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Un passato sempre presente

Nel documento Il cinema nel fascismo (pagine 63-67)

Sulla storicità dei film narrativi del ventennio fascista

2. Il cinema durante il fascismo

2.3. Un passato sempre presente

[…] il film storico può rievocare momenti perfettamente analogici con quelli che vivia-mo, o, comunque, che abbiano con essi un riferimento tanto evidente da farci abolire i secoli trascorsi un momento dopo averci ricordato che sono trascorsi; e da queste analogie e da questi riferimenti, possono scendere moniti, incitamenti, cognizioni che valgano a esercitare e rinforzare la coscienza popolare di oggi.

Così Blasetti, in un articolo apparso sul “Mattino” (26 giugno 1936), indica l’im-portanza del film storico per rafforzare il consenso verso il regime. Cito Blasetti ma potrei addurre l’autorevole incitamento in favore del genere da parte del ministro della stampa propaganda e genero del duce, Galeazzo Ciano, o quello

di Vittorio Mussolini figlio del capo del fascismo e assai attivo in ambito cinema-tografico, ovvero il monito dell’accademico d’Italia, Lucio D’Ambra: «Il film più fascista è il film storico». Insomma, nonostante, come abbiamo detto, il fascismo abbia respinto l’idea di realizzare una cinematografia di Stato allineata diretta-mente ai suoi voleri, non sfuggiva a nessuno che il film storico poteva risultare una macchina assai potente per la costruzione del consenso. Anzitutto per le ragioni addotte poc’anzi relative al cinema narrativo. In secondo luogo perché sorge naturale, spontaneo, celare sotto le sembianze del passato un discorso al-lusivo, indiretto sul presente. In terzo luogo per l’impostazione storicista del regi-me che cercava una legittimazione ponendosi coregi-me erede delle epoche gloriose della storia della patria (dall’antica Roma al Risorgimento alla Grande guerra) nonché eleggendo il suo duce (dalla voce latina, un richiamo al passato, dux che vale «guida», «condottiero») a naturale continuatore degli eroi nazionali: un compito questo che nessuno meglio del nuovo medium avrebbe potuto assolve-re, forse a esclusione del testo unico per le scuole elementari.

Non a caso ho citato poc’anzi Blasetti. Che è il principale realizzatore di film storici del ventennio. Infatti dopo il debutto con Sole e altri film tra cui Terra madre (1931) che seguita nelle tematiche ruraliste di Sole: dalla «bonifica inte-grale» al «ritorno alla terra» in perfetta coerenza tra loro, arriva a dirigere 1860 (1934). Si tratta, a giudizio pressoché unanime, di uno dei migliori film storici del cinema italiano. Del quale, addirittura, il regista Antonio Pietrangeli portava con sé una copia per proiettarla ai comizi che teneva nel ’48 come candidato del Fronte popolare. Naturalmente depurata del finale, di cui ci racconta Filip-po Sacchi, con la «baldanzosa visione delle falangi fasciste che sfilano davanti ai reduci garibaldini, sullo sfondo imperiale del Foro Mussolini»7. Un finale ap-piccicato, perché 1860 non è per nulla un film di rozza propaganda. Tutt’altro.

Inscritto nel segno di Garibaldi che appare di rado come una silhoutte ma deter-minante per il destino dell’impresa (il che spiega ulteriormente l’uso fattone da Pietrangeli, il Fronte aveva per simbolo Garibaldi), il film racconta l’impresa dei Mille dal punto di vista del pastore siciliano Carmeliddu che compie un “viaggio di conoscenza” nel nord per incontrare il generale con relativo ritorno al sud, coi patrioti. 1860, che non riscosse all’epoca successo al botteghino, divenne tutta-via un long-seller assai mostrato in seguito in televisione e nei cine-club, ed è as-sai amato dai critici. Ci fu infatti chi ne fece l’antesignano del neorealismo e chi invece, come Sadoul, negò questa linea per ritrovarne i precedenti in capolavori riconosciuti del cinema mondiale come La nascita di una nazione (The Birth of a Nation, 1915) di Griffith e Tabù (Id., 1931) di Murnau8. Qualcuno, tuttavia, ne

cri-7  “Corriere della Sera”, 30 marzo 1934.

8  “Sequenze”, n. 4, 1949.

ticò l’impostazione storica di fondo che tendeva a rappresentare il Risorgimento come un fenomeno di popolo, data la vasta partecipazione dei picciotti siciliani a cui apparteneva lo stesso protagonista, laddove si trattò in realtà di un feno-meno d’élite. Non ci soffermeremo oltre su tali rilievi che, come ha sottolineato Pierre Sorlin9, risultano quanto meno poco pertinenti. Un film è un prodotto affa-bulato, uno spettacolo e non può né deve essere trattato come un libro di storia.

Altre sono le domande da porre. Per esempio che tipo di discorso sul presente celasse sotto il velo del passato. Rafforzò nel pubblico l’idea che la società aves-se bisogno di un capo, Garibaldi, di un padre, di un padrone, ponendo inoltre im-plicitamente l’analogia tra il generale e Mussolini? Contribuì all’“annessione” fa-scista del Risorgimento? Favorì un sentire nazionalista mostrando che le truppe borboniche destinate alla repressione dei patrioti erano composte da mercenari svizzeri di lingua tedesca e in genere rappresentando gli stranieri come nemici?

La risposta più ragionevole a queste domande è affermativa. Nondimeno un film come 1860, prodotto della sua epoca, che influenza e ne è influenzato, com’è ovvio, mantiene una piena autonomia linguistica e spettacolare.

Blasetti in seguito rimette in scena il passato in una tetralogia che si sviluppa dal ’38 al ’42 – Ettore Fieramosca (1938), Un’avventura di Salvator Rosa (1940), La cena delle beffe (1941), La corona di ferro (1941) – e rappresenta il progressivo distacco del regista dall’attualità, dalla politica e dal regime. Solo Fieramosca mantiene un solido riferimento a eventi storicamente documentati (la disfida di Barletta) veicolando un “messaggio” di tipo nazionalista, mentre gli altri film si librano in un passato sempre più scaturigine dell’immaginazione che raggiunge il suo culmine in La corona di ferro. Un passato in cui i riferimenti al presente sono sempre più allusivi e velati. Tra questi film, nondimeno, svetta Fieramosca che rappresenta l’apice del progetto espressivo (linguistico-spettacolare) e indu-striale blasettiano e una delle vette di tutto il cinema dell’epoca. Il regista vi spe-rimenta un’idea di cinema-cinema con simultanea messa in opera di un modello industriale di tipo hollywoodiano.

Se Blasetti è il principale alfiere del film storico, molti altri registi vi si dedi-cano. Ne cito qualcuno: Alessandrini, Gallone, Genina, Guazzoni, Trenker... Re-alizzano delle “serie” che si riferiscono ai principali momenti della storia della patria. Al Risorgimento è dedicata la più importante sia dal punto di vista qua-litativo che quantitativo, anche se in moltissimi casi, l’alba dell’unità d’Italia è piuttosto oggetto di allusioni o sfondo di storie sentimentali, siano esse melo-drammi o commedie. I film “politici” che pongono cioè il Risorgimento in primo piano sono Villafranca (1933) di Giovacchino Forzano, il citato 1860 e Il dottor

9 La storia nei film. Interpretazioni del passato (1980), edizione italiana a cura di G.[M.] Gori, presen-tazione di Peppino Ortoleva, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p. XLVII.

Antonio (1937) di Enrico Guazzoni: tutti, forse non a caso, realizzati e distribuiti dopo che il duce, nel ’32, pose ufficialmente il Risorgimento all’inizio della rina-scita del paese che il fascismo avrebbe condotto a termine10. Non poche opere ritornano al Rinascimento, epoca in cui si ritrovano i germi del Risorgimento. Per esempio i già accennati Fieramosca e La cena delle beffe oppure Condottieri (1937) di Luis Trenker ispirato alla vicenda di Giovanni dalle bande nere. Un film che si segnala per un certo espressionismo e per la “geometrica” efficienza delle bande: perfettamente allineate, mirabilmente inquadrate indicano, dal punto di vista iconologico, il ristabilimento dell’ordine. Che poi il loro colore sia il nero rafforza l’analogia col presente fascista. Scarsa la presenza di film dedicati alla prima guerra mondiale e ancor più rari, al contrario di quello che ci si potreb-be aspettare essendo la retorica fascista costantemente rivolta a Roma antica, i riferimenti a quell’epoca. Prendendo in considerazione l’intero ventennio se ne contano solo sei. Un numero, anche se mi fosse sfuggito qualcosa, assai modesto.

Quattro epigoni dei colossi della gloriosa epoca del muto, tra il ’23 e il ’26, con titoli ricorrenti nella storia del cinema come Quo vadis e Gli ultimi giorni di Pom-pei. Due film nel ’30: uno di essi è Nerone (1930) di Blasetti, nel quale la macchina da presa è al servizio di Ettore Petrolini nell’interpretazione dei suoi personaggi (tra cui Nerone) e di se medesimo: un film dunque che rientra a fatica nella serie.

Infine Scipione l’africano, forse l’unico colosso di regime, che mirava a porre il nesso guerra punica condotta in Africa contro Annibale e campagna d’Etiopia ovvero, come si diceva all’epoca, tra il legionario romano e il legionario camicia nera, e, ovviamente tra Scipione e Mussolini. Furono pure mobilitate, l’ho anti-cipato all’inizio, le scuole elementari romane, ma il film non ottenne il successo sperato; e la gloriosa epoca romana sugli schermi fu dimenticata. Ma perché in un regime che grondava romanità ciò non accadde al cinema, probabilmente il più potente degli strumenti di propaganda? Una risposta, che emerge dall’a-spetto industriale del medium, potrebbe essere la seguente: i film “romani” co-stavano troppo rispetto alla loro potenzialità di incasso: Scipione era lì a dimo-strarlo. Ma c’è dell’altro. Il mito della romanità come aurora della nuova Italia culminate nel fascismo era minato da «due elementi di strutturale debolezza»11. Il primo. Si trattava di un mito coatto, il che impediva che potesse essere rivissu-to in maniera genuina e induceva alla rerivissu-torica. Il secondo. Se nel Risorgimenrivissu-to il mito era risultato positivo, negli anni Venti e Trenta, l’avvento della società di massa aveva cambiato tutto. Con ogni probabilità, infatti, in quella massa di cui il fascismo cercava il consenso pochi erano potenzialmente sensibili al fascino

10  Sorlin, La storia nei film, cit., p. 109.

11  Pier Giorgio Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Mulino, 1985, pp. 70-2.

di Roma antica. Il cinema arte di massa per eccellenza non poteva che prendere atto di questa situazione e rinunciare a propinare alla maggioranza del proprio pubblico storie e immagini che non sentiva.

Nel documento Il cinema nel fascismo (pagine 63-67)