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Il modello di Westfalia

Nel documento Il diritto nell'età dell'informazione (pagine 126-134)

Il riposizionamento tecnologico del diritto

4.2. Il modello di Westfalia

Si riassume spesso con la formula del “modello di Westfalia” il sistema delle fon- ti invalso negli ordinamenti giuridici occidentali per circa tre secoli, vale a dire dal trattato di Westfalia (1648), appunto, fino grosso modo alla fine della seconda guer- ra mondiale (1945). Al pari dell’uso delle metafore, anche i modelli storici vanno però impiegati con un grano di sale, servendo in questo caso a cogliere le discontinui- tà istituzionali, politiche e giuridiche, le quali si danno man mano nel corso dei se- coli, senza per questo pretendere di offrire una piena aderenza tra modello e realtà.

Sul piano teorico, il modello di Westfalia può essere convenientemente illustrato

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con i principi della filosofia giuridica e politica di Hobbes, su cui v. § 2.1.2.1. Ma, nello stesso modo in cui abbiamo visto esserci vere e proprie contraddizioni nel pensiero di Hobbes, così, a proposito del modello di Westfalia, non si vuole certo suggerire né che gli ordinamenti giuridici europei del 1648 fossero già imperniati sui criteri hobbesiani del giuspositivismo e del monopolio delle fonti da parte del so- vrano, né che la crisi del modello tre secoli più tardi abbia fatto svanire all’improv- viso gli assunti di base dello schema. Facendo riferimento al modello di Westfalia, l’idea è piuttosto quella di apprezzare sia il profondo mutamento occorso rispetto al precedente sistema medioevale delle fonti, sia l’odierna posta in gioco con le fonti delle società ICT-dipendenti.

Alla luce del pensiero di Hobbes, vediamo dunque, innanzitutto, cosa cambi tra medioevali e moderni.

4.2.1. Il pluralismo medioevale

È proverbiale l’intricata ragnatela di ordinanze, statuti, carte, leggi, consuetudi- ni, usi, glosse, sentenze e commenti dottrinali che, sui vari fronti del diritto comune della tradizione romana, del diritto locale e canonico, e ai diversi livelli dell’impero, dei re, dei nobili sul proprio territorio, e con le città e i mercanti a difesa delle ri- spettive autonomie, formano il modello medioevale delle fonti. A rigore, è difficile parlare in senso proprio di un sistema ed è significativo che il Lord Cancelliere in- glese, Francis Bacon, proponesse già ai suoi giorni di razionalizzare il diritto del proprio paese con un codice. Ancor più significativo è, poi, il fatto che, una volta estromesso dalla scena politica a séguito del primo processo per impeachment della storia costituzionale moderna (1621), Bacon, ritiratosi nel frattempo a vita privata, amasse trascorrere buona parte del suo tempo in compagnia di un giovane segreta- rio arrivato da Malmesbury, Thomas Hobbes!

L’allievo avrebbe ben presto superato il maestro, quanto meno nel campo della filosofia giuridica e politica: mentre Bacon viene talora celebrato ancora oggi come uno dei padri nobili della scienza naturale e sperimentale moderna, Hobbes, come detto (v. § 2.1), viene spesso ricordato come il padre della scienza giuridica e politi- ca moderna (Bobbio 1989a). È dunque a Hobbes che dobbiamo ricorrere per chia- rire il “modello di Westfalia” e schematizzare, per quanto possibile, il precedente reticolo delle fonti medioevali.

In particolare, i capisaldi della dottrina di Hobbes invitano a riflettere su tre punti principali: il primo concerne la caratteristica pluralità delle fonti in era me- dioevale, in contrasto con il monismo propugnato dal filosofo inglese. Alle tradizio- nali coppie di fonti atto e fonti fatto, legislazione e consuetudini, ossia, nel linguaggio di Hayek, tra taxis e kosmos, va qui aggiunto il “formante dottrinale” (Sacco 2007). A partire dalla riscoperta dei testi giustinianei e l’opera del sommo giurista Irnerio (1050-1125 ca.), con la scuola dei glossatori e, successivamente, dei commentatori, tra cui spicca Bartolo da Sassoferrato (1313-1357), venne formandosi un diritto per via dottrinale che, nell’arco di un paio di secoli, avrebbe posto le basi per quel dirit- to comune, a ispirazione romana, vigente in quasi tutto il continente europeo. All’atto pratico, ciò significa che di tanto in tanto, per dirimere una controversia in Polonia, o in Ungheria, i dottori del luogo si recavano presso una delle prestigiose

università italiane, come Bologna, fondata nel 1188, o Padova (1222), per consultare le glosse d’Irnerio, i commenti di Bartolo, o di Baldo degli Ubaldi (1327-1400). Si è trattato di una gloriosa tradizione che, per molti versi, si sarebbe formalmente spez- zata solo con il codice napoleonico (1804); e che, nondimeno, trova ancora in pieno Ottocento espressione nella maestosa opera di Savigny, il Sistema del diritto romano

attuale, pubblicato in otto volumi tra il 1840 e il ’49. Qui, troviamo la ricordata tesi

che lo spirito del popolo – beninteso, mediato dalla sapienza del giurista – è la fonte per eccellenza del sistema giuridico.

Il secondo punto da rimarcare, riguarda il dualismo costitutivo di gubernaculum e iurisdictio, in opposizione alla sovranità unica e indivisibile che caratterizzerà la teoria dei moderni. Anche a privilegiare, rispetto alla tradizione inglese di Bracton e di Fortescue (v. § 3), quella continentale che fa capo ai glossatori e, in specie, ad Azzone da Bologna (1150-1225 ca.), per cui il monarca che non riconosce superiori nel proprio regno deve essere considerato alla stregua dell’imperatore, rimangono tuttavia evidenti le differenze con la moderna nozione di sovranità “sciolta dalle leggi” (v. § 2.1.2.1). Quest’ultima idea non può che cozzare con l’interpretazione giuridica della politica data dai glossatori, in quanto, se i poteri che la coscienza dell’epoca assegnava all’imperatore dovevano ora essere riconosciuti al re, questi poteri non erano legibus solutus, ma suggeriscono piuttosto un modo nuovo d’inten- dere il rapporto tra diritto comune e diritto proprio sul piano delle fonti. Ricono- sciuta la preminenza del diritto proprio di ciascun ordinamento particolare, il dirit- to comune assumeva, cioè, “una funzione sussidiaria di regolatore e coordinatore supremo” (Calasso 1957: 23). A conferma della tesi, basterebbe far caso alle incer- tezze del primo teorico moderno della sovranità, il giurista francese Jean Bodin (1530-1596): per quanto, ne I Sei Libri dello Stato (1576), egli insista più volte sul- l’“assolutezza” della sovranità, per cui “il punto più alto della maestà sovrana sta nel dar legge ai sudditi in generale e in particolare, senza bisogno del loro consenso” (op. cit., ed. 1964: 374), Bodin si perita pur sempre d’individuare nella legge divina, in quella naturale e nelle altre leggi fondamentali del regno, quali la legge salica, con l’inalienabilità del territorio o l’impossibilità di abolirne gli Stati, altrettanti limiti al potere sovrano (op. cit., 357-368).

Il terzo motivo di differenza tra medioevali e moderni, infine, ha a che fare con la natura personale e fiduciaria delle relazioni giuridiche, basate sullo status indivi- duale, più che sul criterio territoriale sancito dal modello di Westfalia, incardinato sul principio della sovranità degli stati. Rispetto alla istituzionalizzazione moderna delle relazioni giuridiche, con la distinzione tra interno ed esterno, tra diritto nazio- nale e diritto straniero, tipica di Hobbes, salta all’occhio la porosità della distinzione tra diritto proprio e diritto comune nel sistema medioevale delle fonti, a cui va ad aggiungersi l’universalismo del diritto canonico nei suoi controversi rapporti con l’imperatore e i re. Per un verso, il diritto proprio non va inteso necessariamente di- slocato in un dato territorio ma, anzi, può assumere valenza trasversale: come attesta eloquentemente il caso del diritto speciale dei mercanti, o lex mercatoria, il genitivo dell’espressione va declinato in senso soggettivo, non oggettivo, e cioè come diritto che i mercanti, ovunque siano, danno a sé. D’altro canto, per quanto vadano for- giandosi le idee moderne di esterno e interno, con la formazione degli stati nazionali e lo scisma protestante, il sistema medioevale delle fonti in tanto tiene, in quanto

reggono i collanti del diritto comune e un’idea altrettanto condivisa di cristianità. Entrato irreversibilmente in crisi il modello con le guerre di religione – I Sei Libri di Bodin vengono non a caso pubblicati quattro anni dopo la strage di san Bartolo- meo, nel 1572, a Parigi – bisognerà attendere il genio di Hobbes per avere un nuo- vo, compiuto modello, destinato a orientare politici e giuristi per quasi tre secoli.

Proviamo ora a riassumere i punti chiave del pluralismo medioevale emerso con questi cenni, sulla base di uno schema, i cui riquadri (ossia gli osservabili del model- lo) andranno di volta in volta precisati:

Fonti medioevali Diritto Proprio Diritto Comune Diritto Canonico Diritto Regio

Gubernaculum

Iurisdictio Kosmos Scienza Giuridica

Tavola 1: Il pluralismo medioevale

Per quanto abbia cercato di comprimere con le istanze metodologiche illustrate in § 2.1.2, l’informazione necessaria per cogliere la complessità del sistema medioe- vale delle fonti, mi rendo conto della semplificazione di uno schema che, temo, farà storcere la bocca a più di uno storico del diritto. Per esempio, sul piano orizzontale della tavola, può obiettarsi come manchi un riferimento autonomo al diritto impe- riale, qui assorbito sotto quello regio, mentre il diritto dei mercanti viene presenta- to, non senza qualche forzatura, sotto la nozione di diritto proprio. Invece, sul pia- no verticale della tavola, gubernaculum e iurisdictio sono distinti dal kosmos, e non, al modo di Hayek, presentati sotto l’unica etichetta di taxis: mentre, nel corso del capitolo precedente, abbiamo spiegato le ragioni della loro irriducibilità, si potreb- be eccepire che anche la nozione di kosmos andrebbe a sua volta distinta, come mi- nimo, tra consuetudini e autonomia contrattuale delle parti.

Tuttavia, occorre pure avvertire che l’intento dello schema non è di rendere tutta la complessità del sistema medioevale delle fonti; ma, piuttosto, di cominciare a cogliere sin d’ora la distanza che corre tra quest’ultimo sistema e il modello di Westfalia.

Per fortuna, la matematica soccorre al fine di evitare che lo schema appaia come una sorte di “letto di Procuste”, in cui le fondamentali differenze tra, poniamo, di- ritto proprio e diritto dei mercanti, tra diritto imperiale e diritto regio, tra consue- tudini e contratti, siano semplicemente ignorate. Basta considerare i rapporti tra gli osservabili della nostra tavola come un numero “n” di oggetti, con lunghezza “k” presa a coppie “c”, come nello schema, oppure a triple “t”, ecc.; per cui è dato cal- colare le combinazioni semplici C, ossia le variabili del modello, secondo la formula:

Su queste basi elementari6

, s’innesta un duplice accorgimento. Da un lato, oc- corre evitare di enumerare le combinazioni prive di particolare pertinenza giuridica, ossia quelle a coppia. Si pensi ad esempio al rapporto tra gubernaculum e iurisdictio privo di ogni riferimento al diritto proprio o comune, oppure al rapporto tra diritto canonico e regio sganciato da ogni ulteriore richiamo alle fonti del sistema. Di qui, dobbiamo enumerare gli 8 osservabili della tavola 1 a triple, domandandoci che ruolo abbia il gubernaculum tra diritto proprio e comune, quale il nesso tra guber- naculum e iurisdictio nell’ambito del diritto canonico o regio, e così via.

D’altro canto, reso più concreto lo schema su base n=8 e k=3, bisogna eliminare ulteriormente le triple tra gli elementi che compongono gli assi orizzontali e verticali della tavola 1. Sebbene si possa astrattamente considerare ora il rapporto tra diritto proprio, comune e canonico, ora il rapporto tra gubernaculum, iurisdictio e kosmos, e via di questo passo, mancherebbe la concretezza che si dà solo incrociando gli osser- vabili dei due assi. In altri termini, la combinatoria a triple (k=3) riguarda soltanto una coppia per ciascun asse, contestualizzata nel rimando a un osservabile dell’altro.

In ragione di questi accorgimenti, la complessità che discende dagli 8 osservabili del- la tavola 1, da 14 combinazioni a base k=2, passa così a 56 con k=3, che a loro volta di- ventano 48 se eliminiamo le triple interne agli assi verticali e orizzontali della tavola.

Se, poi, accontentando gli esperti di diritto medioevale, si ritiene che, all’interno del kosmos, sia il caso di sottolineare la specificità dei contratti rispetto alle consuetu- dini, passando da 8 a 9 osservabili nello schema, si va da 14 a 18 combinazioni con k=2. Ma, più opportunamente, enumerati con triple, si passa da 56 a (84–14=) 70!

Naturalmente, come riferito più sopra in tema di complessità e teoria delle reti (§ 2.2.2.1), troveremmo anche nel reticolo delle fonti medioevali ciò che Herbert Simon definiva una “struttura gerarchica ben definita”. È la ragione per cui, nei li- bri di storia, ci sono validi motivi che hanno spinto gli studiosi ad attrarre l’atten- zione sul rapporto tra diritto proprio e diritto comune nei termini della scienza giu- ridica, tra gubernaculum e iurisdictio in certi ordinamenti regi, tra diritto regio e diritto canonico nei termini del gubernaculum, e via discorrendo.

Tuttavia, senza dilungarci sulle combinazioni a tre che hanno intrattenuto, nel corso dei secoli, gli storici del diritto, è forse il caso di passare ora allo studio del modello di Westfalia, alla luce di questi elementari calcoli di complessità.

4.2.2. La semplicità di un modello

I principi del modello di Westfalia possono essere desunti, come detto, dalla teoria giuridica e politica di Hobbes: di qui, per ciascuno dei tratti distintivi del si- stema medioevale delle fonti, si assiste a una drastica semplificazione.

In primo luogo, rispetto al precedente pluralismo delle fonti, si passa idealmente a uno stretto monismo, dato che né la giurisprudenza, né le consuetudini, né le opi- nioni della dottrina possono essere considerate legittimi fattori produttivi del siste-

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Per il lettore arrugginito in matematica, ricordo che l’annotazione “n!” significa che, dato un nu- mero “n”, lo stesso va moltiplicato a decrescere, per cui, essendo “n”, poniamo 5, segue che “5!” signi- fichi “5x4x3x2”. Stesso calcolo, va da sé, vale per “(n-k)!”

ma giuridico. Anzi, insiste più volte Hobbes nel corso della sua opera, è proprio questo pluralismo delle fonti a rappresentare una delle principali ragioni che con- ducono gli uomini alla condizione ferina dello stato di natura: più che dalla man- canza di regole, tale stato spesso dipende dal fatto che tutti ritengono di avere ra- gione.

In secondo luogo, rispetto al dualismo tra gubernaculum e iurisdictio, sia pure nelle forme attenuate dei glossatori e commentatori del continente europeo, è un dato di fatto che molti sistemi giuridici abbiano finito per adottare un approccio giuspositivistico e centralista. Ciò significa che l’unico diritto che vale, nella società civile, è quello stabilito dalla volontà del sovrano, secondo una posizione che, già prima di Hobbes, Bodin aveva sostenuto nei Sei Libri: “la sovranità appartiene completamente, senza alcuna spartizione, ai re d’Inghilterra, e gli stati [Parlamento] non vi hanno niente a che vedere” (op. cit., 374).

In terzo luogo, rispetto all’universalismo medioevale, gli ordinamenti si fondano sul principio di territorialità dello stato che definisce la reciproca sfera di non inge- renza. Al monismo interno sul piano delle fonti, corrisponde così un dualismo sul piano di ciò che nel corso dei secoli XVI e XVII, al posto del vecchio diritto comu- ne, sarebbe invalso come diritto pubblico europeo; e che, a partire dall’Ottocento, con il crescente ruolo degli Stati Uniti d’America, si sarebbe cominciato a chiamare con la fortunata formula di Jeremy Bentham (1748-1832), “diritto internazionale”. Al monopolio legale della forza riservato al sovrano sul fronte interno, fa da contro- canto il ruolo dei sovrani come unici soggetti del diritto internazionale. Come leg- giamo nel capitolo diciottesimo del Leviatano, “inerisce alla sovranità il diritto di fare la guerra e la pace con le altre nazioni e gli altri Stati; vale a dire di giudicare sia quando l’uno o l’altra convenga al bene pubblico” (Hobbes ed. 1992: 150).

In ragione di questi tre punti, possiamo ricavare un nuovo schema che esplicita la razionalizzazione del diritto a lungo invocata dai moderni: dalle almeno 56 varia- bili del sistema medioevale delle fonti, si passa infatti a 3 osservabili e 2 sole variabi- li!

Le fonti di Westfalia Diritto Interno Diritto Internazionale Volontà del Sovrano

Tavola 2: Il monismo nelle fonti dei moderni

A ribadire la straordinaria compressione teorica del modello, si tenga presente che lo schema, imperniato sul principio di sovranità degli stati su base territoriale, dà conto sia della versione assolutistica del contratto sociale di Hobbes (§ 2.1.2.1), sia della versione democratica approntata da Rousseau (§ 3.1.2), sia delle letture monistiche della Carta repubblicana italiana ricordate in precedenza (§ 4.1.2). Ne è conferma, d’altro lato, che l’interpretazione “dualistica” del rapporto tra diritto in- terno e diritto internazionale non sia soltanto appannaggio dei “realisti”, in opposi- zione ai “globalisti” (§ 3.3.2); ma, è il modo in cui tuttora la Corte costituzionale ita- liana intende tale rapporto, anche quando il termine di raffronto è il diritto europeo con le sentenze della Corte di giustizia UE.

Inoltre, la compressione teorica del modello non viene meno, neanche nel caso in cui l’ordinamento giuridico considerato, al suo interno, accolga la tradizione dualisti- ca di gubernaculum e iurisdictio. È il caso, emblematico, degli Stati Uniti d’America (§ 3.2); e, in parte, del contratto sociale di Locke (§ 3.1.1). In questo modo, il modello passa da 3 a 4 osservabili, ma con 3 sole variabili!

Le fonti di Westfalia Diritto Interno Diritto Internazionale Gubernaculum

Iurisdictio X

Tavola 3: Il dualismo nelle fonti dei moderni

La ragione per la quale, nella terza tavola, la variabile tra diritto internazionale e iurisdictio è infatti esclusa (“X”), dipende dagli assunti del modello di Westfalia: siccome gli unici soggetti del diritto internazionale sono gli stati sovrani nazionali rappresentati dagli organi di governo, segue che il ruolo della iurisdictio sia limitato al versante interno delle istituzioni. Tanto le difficoltà della Corte permanente di arbitrato internazionale o Tribunale dell’Aia (1899), quanto l’esperienza fallimenta- re della Corte permanente presso la Società delle Nazioni (1919-1922), mostrano in fondo i limiti della iurisdictio all’interno di questo modello. Ciò non ha impedito a uno studioso americano di sostenere, Nei migliori angeli della nostra natura, che il monopolio degli stati sovrani sull’uso legittimo della forza sia da annoverarsi tra i “fattori storici” che “hanno condotto alle multiple diminuzioni della violenza”, ini- bendo l’impulso per la vendetta, disinnescando la tentazione di attacchi profittatori o aggirando faziosità auto-referenziali (Pinker 2012).

Ma, se anche così fosse, rimane il disastro e l’orrore di due conflitti mondiali che, specie a partire dal secondo dopoguerra, avrebbero condotto alla messa in mo- ra di un pilastro del modello di Westfalia, vale a dire il limite posto ai poteri della iurisdictio nel campo del diritto internazionale. A partire dai processi per i crimini di guerra svoltisi a Norimberga (1946-1947), e a Tokyo (1946-1948), si comincerà a sottoporre a giudizio l’operato dei sovrani nazionali, secondo uno sviluppo che, specie dopo la fine della guerra fredda (1989), condurrà al Tribunale per i crimini di guerra nell’ex-Jugoslavia, istituito il 25 maggio 1993 con la risoluzione 827 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al Tribunale di Arusha, in Tanzania, per i crimini commessi nel Ruanda nel 1994, fino al trattato di Roma dell’ottobre 1999 con cui è stata istituita la Corte penale internazionale (ICC), i cui lavori hanno avuto inizio all’Aia il primo luglio 2002.

Non si mira a suggerire in questo modo che il progetto cosmopolitico kantiano ab- bia avuto il sopravvento sul vecchio modello di Westfalia (si v. §§ 1.1.3 e 3.3.2). A ben vedere, è altamente indicativo che, allo stato, le grandi potenze mondiali, vale a dire Sta- ti Uniti d’America, Cina e Russia non abbiano alcuna intenzione di aderire all’ICC.

Piuttosto, si vuole segnalare come la crisi del modello di Westfalia e di un pila- stro del diritto internazionale classico, quale l’immunità riservata ai sovrani naziona- li, sia spia di una storia ancor più complessa e intricata. Basti pensare a quanto detto a proposito del processo d’integrazione europea (§ 3.2.2), per cui il nuovo ruolo

della iurisdictio sul piano del diritto internazionale non si è certo limitato ai pur ri- levantissimi compiti della giustizia penale, ma si è esteso fino al punto di mettere in gioco la sovranità degli stati membri dell’Unione con i problemi della “competenza della competenza”.

Inoltre, tornando agli osservabili e alle variabili del nostro schema (v. Tavola 3), non si tratta soltanto di passare da 3 a 4 variabili del modello; bensì, bisogna recu- perare quelle fonti che si ritenevano estinte con il venir meno del sistema medioeva- le, oppure, dar nome a nuovi tipi di fonti per le quali, come già ai tempi di Ben- tham, si è dovuto ricorrere all’uso di neologismi, come nel caso del “diritto transna- zionale”. Cerchiamo dunque di capire il perché della crisi di un modello.

Nel documento Il diritto nell'età dell'informazione (pagine 126-134)