Quando il 15 giugno 1938, il re Vittorio Emanuele III rende una lunga visita uf-ficiale a Forlì e a Predappio – chinandosi più volte ad omaggiare i simboli e i percorsi più direttamente legati all’uomo cui la corona doveva i sigilli imperiali – l’artificiale progetto della Terra del Duce sembra aver trovato il suo consoli-damento finale. Il Luce dedica all’evento ben due cine-giornali (B1322 e B1323), assommanti oltre sei minuti di servizio filmato, esordendo in entrambi i casi con uno sfrontato riferimento alla cifra sacrale dei luoghi: «La provincia del Duce ac-coglie con manifestazioni di ardente entusiasmo popolare la visita di Sua Maestà il Re Imperatore. La città di Forlì appare al sovrano con il suo volto rinnovato dal-le opere del regime» e «Predappio, la patria del Duce che sorge sulla vallata del Rabbi, accoglie la visita di Sua Maestà il Re Imperatore». Dopo gli incontri istitu-zionali e i consueti bagni di popolo fra le vie dei due centri modellati dal “picco-ne “picco-nero”, la rassegna ci“picco-ne-giornalistica si chiude con tre momenti assolutamente
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emblematici: anche il regnante, come il più comune dei cittadini, rende omaggio alla tomba dei genitori del duce, per poi visitare umilmente la «Casa natale del fondatore dell’Impero, cara al cuore di tutti gli italiani»; dovendo infine muovere verso Rocca delle Camminate ove il dittatore lo attende, e non viceversa, per un
«colloquio cordiale».
Tuttavia, benché di grande effetto sul pubblico, l’acquisizione della Monar-chia alla liturgia della “piccola Roma” e della “Betlemme del fascismo” si ri-velerà ben presto una componente effimera della più generale allucinazione eterotopica inseguita dalla propaganda di regime. Ai primi venti di guerra, che obbligheranno il governo littorio ad una profonda ristrutturazione della catena di comando e dell’impiego delle risorse, la Terra del Duce sparirà infatti dall’o-rizzonte mediatico nazionale, senza più trovare spazio, neppure come isola votiva. L’allontanamento quasi contemporaneo di gerarchi di lungo corso dai dicasteri deputati alla comunicazione istituzionale – Dino Alfieri dal Minculpop (ottobre 1939), Achille Starace dalla segreteria del PNF (novembre 1939) e Gia-como Paulucci di Calboli dall’Istituto Luce (gennaio 1940) – rimpiazzati da una generazione di “giovani turchi” radicali e totalmente assorbiti dalla questione bellica64, spezza quella cinghia di trasmissione che, seppur fra continue frizioni ed idiosincrasie, aveva sin lì saputo lavorare su un comune asse narrativo: l’incul-cazione nell’immaginario popolare di una teoria di perfetta provincia fascista, acconciata con le maschere della necessità e della grandezza sul profilo della Romagna mussoliniana.
Le esigenze dell’immane conflitto in arrivo, assorbono invece ogni energia statuale, annichilendo gli sforzi pregressi di fascistizzazione capillare del tes-suto sociale. Già nel 1940, Forlì e Predappio non fanno più “notizia”: di colpo spogliate degli omaggi ai cari estinti, dalle inaugurazioni urbanistiche e dalle celebrazioni monumentali, le due comunità retrocedono subitamente nella pe-riferia dell’Impero. Non più dipinta e diffusa come l’humus fondamentale della rinascita antropologica italiana, la proiezione della Terra del Duce trasfigura al-lora da un’eterotopia palingenetica ad una diafana distopia, avvitata lungo una spirale marziale e martirologica. Dei soli sette cine-giornali facenti in qualche modo riferimento alla presunta “prima” provincia d’Italia, dall’entrata in guerra fino alla caduta del regime, non emerge null’altro che una occasionale, breve e sterile cronaca dell’addestramento dei cadetti, all’interno di quel modernissimo
64 Si tratta di “protetti” del potente Galeazzo Ciano, genero del duce e ministro degli Esteri. Tutti poco più che trentenni: Augusto Fantechi (classe 1901) diventerà Presidente del Luce, Ettore Muti (1902) andrà alla testa del PNF, e Alessandro Pavolini (1903) sarà il nuovo ministro della cultura popolare. Si vedano: Marco Innocenti, I gerarchi del fascismo: storia del ventennio attraverso gli uomini del Duce, Milano, Mursia, 1992; Ray Moseley, Mussolini’s shadow: the double life of Count Galeazzo Ciano, New Haven, Yale University Press, 1999.
Collegio Aeronautico che è rimasta l’unica eccellenza nazionale della “picco-la Roma”. Si passa così dai quarantacinque secondi che documentano “picco-la visita del Vicecomandante della GIL (C0032, del 17 maggio 1940) ai pochi scampoli riproducenti gli esercizi di aeromodellismo degli allievi durante i saggi finali del corso (C0145, del 19 maggio 1941), passando per aperture ufficiali (C0065, del 13 agosto 1940) ed ispezione dei campi (C0068, del 23 agosto 1940).
Nello sfaldamento generalizzato, non v’è traccia di un utilizzo della Terra del Duce neppure come santuario dell’ardore nazionalista e del fronte interno65: nell’ultimo reportage monografico incentrato su Forlì è possibile, tuttavia, intra-vedere il presagio ideale della fine prossima, in un macabro gioco di rimandi ne-gativi fra le velleità futuriste del fascismo e gli spietati rovesci del corso storico.
I quarantaquattro secondi del cine-giornale dell’11 settembre 1941 (C0178) im-mortalano le commemorazioni nel trigesimo della scomparsa di Bruno Musso-lini, terzogenito del dittatore ed ufficiale dell’aviazione, perito a Pisa al termine di una ricognizione di prova. Se uno spezzone di un precedente servizio (C0170, 15 agosto 1941) aveva mostrato i solenni funerali e la tumulazione nel cimitero monumentale di Predappio, descrivendola come il viaggio «verso la serena pace della sua Terra» e quindi lasciando ancora balenare qualche ultimo frammento di sacralità geografica, stavolta il tono è plumbeo, privo di afflato e con uno scarno commento evenemenziale. Proprio quel mito del volo che aveva rappre-sentato il più importante fattore di modernizzazione della Romagna fascista, strappava al duce il suo prediletto unico figlio-soldato, come il sole aveva sciolte le ali di Icaro, luce degli occhi di Dedalo66. Lungo il triste corteo delle gerarchie littorie dai primi riti presso il Collegio aeronautico alla cappella di Predappio, re-gna solo atmosfera di morte: sarà l’ultima immagine cine-giornalistica associata alla “piccola Roma” avanguardia della provincia, prima dell’apocalisse dell’inva-sione straniera e della guerra civile.
65 L’unico debole esempio porta al cine-giornale C0095 del 26 novembre 1940, che dedica trenta secondi per descrivere il conferimento della medaglia al valor civile a Rachele Mussolini, in piazza Ordelaffi a Forlì.
66 Si tratta di una similitudine non peregrina, tanto che una grande statua raffigurante Icaro (ad opera di Francesco Saverio Paolozzi) verrà posta nel 1941 dinanzi al Collegio aeronautico di Forlì, dall’ottobre di quell’anno intitolato a Bruno Mussolini.
Roma (BraDypUS) 2017 ISBN 978-88-98392-67-4 pp. 105-108
Negli anni Venti il cinema italiano subisce una gravissima crisi, che si accentua con gli effetti sul pubblico della Grande Crisi economica del 1929, che è una crisi internazionale. Negli anni Dieci e ancora nei primi Venti, il cinema italiano era stato, con quello danese e svedese, col francese e con lo statunitense, al centro dell’interesse del grande pubblico di mezzo mondo e più, grazie alla possibilità di diffusione che aveva il cinema non parlato, il cinema muto. Si spiega così la re-sistenza di autori come Chaplin o Ejzenstejn al sonoro, perché il sonoro toglieva al cinema la possibilità di essere un linguaggio planetario, comprensibile a tutti, letterati e illetterati.
Il nostro cinema si era specializzato partendo da tre città, a Torino nei grandi spettacoli “storici” d’ambiente antico romano (i Quo vadis?, i Nerone, Gli ultimi giorni di Pompei...), a Roma nei melodrammi borghesi dannunziani con France-sca Bertini, Lyda Borelli e altre “dive” (del tipo Ma l’amor mio non muore...), a Napoli con i film d’ambiente popolare contemporaneo, i film-sceneggiata (tra i quali anche grandi titoli legati alla voga del verismo, come Sperduti nel buio o Assunta Spina...). Ma non resistette alla grande concorrenza americana e alla cri-si, e andò morendo fin quando un imprenditore generoso, Stefano Pittaluga, e un piccolo gruppo di intellettuali non fondò la Cines, a Roma, e sollecitò l’interesse per la produzione cinematografica del Duce del fascismo, che, ben consiglia-to, decise di investire sulla costruzione di grandi stabilimenti cinematografici a Roma, che chiamò Cinecittà. Ciò significava un’industria in una città che di indu-strie era storicamente priva e che era tuttavia la nostra capitale, e però l’indu-stria del cinema era un’indul’indu-stria particolare, privilegiata, perché non soggetta al pericolo di lotte operaie pur portando denaro alla città, e, non secondariamen-te nella lungimiransecondariamen-te visione del Duce e del suo entourage, voleva dire altresì un’industria del divertimento e del tempo libero. Come a Berlino, il cinema non
POSTFAZIONE
GOFFREDO FOFI
doveva ricordare i problemi sociali più acuti, ma decisamente allontanarsene, non insistendo sull’ideologia ma sulla distrazione.
Il cinema italiano rifiorì, ma Mussolini volle creare una concorrenza a un’in-dustria troppo rigidamente statale e programmata, burocratizzata, richiamando dal confino un industriale torinese appassionato di cinema, Riccardo Gualino, la-sciandolo libero a patto di fondare una società di produzione privata, la Lux Film.
Lavorarono nel cinema affermandovisi due grandi registi, Blasetti, più vicino al regime nonostante un’insistita vocazione “buonista”, e Camerini, che era stato peraltro socialista e che seppe narrare con delicatezza e misura l’affermazione di un ceto sociale, la piccola borghesia con il sogno delle “mille lire al mese”. Ge-neri privilegiati del cinema del trentennio furono i cosiddetti “telefoni bianchi”
o commedie ungheresi (ambientate in Ungheria per non propagandare come italiani certe costumi e certe frivolezze), i melodrammi sentimentali (“i film che parlano al vostro cuore” primi fra tutti quelli di un grande uomo di spettacolo, Mario Mattoli), il film in costume soprattutto in costumi dell’Ottocento. Come una derivazione dei telefoni bianchi fu il cinema comico gentile e timorato di Erminio Macario, i cui gagmen provenivano dai settimanali umoristici blanda-mente satirici come il “Bertoldo” e il “Marc’Aurelio”, dove figuravano le firme di Fellini, Monicelli, Steno, Scola, Age, Scarpelli, Maccari e tanti altri futuri sceneg-giatori e registi.
Con l’entrata in guerra, la censura si fece meno rigida e permise qualche aper-tura: le commedie popolaresche con Fabrizi e la Magnani e il cinema di guerra semi-documentario di Roberto Rossellini, che furono all’origine del neorealismo perché girate in parte in ambienti reali e narranti una parte di popolo non bor-ghese o piccolo-borbor-ghese, fino a permettere nel 1943, subito prima della caduta del fascismo, un capolavoro come Ossessione di Visconti, i documentari di Anto-nioni, il passaggio di De Sica dalle commedie interpretate e/o dirette a I bambini ci guardano. Nella fase dell’occupazione tedesca del paese, il fascismo tentò lo spostamento della produzione a Venezia, con risultati miserabili, mentre a Roma prendeva lentamente corpo la corrente del neorealismo, con Roma città aperta, Sciuscià e film di minor novità che vennero bensì girati nelle strade e in ambienti di fortuna, col risultato di una vitalità e credibilità inusitate.
Mussolini non era uno sciocco, e da accorto politico aveva saputo fare del cinema una presenza culturale ed economica di grande rilievo nella vita del paese e nella formazione dell’immaginario collettivo, non amando l’insistenza propagandistica nelle storie che il cinema raccontava, riservandola bensì ai do-cumentari d’attualità dei “film Luce”, decisamente ideologici e “pubblicitari” del fascismo. Il cinema che nacque dalle macerie della guerra fu dunque debitore di quello del fascismo, del grande sforzo produttivo degli anni Trenta, delle sue strutture tecniche e organizzative. Il passaggio dal vecchio cinema al nuovo fu sostanzialmente indolore, e dopo i mesi più caldi della guerra (e
dell’occupazio-ne tedesca, che a Roma ebbe una durata molto ma molto minore che al Nord) i vecchi tecnici e registi tornarono rapidamente al lavoro, adattando storie e modi alle esigenze (o meglio, alle carenze) del tempo. Da regista di regime Blasetti si fece cantore della Resistenza in chiave cattolica, e dei sentimenti dell’uomo comune, senza rinunciare a proporre ancora una volta le formule di successo del muto con un super-spettacolo come Fabiola. Camerini si adattò ai nuovi tempi senza però ritrovare la verve e la simpatia del recente passato, e tanto meno l’incisività. E i cineasti che si erano facilmente adattati al fascismo seppero fa-cilmente riciclarsi nel cinema più corrivo, nel mentre che, passando dall’aiuto-regia alla dall’aiuto-regia, si affermarono esordienti di grande talento come Lattuada, De Santis, Germi e più tardi Fellini e Antonioni, con autonomia e originalità. E non furono pochi nel mondo del cinema a sostituire la camicia nera con la rossa. An-che sul fronte della critica, da Luigi Chiarini al più giovane Aristarco.
Più preoccupante fu la continuità sul piano della burocrazia cinematografi-ca statale, degli uffici censura, degli addetti alle scelte finanziarie e al cinematografi-campo della produzione, della distribuzione, del noleggio: gli stessi nomi di prima, con pochissime varianti. Ben diversa fu a paragone la storia del cinema tedesco, sot-toposta a guerra finita a una radicale epurazione ma anche per questo incapace di novità profonde quali quelle proposte dal nostro cinema nel suo adattamento – sincero o astuto che fosse – ai nuovi tempi. Un discorso simile a quanto detto per la Germania si potrebbe fare per il cinema francese, molto più compromesso del nostro con le dirigenze tedesche, poiché l’occupazione straniera era durata in Francia per lunghi anni.
Non vi fu, insomma, nel nostro cinema un’epurazione come quella del cinema tedesco e neanche come quella del cinema francese, per quanto transitoria. Ma va detto che il cinema italiano – i suoi registi, sceneggiatori, produttori, attori – seppe profittare, tutto sommato con partecipazione sincera e con notevole entu-siasmo, a un mutamento politico e sociale portato, a ben vedere, da minoranze:
la generazione politica dell’antifascismo che era stata in esilio o in galera, che il regime aveva perseguitato e che aveva, nel 1943-45, fatto e guidato la Resistenza.
Per almeno trent’anni la novità delle riforme introdotte nel periodo costi-tuente permise, nonostante la guerra fredda e i suoi diktat, nonostante le divisio-ni che essa portava, una straordinaria vitalità positiva alla nostra società e alla nostra cultura. Permise tante cose eccellenti, e anche una grande letteratura e un grande cinema. Quella spinta si esaurì dopo il ‘68, e per il nostro cinema e la nostra società cominciò un periodo di nuove divisioni e contraddizioni, una de-cadenza di cui ancora soffriamo, per quanto riguarda il cinema e purtroppo non solo per quello. La novità più recente è quella di un cinema italiano diviso, come spesso altrove, in un cinema ufficiale e protetto, artisticamente nullo, e in un ci-nema decisamente marginale, spesso vitalissimo, che potremmo anche tornare a definire povero ma bello.
Roma (BraDypUS) 2017