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Tra attualità e profezia

Nel documento Il cinema nel fascismo (pagine 69-75)

Sulla storicità dei film narrativi del ventennio fascista

2. Il cinema durante il fascismo

2.6. Tra attualità e profezia

L’ultimo gruppo di film che intendo presentare, comincia a prendere forma nella seconda metà degli anni Trenta, quando il fascismo giunge all’apice del con-senso e il cinema compie un notevole balzo produttivo in avanti. Sia dal punto

14  A. Farassino (sous la direction de), Mario Camerini, Editions du Festival international du film de Locarno, 1992, p. 27.

di vista tematico sia dal punto vista formale, queste opere pongono un’atten-zione particolare alla cronaca, alla storia: storia, come direbbe Jean Lacouture,

«immediata»15, riguardante cioè fatti assai prossimi, pressoché contemporanei alla realizzazione dei film.

Questa rincorsa all’attualità appare assai evidente a partire da Il grande ap-pello (1936) di Mario Camerini, autore come si vede non di sole commedie. Ben accolto dalla critica, il film si svolge proprio a ridosso dell’invasione dell’Etiopia e racconta, con ampie scene belliche, il sacrificio di un traditore italiano che si riscatta con la morte. Assai prossimo al tempo della sua realizzazione è pure Sentinelle di bronzo (1937) di Romolo Marcellini: in questo caso i fatti narrati (un fortino italiano in Somalia è sotto attacco) rimontano a pochi mesi prima della guerra d’Etiopia. Lo stesso Marcellini dirige L’uomo della legione (1940) che, at-traverso la vicenda di un giovane fascista combattente in Africa poi in Spagna, ci introduce nella guerra civile spagnola. Argomento di un notevole film, pur se pesantemente propagandistico, di Genina: L’assedio dell’Alcazar realizzato nel

’39 e distribuito verso la fine del ’40, ottenne un notevole successo al botteghino.

La sua particolarità è la presenza costante dei mass media: dalla radio ai giorna-li, dai fotografi agli operatori cinematografici che documentano e raccontano al mondo, pressoché nel suo farsi, lo scontro tra la democrazia e fascismo. In questi film sembra quasi di assistere, mutatis mutandis, a un’anticipazione del progetto zavattiniano. Il cinema “pedina” gli eventi in corso, aggiungendo, in alcuni di essi, un elemento profetico: una funzione anticipatrice sulla quale ha scritto, nella fattispecie rispetto alla storiografia, pagine brevi ma intense Bernardino Farolfi16. Qui mi riferisco a due film in particolare. Si tratta di Bengasi e Giarabub. Entram-bi del ’42 e diretti, rispettivamente, da Genina (che girò, val la pena di ricordare, in ambiente coloniale anche Squadrone bianco del ’37, opera di notevole qualità linguistica che tornava all’aggressione della Libia, ovviamente dal punto di vista degli invasori) e Alessandrini. Bengasi segue le sorti del conflitto in Africa, ma più che concentrarsi sulle scene belliche racconta le sofferenze della popola-zione civile, come anticipa all’inizio una dedica alle donne che sono le princi-pali vittime della guerra. Il che appare strano per un film che, sebbene racconti una vittoria italiana, mostra le tribolazioni e gli stenti della gente comune. Se Bengasi ambiva a essere un film di propaganda, certo veicolava un “messaggio”

non proprio coerente. Non voglio dire che fosse pacifista, ma certo dava voce, ancorché in modo velato, al disagio che ormai cominciava a diffondersi. Giara-bub racconta la difesa di un fortino italiano nel deserto africano. Gli assediati, in preda a gravi difficoltà logistiche (sono ormai privi di tutto), informati del fatto

15  La storia immediata, in Jacques Le Goff (a cura di), La nuova storia (1979), Milano, Mondadori, 1980.

16  Uno storico al cinema (1968-1981), “Storie e storia”, n. 9, 1983.

che i soccorsi non arriveranno, decidono di resistere fino alla fine, nonostante gli australiani abbiano loro offerto la resa con l’onore delle armi. Agli italiani, a causa della loro inferiorità militare, non resta che morire da eroi. La guerra è perduta. Ma l’onore è salvo. Questa “profezia” della sconfitta, è rafforzata dalla regia di Alessandrini che utilizza brani di repertorio e sceglie un punto di vista oggettivo di taglio documentaristico che induce un effetto di verità. Film come Bengasi e Giarabub mostrano quanto ormai siano lontani gli anni del consenso, di quei momenti in cui Mussolini poteva dichiarare, facendo mostra di esecrabile cinismo entrando in guerra a fianco di Hitler, che gli serviva qualche migliaio di morti per sedere da vincitore al tavolo della pace.

Il cinema splendida macchina del tempo, se guardato in controluce, svela il sentire profondo di una nazione. Resta, nondimeno, ancora salda, anche nel tra-monto del regime, la figura del padre che non sfugge a una lettura psicoanali-tica; e percorre tutto il cinema dell’epoca con l’aspetto fisico di Fosco Giachetti o Carlo Ninchi, di Amedeo Nazzari o Gino Cervi. Il padre per eccellenza, natu-ralmente, s’incarna nel duce del fascismo. Anche se a ben vedere, l’autorità, la norma, spesso la coercizione esercitata dalla società patriarcale non sono solo appannaggio del fascismo, e vigevano – pur se in altre forme – prima e seguite-ranno dopo.

Roma (BraDypUS) 2017 ISBN 978-88-98392-67-4 pp. 71-84

Dentro le mura degli stabilimenti di Cinecittà – tra una piazza medievale in car-tapesta e il fondale dipinto di un paesaggio urbano, tra i gessi delle sculture della Roma antica e le luci chiassose dei set televisivi – si svela timidamente lo scheletro solido del complesso edilizio: strade, piazze, teatri, uffici, sale di regi-strazione, camerini, punti di ristoro, parcheggi. La città del cinema si è da sempre nascosta agli occhi di esperti, curiosi o addetti ai lavori, soprattutto in ragione della versatilità e discrezione che è richiesta alla sua destinazione.

Attraverso l’analisi dei disegni realizzati dall’architetto friulano Gino Peres-sutti, incaricato della progettazione della città del cinema, ci si inoltra senza so-luzione di continuità nella storia di un regime che ha inevitabilmente assorbito l’individualità degli artisti chiamati a celebrarlo. Cosa resta di un professionista schivo e silenzioso, quasi invisibile, che si documenta nei maggiori teatri di posa europei e realizza gli stabilimenti più grandi ed evoluti del vecchio continen-te? Peressutti costruisce un esempio raro di architettura industriale razionalista, attraversata dai fantasmi di oltre tremila film, ma pressoché immutata nei suoi ottant’anni di vita.

La Genesi

Cinecittà nasce a New York nel 1928. O perlomeno, in quell’anno e nella me-tropoli americana nasce l’idea di quella che sarà poi Cinecittà: un complesso di stabilimenti e teatri di posa progettati non soltanto per ospitare la produzione di

Cinecittà. L’idea, il progetto

SARA MARTIN

film ma anche per rappresentare e incarnare l’idea stessa del cinema, per farsi interprete delle sue moderne esigenze industriali e per diventare il polo centrale di tutta l’attività cinematografica nazionale

Nel 1928 il giornalista Luigi Freddi, futurista con Filippo Tommaso Marinet-ti, volontario nella Grande Guerra e al seguito di D’Annunzio nell’avventura di Fiume e di Mussolini nella Marcia su Roma, come racconta nel suo volume di memorie Il Cinema ha

la fortuna di conoscere, nella casa di Otto Kahn, allora presidente del Metropolitan, il famoso regista David Griffith, ancora carico della gloria di Birth of a Nation (1915) e Intolerance (1916). […] Si era alla soglia dell’avvento del sonoro e ricordo le discussioni che si svolsero con quel maestro, genio del muto, in presenza di produttori, autori ed attori cinematografici, già turbati dalla imminente rivoluzione cinematografica. Da al-lora di tanto in tanto, dapprima timidamente, poi sempre con maggior competenza e passione, incominciai a scrivere sui problemi del cinema1.

A partire dall’incontro con David Griffith – e dall’incoraggiamento immediato da parte di Giuseppe Bottai, all’epoca direttore del giornale “Il Popolo d’Italia”

di cui Freddi è inviato – e in seguito dal lungo soggiorno a Hollywood, il giorna-lista inizia a convincersi che, per essere concorrenziale, una cinematografia ha bisogno di un luogo comune, di un punto d’incontro in cui si coalizzino tutte le competenze, dalla scrittura del soggetto alla produzione vera e propria.

Il Governo lo appoggia e lo sostiene e, dopo una prima relazione consegnata a Mussolini sullo stato della cinematografia hollywoodiana, Freddi – incalzato da Galeazzo Ciano (genero del Duce e capo Ufficio stampa) scrive invece una relazione accurata sulle condizioni dell’industria cinematografica italiana e for-mula l’idea di quella che avrebbe dovuto essere la città del cinema italiano.

Nel 1934 il Governo lo nomina Direttore Generale della Cinematografia.

Da quel momento Luigi Freddi è tra i massimi artefici della nascita dei luoghi-simbolo del cinema (Cinecittà, il Centro Sperimentale di Cinematografia) e uno dei responsabili del cospicuo apporto da parte del Regime all’intera filiera cine-matografica. Si lavora alla riorganizzazione dell’industria per poco meno di un anno; poi, il 25 settembre 1935, vanno a fuoco i più grandi e importanti teatri di posa d’Italia, gli stabilimenti della Cines in via Veio.

Freddi, nel suo memoriale così commenta l’incendio della Cines: «è l’inizio della storia di Cinecittà. Perché, come la mitologica Araba Fenice, la nuova cit-tà cinematografica, [...] è nata dalle fiamme, è sorta dalle ceneri della vecchia

1Luigi Freddi, Il Cinema. Miti esperienze e realtà di un regime totalitario, 2 vol., Roma, L’Arnia, 1949.

Cines, in quella notte memorabile e dolorosa ma anche, per virtù di uomini che vollero e seppero dominare gli eventi, feconda»2.

Quell’incendio è una disgrazia quantomeno provvidenziale; infatti se non ci sono sufficienti dati per provare qualche forma di responsabilità per il disastroso incendio, si può tuttavia affermare che, data la velocità con cui vengono in se-guito costruiti gli stabilimenti del Quadraro e la tempestività con cui l’architetto incaricato alla progettazione, Gino Peressutti, presenta le tavole (le prime sono datate novembre 1935, a meno di due mesi dall’incendio della Cines), l’idea, le persone coinvolte e le coordinate del progetto per la costruzione dei nuovi sta-bilimenti dovevano aver preso vita, e con un certo grado di definizione, molto prima della data del 25 settembre 1935.

Inoltre, non è un mistero il fatto che, come testimonia buona parte della stampa quotidiana del periodo, gli stabilimenti Cines, oltre a non essere «più rispondenti alle necessità della nuova produzione nazionale, soffocati quasi nell’angusta cerchia, erano destinati a dover presto sparire per altre ragioni:

quelle imposte dal piano regolatore»3.

Ed è lo stesso Giuseppe Bottai – nel frattempo diventato Governatore – a inte-ressarsi attivamente per la concessione di dodici ettari di terreno alle porte della città, sulla via Tuscolana, in cambio della cessione dell’area degli stabilimenti di proprietà di Carlo Roncoroni, che sorgevano in via Veio, nel cuore della capi-tale. Speculazioni edilizie, espropri e passaggi di proprietà portano, nell’arco di qualche mese, a concludere l’affare sui terreni del Quadraro e a predisporre il rito della posa della prima pietra dei nuovi stabilimenti, fissato per il 29 gennaio 1936. A soli quattordici mesi dalla posa della prima pietra, il 28 aprile 1937 (una settimana dopo la data prevista del 21 aprile – Natale di Roma e festa del lavoro – a causa del cattivo tempo) viene inaugurata ufficialmente la Città del Cinema.

«Il Capo del governo ha inaugurato i nuovi stabilimenti, luminosa affermazio-ne dell’architettura e della tecnica italiana»4, commenta lo speaker del cinegior-nale Luce mentre scorrono le immagini della visita da parte del Duce all’interno dei teatri di posa, alcuni già in azione.

Nel Teatro 8 viene incisa la voce di un coro, diretto da Ildebrando Pizzetti, per il film Scipione l’Africano (1937). Carmine Gallone, regista del film, è in divisa da ufficiale della Milizia. Mussolini visita altri teatri e segue la lavorazione dei film. All’interno del Teatro 9 il Duce assiste a una performance dell’attore Angelo Musco che recita per lui la scena finale de Il feroce Saladino (1937) di Mario Bon-nard. In un altro studio incontra Nino Besozzi e Sergio Tofano, interpreti de I due

2  Il Cinema, cit., p. 261.

3  La città cinematografica alle porte di Roma, in “Gazzetta del Popolo”, Roma, 5 gennaio 1935.

4  Roma, Mussolini inaugura Cinecittà, Giornale Luce B1087, 05/05/1937.

misantropi (1937) di Amleto Palermi, e in ultimo avvia simbolicamente le riprese del film diretto da Goffredo Alessandrini e supervisionato da suo figlio Vittorio:

Luciano Serra, pilota (1937).

C’è naturalmente molta messa in scena per il giorno inaugurale, ma ciò non toglie che Cinecittà, fin dai suoi primi mesi di vita, e fino almeno al periodo belli-co (quando gli stabilimenti diventano temporaneamente rifugio per gli sfollati5), sia in grado di far uscire dai suoi studi un numero esponenzialmente crescente di titoli (sono 19 i film realizzati nell’anno dell’inaugurazione, 31 nel 1938, 42 nel 1939, 48 nel 1940, 40 nel 1941, 51 nel 19426).

Nel documento Il cinema nel fascismo (pagine 69-75)