilmente compresi, stimolare il loro interesse e la loro curiosità.

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Ad es. D: “secondo me questa discussione non vale niente, perché quello che pensate voi non è vero” risposta del maestro rivolta al gruppo: “A cosa può servire la discussione?” (in Nigris, 2009, p.105).

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Un’altra strategia alternativa, indicata come efficace per aiutare il bambino a chiarire il proprio pensiero è quella del “far finta di non capire”. Una ricerca sull’egocentrismo verbale (Mantovani, 1973) ha mostrato come l’uso del paradosso, il capire sistematicamente a rovescio espressioni incomplete e poco chiare provoca una situazione ludica, maggiormente simmetrica, in cui i bambini sono portati ad esplicitare il loro punto di vista esplicitando informazioni espresse in modo confuso.98 L’efficacia di domande paradossali o molto contrastate è stata inoltre verificata in una ricerca successiva (Mantovani, 1988) condotta per stimolare e verificare la comprensione di libri illustrati in bambini della scuola materna. Nel corso della ricerca sono state adottate strategie di “provocazione” suggerite da Hundeide (1985) che sembrano efficaci per suscitare nel bambino una reazione e un approfondimento. Ad esempio di fronte a un’immagine che ritrae un bambino che guarda una compagna, dopo vari tentativi di richiesta rispetto a ciò che sta facendo il bambino, viene ad esempio chiesto “Cosa fa Max? Guarda Lisa o mangia una mela?”. L’assurdità della proposta suscita ilarità nei bambini, ma li spinge ad esprimersi, evidenziando un livello di comprensione maggiore di quello espresso spontaneamente, permettendo anche di sbloccare una situazione di stallo, sebbene possa avviare episodi di fabulazione (Mantovani, 1983, p.85).

Infine, appare importante richiamare la significatività dei “contributi paritari” dell’insegnante, cioè contributi, come asserzioni, obiezioni giustificate, richieste di spiegazione, che l’insegnante collega non soltanto ai suoi obiettivi didattici, ma anche e soprattutto ai contenuti prodotti dai bambini, proponendosi quale interlocutore “alla pari”, che offre il proprio contributo allo sviluppo di una conversazione co-costruita con i più piccoli (Orsolini, 1988, pp.88-89).Orsolini (ibidem) indica due tipi di comportamenti verbali di questo tipo, che si ritiene possano risultare efficaci. Da un lato contributi brevi con offerte di informazione sull’argomento di conversazione, che apportano un’aggiunta o una specificazione a quanto detto dal precedente parlante e dall’altro obiezioni giustificate o semplici richieste di spiegazione dopo l’individuazione di aspetti problematici di una situazione di cui si sta parlando. Perché tali contributi siano realmente “paritari” devono tener conto ed essere in stretto rapporto con le informazioni introdotte da chi ha parlato prima dell’intervento dell’insegnante, riferendosi ad argomenti sui quali i bambini hanno già avuto la possibilità di costruire delle conoscenze proprie, prestando attenzione a non interrompere la continuità del dialogo, contribuendo piuttosto a rafforzarla. Anche la frequenza

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Nella stessa situazione viene notato come, con soggetti di età prescolare, sembra si possa ottenere materiale verbale più ampio e più ricco in un piccolo gruppo omogeneo, piuttosto che in una situazione a due (aspetto sottolineato anche in una ricerca successiva dove venivano riproposte alcune prove piagetiane, Mantovani, 1993).

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è indicata come significativa, in quanto deve trattarsi di un comportamento non troppo frequente e pervasivo, tale da potersi trasformare in una classica “lezione”.

Il valore educativo e didattico di interventi di questo tipo risiede nel fatto che “può essere di

grande importanza per i bambini avere l’occasione di interagire con un conversatore ‘esperto’ che, mantenendo la preoccupazione di capire e farsi capire, offra dei modelli di comportamento verbale appropriato” (ivi, p.89).

Simili comportamenti verbali sono collegati secondo la ricercatrice a due fondamentali atteggiamenti pedagogici. Il primo è indicato nella “volontà a non rinunciare ad essere

insegnante”, sottolineando le informazioni che si ritengono rilevanti, esponendo i dubbi sulla

‘verità’ delle affermazioni avanzate, proponendo obiezioni giustificate o correzioni esplicite di parti degli enunciati dei bambini. La differenza rispetto a comportamenti verbali dell’insegnante “più tradizionali” sta nell’attenzione ai contenuti espressi dai bambini, ai quali si deve rimanere aderenti. Il secondo atteggiamento è l’interesse autentico verso il pensiero dei bambini e la convinzione che la conoscenza si costruisce a partire da “teorie” già esistenti, attraverso la loro modificazione e riorganizzazione, piuttosto che con una semplice aggiunta di informazioni. Tra le strategie utilizzabili dagli adulti per sostenere i processi di partecipazione, co-costruzione e apprendimento due sono state particolarmente approfondite e verranno illustrate nei paragrafi che seguono: il rispecchiamento e il confronto tra pari.

Il rispecchiamento

Uno dei comportamenti verbali dell’insegnante maggiormente studiato e messo alla prova nei contesti di apprendimento italiani, anche con bambini di età prescolare, è quello del

rispecchiamento, introdotto nell’ambito delle ricerche sulla comunicazione verbale nei contesti

scolari e prescolari dalla psico-pedagogista Lucia Lumbelli a partire dagli anni ’70. Sotto i termini “rispecchiamento” o “intervento a specchio” o “a eco” si possono ricomprendere una serie di strategie verbali di ripetizione che la studiosa mutua dall’approccio non-direttivo messo a punto da Carl Rogers (1951) nei colloqui con i pazienti,oggi ampiamente riconosciute come tecniche non direttive per stimolare i bambini alla partecipazione al dialogo, aiutandoli ad esprimere ed ampliare il loro pensiero, intervenendo nel loro discorso “orientandolo” verso nuclei significativi, pur senza suggestionarli.

Il rispecchiamento è definito come “un comportamento verbale che consiste nel riprendere

qualche aspetto del discorso altrui nella forma della constatazione dubitativa, in una forma cioè che esprime un’ipotesi di comprensione: ‘tu pensi dunque che…’, ‘mi pare di aver capito che tu

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sostieni che…’ (Lumbelli, 1982, pp.171-172). Tali constatazioni dubitative possono essere

realizzate in tre modi: con la ripetizione di una qualche frase in cui viene mantenuto invariato non solo il contenuto concettuale, ma anche la forma linguistica; con una riformulazione attenta e fedele di ciò che ha detto l’interlocutore esplicitando contenuti concettuali impliciti; infine con una ricapitolazione o sintesi di quanto l’interlocutore ha appena detto esprimendone il significato o segnalando implicitamente il problema di dare coerenza a due parti del discorso.99 Perché questi interventi siano classificabili come interventi a specchio è necessario che il riferimento al comportamento che si sta rispecchiando sia preciso e fedele. La riformulazione deve mantenere fermo il contenuto del discorso limitandosi a cambiare espressione verbale. Non deve aggiungere informazioni che non siano ricavabili dal discorso da rispecchiare, sebbene possa essere selettiva, nel senso che può riprendere solo una parte del discorso sulla quale si vuole spostare l’attenzione. Essa si distingue dalla richiesta di chiarificazione che spesso implica la proposta di aggiunte, commenti, precisazioni o correzioni e deve evitare l’interpretazione che fornisce al soggetto un contenuto più complesso di quello che egli stesso ha prodotto. L’uso di tale strategia può essere esteso anche alle forme di comportamento non verbale che accompagnano il discorso come il tono della voce, la mimica, i gesti, o a qualsiasi altro tipo di comportamento. Si tratta di rispecchiamenti o descrizioni verbali di comportamenti non verbali che però hanno possibilità di controllo molto minori poiché le espressioni e i comportamenti non verbali sono meno netti e più ambigui.100 Esiste anche la possibilità di “riflettere i sentimenti” dell’altro, allo scopo di portare alla luce, di far emergere coscientemente, tensioni, disagi, stati d’animo, emozioni, sentimenti e affettività dell’interlocutore (Lumbelli, 1981), mostrando di capire e tener conto di ciò che l’altro prova. Si tratta tuttavia di un aspetto molto delicato che implica sempre il rischio di distorsioni o interpretazioni unilaterali da parte dell’interlocutore che si trova in una posizione più forte (Zuccherini, 1991, p.99).

L’efficacia e l’utilità dei comportamenti verbali di rispecchiamento è stata evidenziata rispetto a diversi aspetti.

In primo luogo, sul piano relazionale, permette di manifestare attenzione e di creare un contesto di ascolto accettante, non giudicante ed empatico in grado di facilitare la partecipazione e l’espressione dei più piccoli.

99

Per un approfondimento esemplificativo dell’analisi dei tipi di risposta-riflesso si veda in particolare: Lumbelli (1992).

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Come si vedrà in seguito questo tipo di rispecchiamento viene utilizzato ad esempio da Lumbelli per rispecchiare il comportamento del bambino che sta disegnando.

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Sul piano del contenuto, l’uso del rispecchiamento si rivelerebbe particolarmente utile poiché il soggetto, sentendosi proporre il suo stesso discorso, sarebbe portato a esplicitare il suo pensiero, a precisare o correggere le sue parole rendendosi conto della loro eventuale frammentarietà o parzialità senza però dover ammettere errori o sentirsi frustrato, creando quel clima di accettazione ed empatia che stimola la continuazione della conversazione senza inibirla. Inoltre, ricorda Lumbelli, sul piano strettamente pedagogico e didattico offre all’insegnante una forma di comportamento concreto ed osservabile, dunque suscettibile di controllo, in risposta all’intenzione, spesso presente in ambito educativo, di facilitare la partecipazione dei più piccoli. Demarcando teoricamente in modo preciso una forma di manifestazione di attenzione, permette di favorire un controllo empirico scrupoloso (Lumbelli, 1982), rappresentando per la ricerca un’ipotesi controllabile circa le condizioni che favoriscono o ostacolano il processo educativo e la discussione con i bambini poiché viene definito teoricamente da alcune caratteristiche che permettono di riconoscerlo nelle registrazioni su nastro delle interazioni e dunque di verificarne gli effetti.

Un’ulteriore risorsa del colloquio non-direttivo consisterebbe nel fatto che, considerato che la guida del colloquio spetta il più possibile al bambino, permettendo una riduzione al minimo delle domande, si eviterebbero provocazioni e suggestioni, e anche molte occasioni di fabulazione e n’importequisme.101 Ciò permetterebbe ai bambini di avere un ruolo attivo e più consapevole sull’evoluzione del discorso.102

I comportamenti non-direttivi di rispecchiamento sono stati utilizzati da Lumbelli ed altre collaboratrici in diverse situazioni sperimentali per verificarne gli effetti didattici sui discorsi dei bambini, in particolare la capacità di stimolarli nell’esprimere il loro pensiero ed ampliarne la verbalizzazione. Il contesto della maggior parte di queste ricerche è stato la scuola elementare e la tecnica del rispecchiamento verbale è stata in esse utilizzata, oltre che per stimolare la produzione verbale, anche come mezzo per motivare gli alunni alla partecipazione. Inoltre il rispecchiamento è stato adottato anche in contesti didattici in cui è servito da mera dimostrazione di attenzione, ma senza accettazione, poiché in tali contesti era necessaria la revisione e la correzione delle conoscenze degli alunni. Nelle ricerche tale comportamento

101

Cfr. Il lavoro di Lumbelli nasce anche come propsta alternativa al metodo “per interrogare i fanciulli” di Piaget, in cui lo psicologo, nel tentativo di scoprire ciò che pensano i bambini, segnalava come pericoli provocazioni, suggestioni, fabulazioni e n’importequisme (cioè risposte “casuali” dovute alla mancanza di interesse dei bambini). Cfr. Piaget (1926), Lumbelli, (1971).

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Viene inoltre segnalato che la libertà con cui il soggetto può esprimere lo sviluppo dei suoi ragionamenti permetterebbe di scoprire e conoscere come si sviluppa il suo pensiero mentre cerca di risolvere un problema fornendo materiale utile a coloro che si occupano dello studio dello sviluppo cognitivo o che sono interessati a comprenderne i meccanismi. Cfr. Lumbelli (1971), pp. 24-25.

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verbale è stato adottato in situazioni di gruppo evidenziando, come si vedrà più avanti, la sua efficacia anche nel sostenere tali contesti di parola.

Per quanto riguarda nello specifico il contesto prescolare due ricerche, in particolare, hanno dimostrato come tale modalità possa risultare efficace anche con i bambini più piccoli, suggerendo alcune strategie adottabili direttamente dalle insegnanti.

La prima di queste ricerche, realizzata da Susanna Mantovani all’interno di un programma di studio diretto da Lucia Lumbelli, ha affrontato il rapporto tra l’egocentrismo verbale103 caratteristico dei bambini tra i 3 e i 7 anni e la situazione interpersonale.104 La ricerca ha coinvolto, in piccoli gruppi di tre alla volta, 36 bambini di Scuola dell’Infanzia di età compresa tra i 4 e i 6 anni, in attività condotte con due tecniche: una di tipo non direttivo in una situazione interpersonale libera e poco strutturata, l’altra di tipo più rigido, direttiva e strutturata.105 Il confronto tra i colloqui preliminari e quelli di controllo (realizzati con tecniche direttive) e l’analisi qualitativa dei protocolli hanno evidenziato106 che l’uso di strategie “non direttive”

103

Il termine linguaggio egocentrico è stato formulato originariamente da Piaget ne Il linguaggio e il pensiero del

fanciullo (1923). Si tratta di un linguaggio poco comunicativo, in cui il soggetto che parla pare non tener conto del

punto di vista dell’interlocutore né della sua comprensione. È un linguaggio poco coerente e poco comprensibile, lacunoso, frammentario, spesso ripetitivo, ellittico e poco chiaro nei termini di riferimento. Un linguaggio che utilizza prevalentemente la giustapposizione anziché la subordinazione ed esprime spesso una logica molto approssimativa.

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La ricerca, esposta e discussa in: Mantovani (1973 e 1987), partendo dall’ipotesi piagetiana secondo cui un rapporto interpersonale di collaborazione favorisce il superamento dell’egocentrismo mentre un rapporto di costrizione tende a perpetuarlo, intendeva verificare l’ipotesi secondo la quale il fenomeno dell’egocentrismo linguistico si presenta in modo diverso a seconda delle diverse situazioni interpersonali e che una situazione non direttiva di interazione con l’adulto e con i compagni può essere particolarmente utile per effettuare interventi educativi volti al superamento dell’egocentrismo stesso.

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Le esperienze basate su una situazione direttiva iniziavano con la lettura di un breve racconto del quale si erano precedentemente individuati alcuni punti significativi da discutere nel corso del colloquio. Finita la lettura veniva chiesto a un bambino (a turno) di ripetere il racconto e agli altri di intervenire correggendolo se dimenticava o sbagliava qualcosa. Poi i bambini venivano interrogati con domande precise, cercando di insistere su ciascuno finché non dava almeno qualche risposta. Si cercava di mantenere una rotazione precisa dei turni di intervento riprendendo i bambini che cambiavano bruscamente argomento o che parlavano in modo incomprensibile. I bambini inoltre non ricevevano spiegazioni circa il motivo dei colloqui e venivano ripresi con fermezza e decisone se dimostravano insofferenza per la situazione. I colloqui condotti in modo non-direttivo sono stati effettuati adottando la tecnica rogersiana impiegando il più possibile la risposta riflesso. All’inizio dell’attività veniva spiegata ai bambini la motivazione della ricerca: “vedere come parlano i bambini”. I bambini venivano a questo punto invitati a parlare di ciò che volevano e quando la loro reazione era di silenzio si cercava di non dimostrare irritazione o disagio ma di dare piccoli suggerimenti generici. I bambini venivano lasciati liberi di parlare nell’ordine e con la frequenza che preferivano e l’intervistatrice cercava di non fare mai domande dirette e di non introdurre argomenti nuovi. Se un bambino interrompeva gli altri o non parlava mai si diceva “scusa x, y stava dicendo…, forse puoi aspettare che lui finisca per dirmi questa cosa”, oppure “Forse anche y vuole dire qualcosa su questo…”. Quando i bambini facevano salti di argomento si interveniva dicendo: “E’ molto interessante, ma stavamo finendo di parlare di…, poi ce lo dirai”. Nel caso di perseverazione su un argomento superato: “Quello che dici è molto bello, ma ormai i tuoi compagni stanno parlando di… Forse anche tu vuoi dire qualcosa su questo.” Quando i bambini dicevano qualcosa di incomprensibile diverse erano le strategie di risposta: si dichiarava di non capire o si dimostrava di aver capito in modo sbagliato o si riascoltava con loro la registrazione audio stimolando il bambino ad essere più chiaro senza frustrarlo. Con questo atteggiamento si cercava di stimolare nei bambini il bisogno di spiegarsi senza frustrarli o farli sentire inadeguati quando si mostrava loro l’inefficacia delle comunicazioni.

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Un controllo statistico dei dati quantitativi è stato fatto con una analisi della varianza trifattoriale per misure ripetute. Cfr. S. Mantovani, (1973), pp. 50 sgg.