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Le avventure del gubernaculum

Nel documento Il diritto nell'età dell'informazione (pagine 85-93)

Il riposizionamento tecnologico del diritto

3.1. Le avventure del gubernaculum

È opinione condivisa che gli ordinamenti giuridici d’Occidente, oggi, possano riassumersi con la formula dello stato costituzionale di diritto, o stati liberal- democratici. Se mai, le differenze ruotano tra forme accentrate, regionali o federali di stato, tra forme presidenziali o parlamentari di governo, e via dicendo. Per capire come le forme del gubernaculum siano venute evolvendo nel corso degli ultimi tre secoli, a partire dall’istituzione della monarchia costituzionale britannica, pare dun- que opportuno concentrarsi sulle tre principali variabili del primo osservabile di cui alla figura 14, ossia il liberalismo di John Locke (1632-1704), il contrattualismo de- mocratico di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), e le tesi dei padri fondatori della Repubblica statunitense, tra cui, per le ragioni che diremo, un particolare cenno va sin d’ora a Thomas Jefferson (1743-1826). Iniziamo, di qui, la nostra disamina sulle avventure del gubernaculum, con l’opera di chi è spesso considerato il padre del li- beralismo moderno e delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, vale a dire Locke.

3.1.1. Il giusnaturalismo di Locke

In contrapposizione alla variante assolutistica del contratto sociale di Hobbes, di cui si è già detto (§ 2.1.2.1), Locke ne offre la classica versione liberale nei Due trat-

La distinzione tra queste due versioni del contrattualismo riguarda basicamente come intendere la premessa stessa del discorso, vale a dire lo stato di natura. Come si è già visto, per Hobbes, lo stato di natura rappresenta quella condizione bellica esemplificata dalle guerre civili che, del resto, lo stesso Hobbes ebbe modo di vivere personalmente ai tempi del regno di Carlo I. Per Locke, invece, esistono veri e pro- pri diritti che appartengono allo stato di natura che, poi, corrispondono a quelli ri- vendicati per secoli dai sudditi inglesi contro le pretese assolutistiche dei loro mo- narchi. Questi diritti corrispondono alla vita, alla libertà e agli averi, che Locke rias- sume spesso con una parola sola: “proprietà”. Per questo verso, Locke sembra dun- que rifarsi sia alla tradizione classica del giusnaturalismo, sia all’eredità del common law in tema di iurisdictio. Tuttavia, ci sono due differenze fondamentali.

Da un lato, rispetto al common law, Locke è un filosofo, non un giurista; egli non si accontenta di fondare i diritti dello stato di natura per via consuetudinaria e, cioè, come aveva fatto ancora Edward Coke, adducendo che quei diritti vanno riconosciu- ti come tali perché, in realtà, essi esistono “da sempre”, da tempo immemorabile. D’altro canto, nel fondare su basi razionali, e non storiche, tali diritti, Locke si allon- tana dalle scuole classiche del diritto naturale, perché mira a giustificare tali diritti sulla base di concetti morali creati artificialmente dall’uomo e facendo leva sulla mo- tivazione egoistica che orienta l’agire degli individui. Questa impostazione ha fatto sí che, in Locke, a mala pena convivano i principi epistemologici e giusnaturalistici del- la sua dottrina, tra utilitarismo e leggi naturali di Dio, che tanto cruccio hanno pro- vocato tra gli studiosi e interpreti del suo pensiero. Infatti, rimane altamente proble- matico come “conciliare la sua visione di una società dinamica costituita da individui egoisti, con la dottrina giusnaturalistica classica della convivenza secondo virtù e giu- stizia degli uomini dello Stato […] Come è possibile che i concetti creati artificial- mente dall’uomo colgano la legge di natura non emanata dall’uomo e senza dubbio trascendente la coscienza umana stessa?” (Euchner 1976: 244 e 177).

Ma, anche a lasciar perdere la coerenza filosofica degli assunti di fondo, tra le leggi naturali di Dio e i diritti naturali dell’uomo, occorre porre un’ulteriore do- manda: se gli uomini godono di diritti allo stato di natura, perché mai, proprio co- me Hobbes, è necessario abbandonare tale stato?

La ragione, per Locke, dipende dal fatto che, pur godendo di tali diritti, possono sorgere controversie tra gli uomini circa il “mio” e il “tuo”, per cui il potenziale conflitto che ne discende può essere superato soltanto a una condizione, e cioè che gli individui rinuncino al proprio diritto naturale di farsi giustizia da sé. Mentre, nel caso di Hobbes, il contratto sociale appare come un atto di rinuncia unilaterale in favore del terzo sovrano, nel caso di Locke il contratto sociale consiste in un sinal- lagma, o contratto a prestazioni corrispettive. Gli individui rinunciano al loro diritto di farsi giustizia da sé nel dirimere le proprie controversie, a condizione che tutti i restanti diritti naturali, compendiati nella proprietà, siano garantiti nella istituenda società civile. Ecco perché, a differenza di Hobbes, Locke evita di utilizzare il ter- mine di sovrano, impiegando piuttosto quello di arbitro o di supremazia, per deno- tare il carattere dell’autorità politica; come quando, ad esempio nel § 87 del secon- do trattato, afferma, a proposito dell’istaurazione della società civile, che “la comu- nità diviene arbitra”; o, nel § 157, allorché presenta la costituzione del governo civi- le, o potere legislativo, come la “suprema deliberazione” della società.

Per questo verso, Locke appare dunque precursore delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo e padre del liberalismo moderno, in quanto i diritti degli individui preesi- stono alla istituzione della società civile e, anzi, i poteri di prerogativa del vecchio gu- bernaculum sono limitati dal rispetto e garanzia verso tali diritti. Ma, che dire nel caso dell’abuso di potere, nel caso in cui, cioè, governati e governanti entrino in conflitto?

Manca infatti in Locke ciò che oggi chiameremmo organo di chiusura del sistema, dato che il fondamento della prerogativa del governo è, a suo avviso, “il medesimo potere esecutivo della legge di natura posseduto dagli individui e sul quale si basa in ultima istanza la forza obbligante della stessa legge positiva” (Dunn 1992: 174). In questo gioco di specchi, Locke non si propone di definire ciò che per sua natura ap- pare come indeterminato, vale a dire, con le parole del filosofo, il potere della prero- gativa del governo intesa come “il potere di fare il pubblico bene senza una norma”. Piuttosto, l’idea è di determinare questi poteri in negativo, fissandone i limiti attraver- so una lista di ciò che non si può fare. Alla base del nesso tra governati e governanti, emerge in questo modo una contraddizione di fondo che prende le vesti di un doppio fondamento: il carattere fiduciario della relazione politica si basa sul contratto sociale che, a sua volta, rinvia a un ordine di verità che dovrebbe essere intellegibile per tutti. Mancando, però, un organo della iurisdictio e la procedura con cui far fronte al caso di conflitto tra governati e governanti, si finisce in una diabolica alternativa:

– o l’accento cade sulla fiducia che deve legare chi governa ai governati, per cui diventa legittima qualsiasi distribuzione di potere che gli uomini accettino come tale; ma, allora, non si vede quale sia il ruolo dei diritti inalienabili dello stato di natura;

– oppure, sorge un nuovo diritto, quello di resistenza, come diritto individuale d’iniziativa per fare appello onde restaurare il grado preesistente di legalità. Questa via, che è poi quella seguita da Locke, riporta nondimeno al punto di partenza della riflessione di Hobbes sullo stato di natura. Per venire a capo del problema, la va- riante liberale del contratto sociale si riallaccia di qui al pensiero politico medioeva- le, secondo la conclusione che si ha nel § 241 del secondo trattato di Locke: in bre- ve, sarà soltanto Dio a decidere, in ultima istanza, a quale delle due parti spetti la ragione, concedendone la vittoria sul campo di battaglia.

Gli interpreti di Locke hanno fornito varie ragioni per spiegare questo apparente paradosso che riporta le conclusioni del padre del liberalismo moderno agli appelli alla divinità tipici della cultura medioevale. Si tratterebbe della centralità del motivo religioso lungo tutta la riflessione di Locke e del fatto che non si sia preoccupato, a differenza di Hobbes, di alcun vuoto etico, dato che Locke avrebbe dato piuttosto voce alla speranza e concordia della gloriosa Rivoluzione.

Ma, ai fini della presente indagine, è sufficiente menzionare un elemento crucia- le: avrebbe dovuto trascorrere un intero secolo, dopo i Due trattati sul governo, per avere una più soddisfacente teorizzazione dei poteri della iurisdictio.

3.1.2. La democrazia di Rousseau

Dopo i brevi cenni sul padre fondatore del liberalismo, seguono quelli sul padre indiscusso della democrazia moderna: Jean-Jacques Rousseau. Personaggio complesso e, per molti versi, enigmatico, gli studiosi si dividono ancor oggi su come interpreta-

re la sua opera. A distanza di tanti anni dal Contratto sociale (1762), desta ancor og- gi stupore come un così piccolo libro abbia inciso sulla cultura occidentale, elevan- do a modello ciò che invece, per secoli, era apparsa l’eccezione e, nel migliore dei casi, la forma di stato (e di governo) adatta solo alle repubbliche di ridotte dimen- sioni: la democrazia.

Ancora una volta, come già per Hobbes o Locke, l’intento non è di dar conto in maniera esaustiva di tutti gli aspetti della riflessione di Rousseau: piuttosto, si tratta di metterne in luce quei profili che appaiono tuttora rilevanti per il modello liberal- democratico delle istituzioni odierne. Il punto di partenza è dato dalla nozione di libertà intesa, come già in Hobbes, come capacità di fare tutto ciò che si vuole. Sic- come tutti gli uomini ambiscono a tale identità tra volere e potere, come si può dunque essere liberi, vivendo insieme agli altri? Come evitare il caos? Oppure, per dirla con Rousseau, come “quadrare il cerchio della politica”?

Riprendendo la struttura argomentativa della tradizione, anche Rousseau muove, per risolvere il problema, dalla nozione dello stato di natura. Rispetto ai predecesso- ri, tuttavia, ci sono due sostanziali innovazioni. Da un lato, Rousseau dichiara aper- tamente che lo stato di natura è una mera ipotesi di lavoro, e non una condizione reale in cui mai si sia trovato l’uomo: occorre nondimeno procedere da questa con- venzione se s’intende gettar luce sulla condizione in cui gli uomini versano nel mondo reale, vale a dire il fatto che gli uomini non siano liberi, non potendo per lo più fare ciò che vogliono.

D’altro canto, l’uomo dello stato di natura non è né l’uomo in potenziale guerra di Hobbes, né l’uomo proprietario di Locke, bensì un soggetto unico che, proprio per- ché tale, è assunto come libero, cioè, come dice Rousseau nell’ottavo capitolo del Con-

tratto sociale (ed. 1997: 29), “non ha per limiti che le [sue] sole forze”. Muovendo

pertanto da quest’ipotesi dell’uomo libero allo stato di natura, la nuova finalità che il contratto sociale assume nella versione democratica di Rousseau è di mantenere que- sto stato nel passaggio dalla libertà dell’essere unico nello stato di natura, alla libertà che si dà nel convivere con gli altri nella società civile. Come ciò sia possibile è presto detto: tramite il contratto sociale che ciascuno di noi fa con se stesso. Con le parole del filosofo, “ciò che l’uomo perde col contratto sociale è la sua libertà naturale e il diritto illimitato su tutto quello che lo tenta e che può essere da lui raggiunto; ciò che egli guadagna, è la libertà civile e la proprietà di tutto quello che possiede” (ibidem).

Ma, anche in questo modo, concluso il contratto di ciascuno con se stesso, torna la domanda formulata in precedenza: in che senso potremo rimanere liberi nella so- cietà civile?

Senza entrare nel merito delle differenze, anche fondamentali, che separano la forma di democrazia diretta preconizzata da Rousseau, dalle odierne democrazie di tipo rappresentativo, la risposta passa attraverso il meccanismo procedurale che conduce alla nozione chiave di “volontà generale”. In sostanza, quando giunge il momento delle decisioni da prendere nella società civile, ogni individuo, divenuto cittadino, è chiamato a dare il suo voto in seno all’Assemblea. La legge, che è il ri- sultato di quel voto, non limita pertanto la libertà dei cittadini perché, votandola, essi hanno voluto quella legge e, quindi, quest’ultima non limita ma anzi coincide con il nuovo potere che i cittadini hanno acquisito a séguito del contratto sociale.

di volontà generale che egli propone come fondamento della legge, può infatti in- tendersi in due modi affatto diversi. Per un verso, si legge nel Contratto sociale, “quando si propone una legge nell’assemblea del popolo, ciò che si domanda ai cit- tadini non è precisamente se essi approvino la proposta oppure la respingano, ma se essa è conforme o no alla volontà generale, che è la loro: ciascuno dando il suo voto esprime il suo parere; e dal calcolo dei voti si trae la dichiarazione della volontà ge- nerale” (op. cit., p. 144). Alla luce di questa prima definizione, si può dunque dire che la volontà generale sia il prodotto della somma algebrica dei voti espressi in as- semblea, ossia quanto il 50 più 1% del voto stabilisce. Ma, come la mettiamo con chi non partecipa della maggioranza assembleare, e cioè con chi, votando, rimane in minoranza? In che senso continuerebbe a essere libero?

La risposta di Rousseau è sorprendente: “quando dunque prevale il parere con- trario al mio, ciò non significa altro che mi sono ingannato, e che ciò che credevo essere la volontà generale non era tale” (op. cit., p. 144). Avendo presente le dram- matiche esperienze dei regimi totalitari del secolo scorso che, tra l’altro, hanno visto Hitler giungere democraticamente al potere, non è un caso se numerosi studiosi so- no venuti scorgendo, nel pensiero di Rousseau, non tanto il padre fondatore della democrazia moderna ma, piuttosto, il precursore del totalitarismo del Novecento (Talmon ed. 2000).

D’altro canto, in un altro passo del Contratto sociale, è sempre Rousseau a offrire una definizione alternativa del concetto di volontà generale, allorché non solo am- mette che la maggioranza in assemblea possa sbagliare ma, addirittura, che ciò possa accadere perfino alla volontà di tutti. Con le sue parole, “vi è spesso molta differen- za tra la volontà di tutti e la volontà generale; questa mira soltanto all’interesse co- mune; l’altra all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari: ma togliete da queste volontà il più e il meno che si distruggono a vicenda, resta quale somma delle differenze la volontà generale” (op. cit., p. 42). Anche in questo caso, però, non mancano i problemi: ne segnalo tre.

In primo luogo, se la volontà generale appare la condizione affinché l’assemblea voti politicamente in vista dell’interesse comune, più che il risultato del voto espres- so in assemblea, come sembra del resto suggerire Rousseau attraverso la funzione educatrice della figura mitica del Legislatore, perché mai dare il voto all’assemblea?

In secondo luogo, a conferma di questo dubbio, valga riassumere i tre snodi del discorso in termini matematici:

i) V = P. Questa condizione d’identità tra volere e potere, nei limiti “delle sole forze dell’individuo”, rappresenta l’ipotesi di partenza che viene riassunta con la convenzione dello stato di natura;

ii) V > P. Questa abbiamo visto essere realisticamente la condizione umana: la maggior parte degli individui, infatti, desidera più di quanto non possa nella vita di tutti i giorni;

iii) V = P. Questo è l’obbiettivo che si mira a raggiungere tramite il voto delle leggi nella società civile, quadrando per ciò il cerchio della politica. Ma, come in- tendere il passaggio da (i) a (iii)? Infatti, ci sono due modi opposti per raggiungere il predetto risultato: ora, aumentando il potere; ora, diminuendo le pretese dell’indi- viduo, edulcorandone la volontà. Qual è la democrazia di Rousseau?

In terzo luogo, rimane del tutto insufficiente la trattazione dei poteri della iuri- sdictio, tanto più urgente, quanto più radicale il cambio di gubernaculum proposto. Di nuovo con le parole di Rousseau, “il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutti quelli che sono le sue membra; ed è questo stesso potere che, diretto dalla volontà generale, porta, come ho detto, il nome di sovranità” (op. cit., p. 44).

Quali, dunque, i rimedi per una sovranità popolare cosiffatta?

3.1.3. La costituzione dei moderni

Il terzo elemento che fa emergere l’evoluzione moderna del gubernaculum, dopo Locke e Rousseau, riguarda la nozione di costituzione. Il nuovo significato che il termine assume tra i moderni, rispetto alla tradizione antica e medioevale, può co- gliersi nei seguenti cinque aspetti fondamentali.

In primo luogo, nella maggioranza dei casi la costituzione assume solenne forma scritta, al posto delle consuetudini tramandate da tempo immemore. L’unica ecce- zione di un certo rilievo è data, tuttora, dal sistema costituzionale britannico.

In secondo luogo, la costituzione dei moderni prevede una nuova responsabilità per gli atti di governo, che non soltanto interessa la sfera tradizionale della iurisdic- tio, ma si allarga al campo del gubernaculum. Quest’ultimo riposizionamento pren- de le forme della divisione dei poteri tra gli organi dello stato, come esposto da Locke nei Due trattati sul governo e, soprattutto, da Charles-Louis de Secondat, baro- ne di Montesquieu (1689-1755), nella sua famosa opera Lo spirito delle leggi (1748).

In terzo luogo, la costituzione dei moderni è chiamata a contemperare i principi emersi con la filosofia politica e giuridica di Locke e di Rousseau, vale a dire le va- rianti liberali e democratiche del contrattualismo moderno. Come vedremo, le costi- tuzioni dei moderni sono accompagnate da, o includono, un catalogo dei diritti na- turali dell’uomo o, come diremmo oggi, dei diritti fondamentali costituzionalmente protetti.

In quarto luogo, il riposizionamento del gubernaculum con il riconoscimento dei diritti (naturali, universali, fondamentali, ecc.) del cittadino comporta la trasforma- zione stessa della iurisdictio. Alla tradizionale indipendenza dei giudici nei sistemi di common law, si aggiunge una nuova forma di giustizia costituzionale; prima, ne- gli Stati Uniti d’America e, soltanto molto tempo dopo, in Europa e nel resto del mondo.

Infine, il vincolo di fedeltà e obbedienza che legava i sudditi alla persona politica e fisica del re, che tanti crucci aveva creato ancora a Locke, è sostituito dal vincolo di fedeltà e obbedienza alla Costituzione.

Altro elemento, poi, da avere ben presente riguarda il modo in cui è avvenuta complessivamente questa trasformazione. Più che di un passaggio o uno snodo, si è trattato di un mutamento che il più delle volte ha preso le forme del moto rivolu- zionario. È questo il caso degli Stati Uniti d’America (1776), o della Francia (1789); oppure, si è trattato di un mutamento che è avvenuto a séguito degli effetti catastro- fici di una guerra, come nel caso delle costituzioni tedesche di Weimar (1919) e di Bonn (1949), di quella odierna del Giappone (1946), o dell’Italia (1948).

In questa sede, prenderemo in considerazione il modello emerso negli Stati Uniti d’America sia perché, in fin dei conti, storicamente il primo, sia perché tuttora il più

longevo, sia perché particolarmente istruttivo al fine di cogliere la peculiarità degli odierni assetti istituzionali, nel passaggio dalle tradizionali forme di governo alla go- vernance attuale. A questo punto, è opportuna una breve digressione che ha per oggetto la figura dei Padri fondatori statunitensi: dopo le avventure del gubernacu- lum, questa digressione servirà a introdurre l’analisi sulle sfide della iurisdictio.

3.1.3.1. I Padri fondatori

Li chiamano “padri fondatori” e non, come ad esempio in Italia, “costituenti”, perché, quando avvenne il distacco dalla Madre patria britannica, l’idea dei patrioti non fu quella di ripartire daccapo, ridisegnando da zero le istituzioni, come sarebbe invece accaduto, a parole, con molti rivoluzionari francesi. Piuttosto, secondo un intento romantico che, in realtà, riconduce allo spirito protestante nordamericano, il proposito era di restaurare nel nuovo mondo il buon ordine antico, andato perduto nella corrotta Europa. È per questo che, andando per la prima volta a Washington, rimarreste sorpresi da alcune somiglianze architettoniche con l’antica Roma impe- riale; è per questo che il Senato di quello stato si chiama così, nel ricordo di quello

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