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Il dibattito del dopoguerra

Nel documento Il cinema nel fascismo (pagine 55-60)

Sulla storicità dei film narrativi del ventennio fascista

1. Il dibattito del dopoguerra

Prima di affrontare direttamente il nostro tema, confidando che ne possa scaturire un utile arricchimento e una migliore comprensione dell’argomento, daremo con-to, in sintesi, della “riflessione cinematografica” successiva nei film e nella critica.

1.1. Qualcosa sui film

In Italia, paese estremamente politicizzato, si apre nel dopoguerra un ampio dibat-tito sul fascismo. A esso partecipa anche il cinema: i registi, in prevalenza orientati a sinistra, intervengono coi loro film. Primo fra tutti Roberto Rossellini che, reduce da alcune opere realizzate sotto il regime fascista, impone il neorealismo con la vicenda partigiana nella Roma occupata dai nazisti di Roma città aperta (1945). Il film, dopo un’assai tiepida accoglienza della critica italiana, ma non del pubblico, trionfa a New York e Parigi e dovunque. Racconta la storia pressoché nel suo farsi e diventa il testo principale urbi et orbi, potenza del cinema, del recente passato bellico nazionale, rovesciando la percezione e l’autopercezione degli eventi. Gl’i-taliani, fascisti alleati dei nazisti ne divengono vittime: un partigiano torturato, un prete fucilato, e una donna, Pina (Anna Magnani), falciata da una raffica mentre rincorre il camion dove si trova il suo uomo catturato in una retata: questa im-magine entra di prepotenza nell’immaginario collettivo. Analogo discorso vale per l’altro capolavoro rosselliniano, Paisà (1946). Ma oltre ai due citati, chi scorra le filmografie potrà trovarvi, in quel periodo, molte opere che fanno riferimento al fascismo, alla guerra, alla Resistenza. L’attenzione progressivamente cala, poi tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta una ripresa d’inte-resse; ancora una diminuzione, poi tra lo scadere del decennio e l’inizio degli

anni Ottanta un gruppo assai cospicuo di opere; quindi ancora una discesa. Non è questa la sede dove dilungarci sulla filmografia del dopoguerra, ma sarà utile proporre qualche altro titolo. Per esempio, La marcia su Roma (1962) di Dino Risi, maestro della commedia italiana, che esce nello stesso anno del più famoso e fortunato Il sorpasso, dove Risi “prende posizione” in modo impeccabile sull’ita-lica iniziazione al benessere – «il boom economico» – esplosa proprio in quegli anni. La marcia su Roma è interpretato da due «mostri» della commedia italiana, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, che imparano in presa diretta tutta la falsità del programma di San Sepolcro. Nel periodo successivo indicato poc’anzi, arriva-no nelle sale, all’epoca ancora molto frequentate, circa una ventina di film che fanno diretto riferimento al fascismo. Alcuni ricostruiscono avvenimenti storici come Il delitto Matteotti (1973) di Florestano Vancini, proteso simultaneamente a spettacolarizzare e “documentarizzare”: da un lato la musica, il ritmo, con l’espli-citazione dei processi di finzione, come il fermo immagine ripetuto nell’agguato a Matteotti; dall’altro il tentativo di dare l’impressione del documentario, della ve-rità davanti ai vostri occhi, con fotografia ingiallite e didascalie, e ripetutamente coi titoli dei giornali, con nome e cognomi dei protagonisti: il tutto, cioè finzione e verità, si fonde nei personaggi rassomiglianti, il duce, Turati, Gramsci ecc. È la cronaca che si fa storia o la storia che si fa cronaca. Non mancano, nel periodo, colossi d’autore come Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci o film controversi come Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, che sceglie la repubblica di Salò per ambientarvi una storia di sesso e morte. O come La notte di San Lorenzo (1982) di Paolo e Vittorio Taviani che profeticamente introduce il tema della guerra civile che, in sede storica, verrà ampiamente discusso quasi dieci anni appresso da Claudio Pavone in Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (1991).

Si sarà notato che, a parte La marcia su Roma, abbiamo citato soltanto film drammatici. In effetti le commedie sono poche. Pierre Sorlin1 ne ha contate cin-que: Anni difficili (1947) e Anni ruggenti (1962) entrambi di Luigi Zampa, il già ricordato La marcia su Roma e Telefoni bianchi (1975) di Risi, Che gioia vivere!

(1961) di René Clément. Forse del fascismo, nell’Italia della seconda metà del Novecento, ancora «non si può ridere»? Sorlin non cita Amarcord (1973) di Fede-rico Fellini, probabilmente perché, pur essendo ambientato in epoca fascista, il regime vi ha un ruolo non di primo piano. Tuttavia, nel film, ci vengono mostrati i fascisti in azione e l’immagine e il culto del duce. La scena principale, anche se le camicie nere le vediamo sin dall’inizio dal barbiere o nel caffè, è quella del XXI aprile (celebrazione del natale di Roma), con tanto di parata a passo di corsa, nella quale sono elencati i dati inoppugnabili del consenso al regime. A un certo

1  Un fascisme pour rire?, “CinemaAction”, n. 42, 1987, p. 25.

punto ascoltiamo anche le note dell’Internazionale da un grammofono nascosto che viene accolto dai fascisti a fucilate. Non manca un episodio di tortura con somministrazione di olio di ricino.

Fellini, quando il film uscì, fu criticato per aver mostrato gli aspetti farseschi e ridicoli del regime piuttosto che la violenza, la ferocia; ma trovò un autorevole difensore in Calvino che parlò di «un sapore di verità», di «divise giuste», «clima psicologico giusto»2. Da parte sua sottolineò che non gli interessava il discorso politico. Per dirla con le sue parole, il fascismo è «una specie di degenerazione a livello storico di una stagione individuale – quella dell’adolescenza – […] non è stato soltanto un fatto, ma [...] il fascista è in noi, proprio dentro di noi»3.

Negli ultimi trent’anni o poco più tra i film sul tema – anche se non posso non ricordare anche, almeno, L’uomo che verrà (2010) di Giorgio Diritti, ispirato all’eccidio di Marzabotto – campeggia Vincere (2009) di Marco Bellocchio. Che si basa sulla vicenda di Ida Dalser che ebbe un figlio da Mussolini. Bellocchio dichiara che ciò che lo aveva colpito era la volontà indomita – pur se priva di risultato – della donna di essere riconosciuta col figlio avuto. Non manca chi sottolinea l’emersione di temi assai cari al regista – la famiglia, la follia. Ne è scaturita una potente rappresentazione storica del fascismo a partire dalla sua genesi. Ma è il cinema, che nasce alla fine dell’Ottocento e si afferma assieme ai fatti narrati, che costituisce la sostanza storica di Vincere. Brani documentari e cinegiornalistici ricorrono in tutto il film: non come appendice, più o meno reali-stica o documentaria, ma come parte integrante di esso, perfettamente fusi nel complesso del racconto: dalle immagini della modernità industriale alle parate reali, dalle manifestazioni belliciste alle madri italiane che allattano i pargoli, dai combattimenti in guerra alla sfilata degli sposi italiani, dalle città bombar-date a, naturalmente, le camicie nere e soprattutto il corpo e la mascella del duce che incombe nel suo rapporto diretto, quasi mistico, con la folla. Non basta.

I protagonisti vanno spesso al cinema o guardano film in altri luoghi oltre alla sala cinematografica. In tali casi i film sono in buona parte narrativi. Per esempio Maciste alpino (1916) di Luigi Maggi e Romano Luigi Borghetto, con Bartolomeo Pagano e la supervisione di Giovanni Pastrone: gli ultimi due, rispettivamente, l’uno protagonista nel ruolo di Maciste, l’altro regista del dannunziano Cabiria (1914). Ancora: Christus (1916) di Giulio Antamoro, uno dei principali colossi sto-rici del muto italiano, viene proiettato nell’ospedale dove giace ferito Mussolini;

Il monello (1921) di Chaplin mostrato ai ricoverati in manicomio su un grande schermo all’aperto. Nella sala accade anche altro: uno scontro tra interventisti e neutralisti durante la proiezione di un film muto accompagnato dal pianista;

2  Autobiografia di uno spettatore, in F. Fellini, Quattro film, Torino, Einaudi, 1974, p. XXIII.

3  Cit. da Franco Pecori, Fellini, Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 127-8.

un dialogo tra i protagonisti durante la proiezione di un film sonoro. Bellocchio pone particolare cura nella rappresentazione della storia del cinema, inteso come spettacolo costituito di film di documenti e di finzione e luogo dello spet-tacolo: specchio e spazio collettivo d’azione. Dove immergersi nella “falsa” vita delle immagini filmiche, ma anche agire nella vita “reale”. Cinema e vita s’incon-trano e si confondono.

(Mentre sto scrivendo, Paolo e Vittorio Taviani arrivano nelle sale col loro nuovo film. Si tratta di Una questione privata, tratto dal romanzo omonimo di Giuseppe Fenoglio. Il che costituisce per loro un ritorno al tema della Resisten-za. È una storia «privata», come annuncia il titolo, che ha per protagonisti due partigiani e una ragazza. La vicenda è calata nel dramma della guerra: la vita, gli scontri, la dignità e gli stenti dei resistenti; e le feroci rappresaglie contro i civili da parte di quelli che vengono definiti «scarafaggi» cioè i fascisti repubblichini (non si vedono tedeschi); non mancano riferimenti al tema della guerra civile. È pure prevista, nel febbraio del 2018, la distribuzione nelle sale di un film su Mus-solini. Si tratta di una commedia intitolata Sono tornato. Il regista Luca Miniero immagina – come accade a Hitler nel film tedesco Lui è tornato (Er Ist Wieder Da, 2015) di David Wnendt – che il capo del fascismo ricompaia ai giorni nostri).

1.2. La parola alla critica

Nell’immediato dopoguerra, nel dominio della critica, tende a prevalere il con-testo storico. Si valutano i film del periodo anche considerando, sia detto così in radicale sintesi, il loro più o meno velato antifascismo o comunque il loro precorrere la Resistenza. Libero Solaroli, per fare un esempio, scrive su “Cinema nuovo” nel 1953 una storia a puntate del cinema italiano degli anni Trenta per ritrovarvi le origini del neorealismo; così omette, per esempio, Vecchia guardia (1934) di Blasetti, film che canta il fascismo della prima ora, ma per nulla banale in quanto film.

In seguito tende a prevalere il testo, quando negli anni Settanta si comincia a parlare di meravigliosi anni Trenta; nei quali il cinema ha di certo un ruolo di primo piano.

Un dibattito di un certo rilievo ha luogo alla fine degli anni Settanta a pro-posito del cinema fascista. Semplificando, da un lato si schierano coloro i quali sostengono che si può definire cinema fascista solo quello che mostra le camicie nere e le loro imprese; in tal caso sulla produzione totale dell’epoca si trattereb-be di una percentuale infinitesimale di film, per contare i quali basterebtrattereb-bero e

avanzerebbero le dita di due mani. Dall’altra parte chi afferma una nozione assai più ampia di cinema fascista: sarebbe tale tutta la produzione corrente perché trasmetterebbe valori piccoli borghesi: conformismo, buoni sentimenti... insom-ma il celebre trittico della conservazione nello statu quo: Dio, patria, famiglia.

L’attenzione ai testi, quanto meno, spinge in direzione di atteggiamenti filologi-camente più corretti. Salutari in Italia dove, anche per le ragioni suggerite poc’anzi e una più generale ritrosia a considerare il cinema un bene culturale e quindi a conservarlo, la conoscenza dei film del periodo fascista era piuttosto scarsa.

Faccio un esempio utile a capire la situazione e il clima dell’Italia del dopo-guerra. Isidoro Lanari cinéphile e principale promotore, a Rimini, del Cineforum (una eccezionale palestra di formazione cinematografica per la generazione del dopoguerra) racconta questo aneddoto. 1958. È prevista la proiezione, con pre-sentazione e dibattito, di un “classico” del realismo inneggiante all’internazio-nalismo proletario. Si tratta di La tragedia della miniera (Kameradschaft, 1931, Germania-Francia) di Georg Wihlelm Pabst, che assieme a Westfront (id., 1918, Germania) dello stesso autore, ebbe molta fortuna nel circuito cinematografico culturale. Il film, però, per ragioni tecniche non è disponibile e la Cineteca na-zionale, punto di riferimento ineludibile dell’attività dei cineclub, invia, in base a presunti precedenti accordi di cui Lanari non è a conoscenza, Seconda B. Lanari, che dispone di una solida cultura cinematografica, non ne ha mai sentito parla-re. Allora prende il primo rullo e comincia scrutare la pellicola. Scopre così gli attori: Maria Denis e Sergio Tofano; e viene colto dall’ansia: abbiamo chiesto un noto e acclamato film tedesco e cosa ci arriva? un film italiano degli anni Trenta del genere «telefoni bianchi». Preoccupato continua a scorrere la pellicola e fi-nalmente scopre il regista: Goffredo Alessandrini che lui conosce per il già citato Luciano Serra pilota. Rimette tutto a posto e corre nella sede del Cineforum per trovare qualcosa sul film. Niente. Alla fine, tuttavia, riesce a mettere assieme una piccola scheda. La proiezione può cominciare. Lanari non ci dice come il film fu accolto, ma da quanto afferma in seguito deduciamo che lo fu piuttosto bene:

«Seconda B, realizzato nel 1934, è una commedia deliziosa, scritta e adattata da Umberto Barbaro in persona, una vera lezione di cinema. Ho letto, in seguito, che questo film veniva spesso proiettato al Centro sperimentale come un modello di racconto cinematografico»4.

4  Rimini, 1955-1972: les années du ciné-club, in G.M. Gori (sous la direction de), Rimini et le cinéma.

Images, cinéastes, histoires, Paris, Editions du Centre Pompidou, 1989, p. 161.

Nel documento Il cinema nel fascismo (pagine 55-60)