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Automi perfetti in un mondo di fantasm

Copiare il mondo: la simulazione foto-realistica

5.3. Automi perfetti in un mondo di fantasm

Sulle aspettative disattese da Final Fantasy: The Spirits Within (Final

Fantasy, 2001), film tratto dall’omonimo e celebre videogioco, diretto

da Hironobu Sakaguchi, autore del videogioco stesso, alla sua prima esperienza registica, si è detto e scritto molto. Il film esce nelle sale come il primo film che vuole sostituire attori e scenografie con modelli digitali, e come tentativo è molto interessante. Le critiche negative che sono state fatte sulla mancanza di foto-realismo, soprattutto dei per- sonaggi, hanno il loro senso nella misura in cui si pretende da questo film il raggiungimento di quel risultato, invece che una prima ipotesi operativa.

Dal punto di vista percettivo Final Fantasy è un’esperienza spiaz- zante, per la quale lo spettatore deve prendere una decisione: creder- ci, o no. Di nuovo, la questione cruciale risiede nella verosimiglianza degli attori: per gli ambienti oramai il livello di finzione o di artificialità, soprattutto nel genere fantastico, è comunemente accettato dal pub- blico; del resto, si tratta pur sempre di oggetti. Invece per quello che riguarda gli attori bisogna fare uno sforzo in più perché, nonostante l’uso delle motion capture, il labiale perfetto, e la scarsa pelle esibita, che è la superficie più complicata da simulare, si ha la sensazione che questi corpi vengono da lontano. Da una dimensione che non appar- tiene neanche alla finzione del film. Sono leggeri, non posano sul serio sulla superficie, non si toccano veramente, non hanno un peso speci- fico: sono vuoti, impalpabili, fragili, eppure con una superficie precisa, dettagliata; i loro vestiti si piegano in maniera coerente, ma sembrano ospitare una materia vuota, travestita da essere umano.

È proprio la mancanza di realtà a rendere interessante questo film, e a evidenziare l’ambivalenza estetica di cui vive molta della computer grafica foto-realistica. Se a teatro il pubblico deve credere che quegli atto- ri e quella stanza arredata sono veramente delle persone in un luogo, qui deve credere che quelle immagini corrispondono affettivamente a quello

che vorrebbero essere: attori in un ambiente. In un gioco sottile in cui il pubblico sta sulla soglia fra l’immedesimazione e la consapevolezza della finzione. Come i sogni lucidi: quelli in cui siamo consapevoli di sognare.

Cito il teatro e non il cinema per un motivo molto semplice: questi attori digitali non sono la versione artificiale di un corpo vero, ma mario-

nette straordinariamente efficienti. Di nuovo, oggetti animati, che però vivono il loro ambiente spazio-temporale. Torniamo al sogno infantile dei

giocattoli che si animano, e scopriremo cos’è Final Fantasy. Molto meglio di Toy Story. E se c’è un riferimento da fare, in questo caso, alla storia dell’audiovisivo bisogna saltare quel pezzo di storia del cinema d’anima- zione che già aveva sperimentato la tecnica, per riferirsi a quell’isolato e bizzarro esperimento che fu Thunderbird, la serie televisiva di fantascien- za realizzata con modellini e marionette. È il tentativo di far passare un

medium teatrale come possibile strumento di narrazione audiovisiva: un

esperimento che consapevolmente mette in gioco un livello di artificialità evidente, in contrasto con il dettaglio e la cura (foto-realistica) delle sce- nografie, dei vestiti, e degli oggetti messi in campo.

Come il treno di Locomotion, in questo film, a maggior diritto, gli oggetti di forma umana pretendono di avere una vita onirica, e non solo una possibilità di presenza all’interno del loro habitat artificiale. La prima sequenza del film è, infatti, un sogno della protagonista femmi- nile, Aki. Il dettaglio del suo occhio aperto è diretto verso lo spettatore, nonostante specchi il paesaggio montagnoso che è l’ambiente del suo sogno. L’occhio aperto verso di noi è un’immagine quasi archetipica della storia del cinema che rimanda alle origini del suo linguaggio e alle sue avanguardie. L’occhio che guarda, a parte connotarsi come spec- chio della forma dell’obiettivo dello strumento di ripresa e rimandare a un capovolgimento delle regole della finzione, svela il set nel suo riflesso. Ma come le sfere a specchio di Fernand Léger del suo Ballet

mécanique (1924), o gli occhi degli animali di I Do Not Know What It Is I Am Like (1986) di Bill Viola, mostrano l’operatore dietro la macchina

da presa o la telecamera, qui c’è solo l’ambiente. La fonte del punto di vista, la camera, è invisibile, perciò sembra che quell’ambiente sia pro- dotto direttamente da quell’occhio, senza alcun mezzo di riproduzione a frapporsi fra la finzione e lo spettatore; quale realismo maggiore, in un sogno, può esistere oltre a questo?

L’ambiente stesso si presenta come una struttura in metamor- fosi: a un certo punto Aki guarda verso il basso, e laddove avevamo visto un terreno brullo ora vediamo uno specchio d’acqua trasparente. Iperbolico come tutte le inquadrature dell’universo digitale, il punto di vista è sotto la superficie dell’acqua: vediamo Aki dal basso verso l’al- to, anche se in verità la protagonista sembra appoggiata su un sottile

velo trasparente, una lastra di vetro che si finge liquida. In tutto il film non c’è alcun tentativo di diversificare visivamente la dimensione del sogno da quella della veglia: sono effettivamente la stessa cosa. Giusto le inquadrature dell’occhio di Aki che guarda verso di noi, oggetto che produce il mondo e lo osserva allo stesso tempo, aiuta lo spettatore a distinguere i momenti onirici da quelli appartenenti all’azione del film.

Se questi corpi producono sogni, nel mondo della veglia assomi- gliano a fantasmi, creature di cui è pieno il film. Gli alieni sono spettri disperati di una civiltà distrutta e impaurita: Aki stessa, dentro il suo corpo vuoto, contiene un fantasma trattenuto dalla tecnologia mes- sa a punto dal dottor Sid. Curiosamente, il fantasma che Aki ha in- trappolato dentro di sé sembra una citazione delle forme create da William Latham: in un mondo di spettri dall’aspetto molto credibile e che sono visibili come esseri umani viventi, forse conviene dare una forma astratta agli oggetti che recitano la parte dei fantasmi.

I mondi contengono universi, spesso trattenuti da veli sottili e trasparenti: così il campo di forza contiene il fantasma nel corpo di Aki; il mondo degli alieni è trattenuto nei sogni della protagonista, puntual- mente registrati da un computer; la città in cui si svolge l’azione è con- tenuta dentro un enorme campo energetico; lo spirito della terra, Gaia, è trattenuto nel centro del pianeta. Si potrebbe andare avanti quasi all’infinito a evidenziare come il sottotitolo del film, The Spirits Within (Gli spiriti dentro), al di là del riferimento utile alla struttura narrativa, sveli il complicato meccanismo di scatole cinesi messo in atto dalle possibilità della computer grafica. Dentro ogni oggetto che simula la vita, in realtà c’è un fantasma, un’ombra, la traccia di un’idea, il segno dell’immaginazione di chi l’ha costruita. E il risultato di questo processo è talmente fragile da frantumare qualsiasi distinzione fra il reale e la sua rappresentazione, fra il naturale e l’artificiale, fra ciò che è vivo e ciò che è morto, fra ciò che si muove e ciò che è immobile, in una con- tinua osmosi fra dimensioni che si attraversano costantemente.