• Non ci sono risultati.

Il legato di Kelsen

Nel documento Il diritto nell'età dell'informazione (pagine 120-126)

Il riposizionamento tecnologico del diritto

4.1. Il legato di Kelsen

È a Kelsen che dobbiamo l’odierna definizione standard di fonte che gli studiosi, nonostante il dissidio filosofico sull’informazione giuridica come realtà (v. sopra fi- gura 7 in § 2.1.2.2), hanno adottato.

In buona sostanza, i giuristi intendono per fonti del diritto le “meta-norme di pro- duzione normativa dell’ordinamento”, vale a dire le norme che disciplinano le forme attraverso cui si crea, si modifica o si estingue il diritto in un dato sistema giuridico. Per dirla con le parole di un esimio giurista ricordato in precedenza (§ 2.3.1), “le fonti vengono oramai considerate, larghissimamente, quali fattori giuridici dell’ordina- mento, previsti e disciplinati da apposite norme costitutive dell’ordinamento stesso” (Paladin 1996: 17).

Per rendere ora più concreta la definizione e, con questa, il legato di Kelsen, si prenda in considerazione l’esempio di un esame universitario o la multa comminata da un vigile urbano. Si tratta di atti che possono qualificarsi come giuridicamente rilevanti solo a due condizioni:

i) l’atto, che è poi una norma, deve essere posto da chi ne ha la competenza: l’esame che lo studente darà, magari sulla scorta di questo libro, sarà valido se, e so- lo se, il professore che vi farà l’esame ne ha il titolo sulla base dell’incarico ricevuto dal proprio dipartimento e, in certi casi, sulla base di un decreto rettorale. A sua volta, nel caso della multa, questa sarà valida se, e solo se, la persona fisica che vi contesterà una data infrazione ne avrà titolo, sulla base dell’atto con cui è stata no- minata vigile urbano. Ciò spiega perché chi scrive questo libro, e farà magari l’esa- me universitario a qualche lettore, non abbia titolo per contestarvi il fatto che, per sostenere l’esame, avete abbandonato la macchina in divieto di parcheggio. Vicever- sa, il vigile urbano, che starà intanto lasciando il verbale della multa appiccicato sul parabrezza della vostra macchina, non potrebbe tuttavia interrogarvi ai fini dell’esame universitario; e ciò, poniamo, nonostante il vigile sia un brillante cultore di filosofia del diritto!

ii) quella norma particolare, che è poi l’esame universitario o la multa del vigile, sarà d’altro canto valida, solo in ragione di un’ulteriore norma sovraordinata che la dota, appunto, di validità: le norme del codice della strada nel caso della multa del

vigile; oppure, nel caso dell’esame di cui sopra, le norme in materia di organizzazio- ne dell’università. Dal piano amministrativo, si passa di qui, necessariamente, al li- vello gerarchicamente sovraordinato definito dalla legge come fonte del diritto. La legge è infatti fonte perché, nei nostri esempi, è la norma che fissa i modi in cui altre norme, ad essa sottordinate, possono creare, modificare o estinguere il diritto in un ordinamento dato.

Questa doppia condizione, nondimeno, solleva due problemi: l’uno risolto in modo brillante da Hobbes, l’altro destinato ad essere la croce di Kelsen.

Nel primo caso, si tratta del problema della consuetudine, vale a dire di quel fat- to normativo che abbiamo incontrato sopra, a proposito delle forme dell’emergenza (§ 2.2). Assunto a modello il giuspositivismo di Hobbes (§§ 2.1.2.1 e 3.1.1), per cui è soltanto la volontà del sovrano che può assurgere a fonte del diritto, come poteva egli dar conto del sistema del proprio paese, l’Inghilterra, a schietta base consuetu- dinaria?

Con qualche secolo d’anticipo sui cultori del diritto amministrativo, la risposta di Hobbes è data dal “silenzio assenso” del sovrano. Con le parole del Leviatano, “quando una consuetudine che duri da molto tempo acquista l’autorità di legge, non è la lunghezza del tempo che le conferisce autorità, ma la volontà del sovrano manifestata dal silenzio (perché il silenzio è talvolta indice di consenso), ed è legge solo finché dura il silenzio del sovrano su di essa” (Hobbes ed. 1992: 220-221).

Il secondo problema ha invece a che fare con la regressione all’infinito che la doppia condizione di validità, illustrata sopra, innesca. Postulata la legge come fonte di validità delle norme ad essa sottordinate, sorge infatti il problema che anche quella legge, per esser valida, deve essere sottoposta al test della doppia condizione di validità. Per cui, da un lato, una legge è tale soltanto se essa è posta in essere da chi ne ha la competenza; ma, d’altro canto, tale competenza rinvia necessariamente a un livello sovraordinato dell’ordinamento che è, poi, definito dal piano costituzio- nale: nel caso dell’Italia, si tratta dell’articolo 70 e seguenti della Carta repubblicana. Lasciando qui da parte le questioni di merito e, cioè, il sindacato di costituzionalità delle leggi (v. sopra § 3.4.1), sorge tuttavia il problema: a che titolo, a sua volta, la Costituzione è valida?

La risposta di Kelsen è stata di postulare, o presupporre sul piano logico, una norma ulteriore a chiusura del sistema, detta anche Grundnorm o norma fondamen- tale. Di qui, si può dire che la costituzione sia valida e, pertanto, doti di validità le leggi ordinarie che, a loro volta, dotano di validità gli atti e provvedimenti ammini- strativi, se e solo se, con la norma fondamentale, “si postula che ci si debba compor- tare così come hanno ordinato l’individuo o gli individui che hanno dettato la prima costituzione. Questa è la norma fondamentale dell’ordinamento giuridico in consi- derazione” (Kelsen ed. 1959: 116). Con la più sintetica formulazione della Dottrina

pura del diritto, sul piano del disposto della norma fondamentale, “bisogna compor-

tarsi così come prescrive la Costituzione” (Kelsen ed. 1966: 226).

Sul piano logico, Kelsen ritiene così di avere troncato la regressione all’infinito in ragione di una norma che, a differenza di tutte le altre norme dell’ordinamento, a partire dalla costituzione, non è posta, bensì presupposta. Ancora una volta con le sue parole, “la norma fondamentale è la fonte comune della validità di tutte le nor-

me appartenenti allo stesso ordinamento; è il fondamento comune della loro validi- tà. L’appartenenza di una certa norma ad un certo ordinamento riposa sul fatto che il fondamento ultimo della sua validità è la norma fondamentale di questo ordina- mento” (Kelsen ed. 1966: 219).

Su queste basi, torniamo significativamente ai paradossi logico-matematici visti a proposito di Gödel, Turing e Chaitin (v. § 2.1.1). In quella sede, come si ricorderà, il genio di Gödel è consistito nel fatto di tradurre nel linguaggio della meta-mate- matica il classico paradosso del mentitore cretese che afferma di se stesso “io dico il falso”, salvo poi scoprire, sul piano logico, che questa classe di proposizioni non è né vera né falsa. Or bene, allo stesso modo, i cultori della materia si sono peritati di spiegare che anche la costituzione, in quanto fonte delle fonti del sistema, non può essere né valida né invalida, ovvero, essa non solleva problemi di validità giuridica ma, se mai, questioni di legittimità politica (me ne occupo in Pagallo 2002: 42).

Del resto, la conclusione è suffragata da un esperto di paradossi logici, l’illustre filosofo inglese Bertrand Russell (1872-1970). Trentenne, egli spedì una lettera a un altro grande logico, Gottlob Frege (1848-1925), che stava allora ultimando i Principi

di aritmetica (1903), con cui il matematico tedesco sperava di essere finalmente giunto

a una coerente sistemazione della teoria dei numeri in chiave logica che, in retro- spettiva, possiamo ritenere “l’antenata di tutti i linguaggi di programmazione comu- nemente usati al giorno d’oggi” (Davis 2003: 75). Nella lettera del 16 giugno 1902, Russell metteva a soqquadro gli “insiemi di insiemi” di Frege, per via del paradosso sugli insiemi degli insiemi che non appartengono a sé: se, poniamo, il barbiere è co- lui il quale fa la barba a tutti coloro i quali non si fanno la barba in un dato villaggio, chi fa la barba al barbiere?!4

Nei Principia Mathematica che, tra il 1910 e il ’13, Russell venne pubblicando con Alfred N. Whitehead (1861-1947), la soluzione è che “qualsiasi cosa coinvolga tutti i membri di un insieme non può essere un membro dell’insieme” (ed. 1960, vol. I: 37).

Tuttavia, come riferito fin dal primo capitolo (§ 1.1.1), si dà il caso che il diritto sia eminentemente un sapere pratico. Per cui, anche a concedere, come ammetto, per via logica, che si applichi alla costituzione la soluzione di Russell al paradosso del barbiere, rimane nondimeno l’ulteriore problema che, onestamente, anche Kel- sen riconosce: sul piano concreto, la validità della teoria relativa alla norma fonda- mentale ha senso soltanto se riferita ad un ordinamento efficace nelle sue grandi li- nee. Ancora con le parole della Dottrina pura del diritto, “l’efficacia dell’ordinamen- to giuridico come totalità e l’efficacia di una singola norma giuridica sono condizio- ni di validità non meno di quanto lo sia l’atto con cui si statuisce la norma stessa; e l’efficacia è condizione nel senso che un ordinamento giuridico, considerato come totalità, ed una singola norma giuridica non possono più considerarsi validi, quando cessano di essere efficaci” (Kelsen ed. 1966: 241).

Giungiamo per questa via a quel fenomeno d’incompletezza con il quale abbia-

4

Anni addietro uno studente vivace, a lezione, cercò di risolvere il paradosso con l’intervento di una donna barbuta; ma, non è stato sufficiente a salvare il povero barbiere che, se intende farsi la barba, allora non può radersi e, viceversa, se non si rade, allora può farsi la barba.

mo cominciato a misurarci fin dal § 2.1.3 e, poi, in § 2.3.1. In questa sede, si tratta d’integrare la definizione standard di fonte, con le cosiddette fonti extra e contra or-

dinem.

4.1.1. La definizione integrata di fonte

La definizione standard delle fonti del diritto come meta-norme di produzione normativa previste dall’ordinamento, va integrata con tutti quegli atti o fatti che, af- fianco alle fonti formali (extra ordinem), o nonostante queste ultime (contra ordi-

nem), sono in grado di produrre di per sé diritto in un sistema dato. In altri termini,

abbiamo a che fare con un “fatto che per forza propria si traduce in norma” (Pala- din 1996: 19).

Più in particolar modo, possiamo pensare a quattro diverse accezioni:

a) un fatto o atto che, pur difforme dal modello previsto dal sistema legale delle fonti, tuttavia, “realizzi il suo scopo” (Paladin 1996: 447);

b) i tipi di fonte che, non previsti affatto dall’ordinamento, si affiancano di fatto al sistema legale delle fonti;

c) quei fatti o atti che previsti dall’ordinamento, sia pure non alla stregua delle fonti, al pari delle fonti legali producono diritto nel sistema;

d) la “serie di fattori estranei e irriducibili, rispetto a quelli prefigurati dall’ordi- namento già in vigore” (Paladin 1996: 450), che coincidono con le soluzioni di con- tinuità istituzionale, come nel caso delle rivoluzioni (§§ 3.1.1 e 3.1.3.1), che talora si registrano nella vita costituzionale degli stati.

Naturalmente, secondo gli auspici di Livio Paladin, “al fatto che per forza pro- pria si traduce in norma bisogna riconoscere un decisivo rilievo nei soli momenti di crisi radicale degli Stati, cui le forme ordinarie di creazione del diritto non riescano a far fronte. Viceversa, nella quotidiana esperienza degli ordinamenti statali, giudici, operatori giuridici, comuni cittadini e sottoposti in genere si trovano alle prese con le sole fonti legali, istituite e riconosciute come tali dagli ordinamenti stessi; mentre i fattori che tanti giuristi amano più volte definire quali fonti extra ordinem non sono altro che atti o comportamenti illegittimi o illeciti” (op. cit., 19).

Tuttavia, ci siamo soffermati sulla necessità di integrare la definizione standard di fonte con le fonti extra o contra ordinem del diritto, per tre motivi.

Il primo è storico: se, nelle pagine precedenti, si è già fatto cenno alle rivoluzioni inglese, nordamericana e francese, nel corso del presente capitolo dovremo dar con- to di processi di lunga durata, riassumibili nel modello relativo al sistema antico e medioevale delle fonti del diritto, cui ha fatto séguito il paradigma di Westfalia, fino all’odierno stato dell’arte. Va da sé che questi mutamenti sono avvenuti, il più delle volte, tramite fonti contra o, quanto meno, extra ordinem.

Il secondo motivo d’interesse è scientifico: esso dipende non solo da motivi di completezza espositiva, ma dai fenomeni d’incompletezza esaminati in precedenza in termini di complessità teorica (§ 2.1.3).

Il terzo punto è filosofico e riguarda il modo in cui dobbiamo intendere la natu- ra del diritto, stretto tra il principio di validità e l’efficacia di Kelsen. Nei limiti di questo libro, si tratta di capire il nesso tra l’intento regolativo del diritto come meta-

tecnologia (v. § 1.1.3), e l’impatto della rivoluzione tecnologica sul diritto (v. figura 4 in § 1.4).

Ma, prima di procedere con l’analisi su questi tre versanti d’indagine, converrà aprire una breve digressione e concentrarsi su un particolare aspetto dell’odierno si- stema delle fonti che, spesso, risulta ostico ai giuristi della tradizione del diritto con- tinentale europeo: vale a dire, il tema della giurisprudenza come fonte del diritto.

4.1.2. La giurisprudenza come fonte del diritto

Che la giurisprudenza sia fonte del diritto nella tradizione anglo-americana di

common law e, in genere, nei sistemi imperniati sul dualismo di gubernaculum e iu-

risdictio esaminato nel capitolo precedente, è fuori discussione. Se mai, il problema si pone per la tradizione continentale europea di civil law, per la quale si profila il seguente dilemma:

– o, come vuole appunto questa tradizione, la giurisprudenza non è fonte del di- ritto; ma allora, davanti all’evidenza che la giurisprudenza è a tutti gli effetti un fat- tore di produzione normativa dell’ordinamento, bisogna concludere che la stessa è una fonte extra o addirittura contra ordinem;

– oppure, occorre arrendersi all’evidenza e abbracciare la tradizione dualista. Per cogliere ulteriormente i termini del problema, torna utile l’esempio della Co- stituzione italiana, muovendo dal tenore del secondo comma dell’articolo 101 che stabilisce la soggezione dei giudici soltanto nei confronti della legge. L’articolo può essere innanzitutto inteso come corollario del principio di sovranità popolare che deriva, come suol dirsi, dal “combinato disposto” del primo comma dell’articolo 101 con il secondo comma del primo articolo della Carta fondamentale. In nome della sovranità popolare, il popolo esercita infatti detta sovranità ora in forma diret- ta, ora indiretta: nel primo caso, si hanno le procedure referendarie previste dagli articoli 75 e 138, così come l’elezione degli organi legislativi stabilita dagli articoli 56, 58 e 122. L’esercizio indiretto della sovranità, invece, si svolge ora attraverso la legislazione ordinaria e costituzionale del Parlamento ai sensi degli articoli 70 e 138, ora mediante la legislazione regionale di cui al 117, ora tramite il controllo politico che il Parlamento è chiamato a svolgere nei confronti dell’attività del Governo stan- te gli articoli 77 e 94. Sulla base di queste disposizioni, ne consegue che “la magi- stratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” dello stato e “le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso” – come recitano i primi commi degli articoli 104 e 106 – ma proprio perché l’attività dei giudici, chiamati ad applicare la legge cui sono per l’appunto sottoposti ai sensi del 101, viene intesa come scevra da ogni titolo di rappresentanza politica.

Nei decenni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, la dottrina è stata più volte chiamata a precisare il significato delle espressioni letterali che compaiono nel secondo comma dell’articolo 101. La nozione di “legge” è stata così affinata in senso formale, comprendendo sia le leggi ordinarie e costituzionali approvate dal Parlamento, sia i risultati dei referendum popolari e gli atti aventi per l’appunto for- za di legge ai sensi degli articoli 75 e seguenti della Costituzione. Inoltre, gli studiosi hanno molto discusso su chi siano i “giudici” del 101 – distinguendosi tra il profilo

soggettivo del titolo dell’autorità giurisdizionale e l’oggettivo esercizio di questa funzione – giungendo però alla conclusione che tra questi giudici non vadano anno- verati quelli della Consulta. Sebbene, con la ridondanza che deriva dal sistematico accostamento degli articoli 134, 135 e 137, la Corte sia composta da “giudici”, chiamati a “giudicare controversie” tramite “giudizi”, questi giudici non sono ri- conducibili al genere del 101 perché, secondo il tenore del 134, la Consulta, tra le altre cose, è chiamata a giudicare “sulle controversie relative alla legittimità costitu- zionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”.

La conclusione, peraltro condivisibile, ha tuttavia dato origine a un duplice pa- radosso. Il primo riguarda chi, sulla scia di Kelsen, individua nella Corte costituzio- nale l’organo di chiusura del sistema e, nondimeno, anche di fronte alle sue senten- ze erga omnes additive, manipolative o normative, insiste nell’escluderle dal novero delle fonti. Nei confronti di quest’ultima soluzione, si obbietta che essa produrreb- be una forzatura, se non addirittura una vera e propria violazione dello spirito e del- la lettera dell’articolo 136 della Costituzione; ciò che, a sua volta, comporterebbe una modifica tacita della stessa Carta repubblicana. Per tornare alle tesi di Paladin, accreditare l’immagine della Corte come fonte dell’ordinamento, significherebbe in- fatti presentarla come un “colegislatore”, privo di “legittimazione democratica”, “falsando per ciò solo la natura esclusivamente negativa del controllo di costituzio- nalità delle leggi e degli atti equiparati” (Paladin 1996: 457). La difficoltà, in altri termini, può anche assumere la forma dell’interpretazione: “come si può concepire, cioè, che il giudice al quale si affida la chiusura del sistema, sul piano dell’interpre- tazione costituzionale, sia quello che produce – con le sue stesse sentenze – una se- rie di norme incompatibili con la Costituzione?” (op. cit., 458).

Il secondo paradosso va colto sullo sfondo del sindacato di costituzionalità delle leggi e riguarda la funzione della magistratura ordinaria, adempiuta nel nome del popolo sovrano e, come tale, sottoposta all’attività politico-legislativa parlamentare. Alla tesi della giurisprudenza (ordinaria) come fonte del diritto è contrapposta sia la natura politica della legislazione, sia la dottrina della legge come funzione primaria e originaria del sistema giuridico. Dal primo punto di vista, si obbietta che al pari dei giudici costituzionali, i giudici ordinari non sono provvisti del potere d’iniziativa ma, piuttosto, risultano vincolati dai principi del petitum e, quindi, del nec ultra pe-

tita. Dal secondo punto di vista, si rileva che, diversamente da ciò che viene previsto

per le leggi, non solo ricade sui giudici l’obbligo di motivazione dei provvedimenti da loro presi, con la necessità di indicare le norme applicate nel caso considerato; ma, è anche contemplata l’ulteriore possibilità, sancita dal secondo comma dell’arti- colo 111 della Costituzione, di ricorrere innanzi alla Suprema Corte di cassazione per ogni caso di “violazione di legge” da parte dei giudici ordinari e speciali. In che senso, dunque, è lecito parlare della giurisprudenza come fonte del diritto, se non come fonte extra o contra ordinem dell’ordinamento?

In realtà, sebbene quest’ultima tesi goda ancora di grande popolarità in certi ambienti politici italiani, basterebbe far caso ai tre scenari illustrati in precedenza, tra gubernaculum e iurisdictio (v. § 3.4.1), per comprendere come mai, anche nella tradizione continentale di civil law, la giurisprudenza sia fattore di produzione nor- mativa nel sistema giuridico. Lasciando da parte i casi in cui gli organi della iurisdic- tio sono chiamati a sindacare la legittimità delle scelte politiche prese dagli organi

del gubernaculum, si pensi ai problemi che tali scelte politiche, fissate in una legge o in uno statuto, possono lasciare nondimeno aperti, oppure a tutte le controversie in cui il legislatore non ha saputo, o non ha voluto, intervenire. Tra gli innumerevoli esempi possibili, mi limito a ricordare quello della tutela della riservatezza in Italia, dove, per anni, il parlamento si è guardato bene dal legiferare. Siccome, però, i pro- blemi di tutela sono sorti egualmente, si è dovuto colmare questa lacuna secondo i principi ermeneutici suggeriti dall’articolo 12 delle preleggi5

, che autorizza il ricorso all’analogia, salvo in materia penale (articolo 14), nonché ai principi generali del- l’ordinamento, ovviamente declinati in chiave costituzionale.

Così, se in un primo momento, con la sentenza 4487 del 22 ottobre 1956, la Cas- sazione ha negato l’esistenza di un autonomo diritto alla riservatezza, sette anni do- po essa ha cambiato avviso, ammettendo “l’esistenza nel nostro ordinamento di un diritto assoluto di libera determinazione nello svolgimento della personalità, diritto che può ritenersi violato quando si divulgano notizie della vita privata di un sogget-

Nel documento Il diritto nell'età dell'informazione (pagine 120-126)