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L’odierno reticolo istituzionale

Nel documento Il diritto nell'età dell'informazione (pagine 100-120)

Il riposizionamento tecnologico del diritto

3.3. L’odierno reticolo istituzionale

Alla luce delle precedenti osservazioni sul processo d’integrazione europea, pos- siamo far ritorno alla figura 14 con la quale abbiamo aperto il presente capitolo. In- tegrando questa con la figura 5 del capitolo secondo, otteniamo i nuovi osservabili e variabili dell’analisi:

Figura 15: L’odierno reticolo istituzionale

Sul primo fronte della nuova figura, il processo d’integrazione europea ha chiari- to la tensione duale dell’ordinamento tra gubernaculum e iurisdictio. Per un verso, si tratta del percorso caro alle versioni monistiche dell’ordinamento, secondo la di- rezione che va dal gubernaculum alla iurisdictio, vale a dire dalle regole stabilite ora dal potere legislativo ora dall’esecutivo, agli organi della giurisdizione che sono te- nuti ad applicare dette norme in omaggio al principio di legalità e lo stato di diritto. D’altra parte, però, occorre sempre ricordare il movimento inverso che va dalla iuri- sdictio al gubernaculum, sia pure nel rispetto della sfera di discrezionalità che spetta agli organi rappresentativi della sovranità popolare. Tornando alle questioni della “competenza della competenza” emerse nello scorso paragrafo, basti far cenno alla serie di decisioni prese dal Tribunale costituzionale federale tedesco sulla compati- bilità dei trattati europei con i principi irrinunciabili previsti dalla carta fondamen- tale di quello stato membro. Ad esempio, il 12 ottobre 1993, con la sentenza con la

quale la Corte tedesca si pronunciava sulla legittimità costituzionale del Trattato di Maastricht – che prevedeva, tra le altre cose, la rinuncia tedesca alla propria sovra- nità monetaria e, dunque, la sostituzione del marco tedesco con l’istituendo euro – i giudici di Karlsruhe finivano per ammettere la legittimità degli accordi; ma, ecco il punto, sulla base di un nutrito elenco di riserve e condizioni. Con ciò che a buon diritto può essere reso con gergo giuridico italiano come “sentenza monito”, la Cor- te fissava una serie di contro-limiti al processo d’integrazione europea, in ragione del principio democratico e della tutela dei diritti fondamentali garantiti dalla costi- tuzione tedesca, che sarebbero stati in séguito ripresi quasi alla lettera dal Trattato di Amsterdam (sottoscritto da tutti gli stati membri il 2 ottobre 1997, ed entrato in vigore il primo maggio 1999).

Sul secondo fronte della figura 15, il processo d’integrazione europea rende bene il passaggio dalle tradizionali forme di governo all’odierno sistema della governance, dato che gli organi del gubernaculum su scala nazionale sono stati affiancati, inte- grati o, perfino, sostituiti da un più vasto e complesso reticolo istituzionale. La ra- gione più appariscente del processo è certamente sistemica, nel senso che i problemi con i quali sono chiamati a misurarsi gli stati membri sono tali che essi, presi singo- larmente, non sarebbero in grado di affrontarli adeguatamente: è il caso della con- servazione delle risorse biologiche e dell’ambiente, con la tutela dei consumatori nel mercato globale o con la protezione dei dati personali. Tuttavia, la natura di questi problemi non può che riportare al dato informativo sull’identità dell’Unione e al dissidio tra le corti su come intenderne il costrutto. Tralasciando i bizantinismi delle diverse istituzioni, per cui anche al più agguerrito degli studenti di giurisprudenza può sfuggire la sottile differenza, che pur esiste, tra il Consiglio europeo, il Consi- glio dell’Unione europea e il Consiglio d’Europa, è sufficiente ricordare come alla tesi della Corte di Lussemburgo che vede nel diritto europeo un ordinamento di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, si contrappone chi, come la Cor- te di Karlsruhe, ritiene invece che l’Unione “è basata sulle autorizzazioni di Stati che rimangono sovrani, agendo nell’ambito internazionale regolarmente tramite i loro Governi e dirigendo così l’integrazione”.

A questi nodi si aggiungano, inoltre, i mai sopiti problemi relativi al cosiddetto deficit democratico delle istituzioni che hanno, fin qui, trovato un fragile equilibrio nel principio di sussidiarietà. Secondo l’articolo 5.3 del trattato sull’Unione, dopo le modifiche introdotte dal trattato di Lisbona il 13 dicembre 2007, entrato poi in vi- gore il primo dicembre 2009, “in virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente da- gli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione”. In altre parole, l’intervento europeo si legittima sul piano del gubernaculum, più che della iurisdictio, in ragione della ricordata complessità si- stemica di problemi che investono gli stati membri nel loro insieme e, rispetto ai quali, questi ultimi non appaiono all’altezza del compito. Oltre alle competenze esclusive della Unione in materia d’unione doganale, conservazione delle risorse biologiche o alle regole sulla concorrenza necessarie al mercato interno, si pensi, ai sensi dell’articolo 4 del trattato sul funzionamento dell’Unione, alla “competenza

concorrente” riguardo la coesione economica, sociale e territoriale, la pesca e l’agri- coltura, l’ambiente, l’energia o i trasporti. La complessità sistemica che legittima in questi casi il gubernaculum dell’Unione, quando cioè è dimostrabile che gli effetti dell’azione possano “essere conseguiti meglio a livello d’Unione”, suggerisce una competenza tecnocratica fondata sul suo saper fare che, proprio per questo, lascia però irrisolti i nodi dai quali siamo partiti, ossia quelli relativi all’identità del co- strutto e al suo deficit democratico.

Del resto, i problemi non mancano anche per la tradizionale scala nazionale del gubernaculum, diventato spesso, a sua volta, sovradimensionato rispetto alle sfide della società complessa. Il riferimento va alle difficoltà cui, in questo caso, è andato incontro l’apparato amministrativo pubblico degli stati nazionali, secondo una crisi sempre più accentuata a partire dagli anni ottanta del secolo scorso che, non a caso, ha visto l’opacità e proverbiale lentezza degli organi burocratici soppiantata da nuo- ve forme di partenariato pubblico e privato (PPP), con ondate di privatizzazioni, devoluzioni e volontariato che fanno da controcanto ai processi di aggregazione so- vranazionale ricordati in precedenza. Le variabili del secondo osservabile nel pas- saggio dalle tradizionali forme di governo all’odierna governance, ossia i profili del- l’informazione, emergenza del kosmos e complessità sistemica, riappaiono di qui in maniera eguale e contraria a quanto visto in precedenza:

i) dal punto di vista del sistema i problemi sono complessi perché lo investono nel suo insieme, ma questo insieme può essere sottordinato alla scala dello stato. Si- gnificativamente, alcuni ordinamenti, come quello italiano, hanno inserito nella propria carta costituzionale il principio di sussidiarietà ma, appunto, in funzione eguale e contraria al ruolo svolto da tale principio su scala europea;

ii) dalla complessità dei fenomeni possono emergere forme d’ordine spontaneo che garantiscono una maggiore efficienza rispetto all’intervento dello stato: “il pote- re e l’azione dello stato sono ora dispersi in una miriade di reticoli spazialmente e funzionalmente distinti, che consistono di ogni tipo di organizzazioni pubbliche, private e di volontariato” (Bevir 2012: 67);

iii) la formula con cui, più spesso, si riassume questa trasformazione del ruolo e funzioni svolte dallo stato è quella della governance, a suggerire ancora una volta come il tradizionale ambito del governo sia stato affiancato, integrato o, perfino, so- stituito, questa volta “verso il basso”, da un più vasto e complesso reticolo di asso- ciazioni non governative (NGO), partenariati, cooperative, e via discorrendo. Si può ripensare in questo modo al ruolo che lo stato svolge come una meta-gover- nance, nel senso di provvedere al coordinamento di questa stessa governance: “ciò suggerisce che lo stato dipenda in forma crescente dalla negoziazione, diplomazia, e strumenti informali di indirizzo. Lo stato indirizza e regola in forma crescente in- siemi di organizzazioni complesse, di governo locale e reti, piuttosto che fornire di- rettamente i servizi tramite il proprio apparato burocratico” (Bevir 2012: 75).

Tuttavia, riferendoci a questo punto della nostra riflessione alla nozione di go- vernance per indicare tanto i nuovi assetti istituzionali che si dislocano sopra lo sta- to, quanto al suo interno, non corriamo il rischio di svuotare il concetto della sua funzione euristica? Non faremmo la fine occorsa al mitico esploratore scozzese Da- vid Livingstone (1813-1873), per cui, nelle peripezie tra lo Zambesi e il Nilo, il fatto

che egli fosse da qualche parte nel continente africano era un dato assodato; ma do- ve, precisamente, egli fosse rimaneva pur sempre un mistero?

È giunto il tempo per qualche definizione.

3.3.1. I settori della governance

La fortuna conosciuta dal termine “governance” dipende dalla circostanza che designa, indifferentemente, la forma in cui l’interazione sociale è organizzata o si coordina, ora, sul piano politico, tradizionalmente imperniato sul concetto di auto- rità; ora, sul piano economico, fondato sul principio della domanda e dell’offerta con il criterio regolativo dei prezzi in un mercato; ora, sul piano dell’interazione so- ciale, che fa leva invece sui rapporti di fiducia. Da questa versatilità del termine si comprende come esso sia stato impiegato nei più svariati settori della ricerca, per mettere a fuoco sia forme di organizzazione politica come la governance regolativa, partecipativa o collaborativa; sia forme di organizzazione economica come la gover- nance aziendale o d’impresa; sia forme di organizzazione sociale come nel caso della governance non-profit.

L’uso del termine può inoltre servire a illustrare le questioni interdisciplinari di un determinato ambito. Oltre all’esempio della governance europea, sul quale ci sia- mo soffermati nei paragrafi precedenti, si pensi al caso della governance delle tecno- logie dell’informazione, dell’ambiente, o d’internet, su cui avremo peraltro modo di soffermarci nel prosieguo del volume (si v. infatti § 3.4).

Tuttavia, in questa sede, avendo a che fare con l’evoluzione degli ordinamenti giuridici contemporanei, conviene restringere il fuoco dell’analisi e approfondire la nozione dal punto di vista del diritto. A partire dal discorso inaugurale tenuto da Kofi Annan nel luglio 1997, quale nuovo segretario generale dell’ONU, il termine governance è stato al centro del dibattito che si è aperto presso alcune organizza- zioni internazionali, come le stesse Nazioni Unite (ONU), il Fondo Monetario In- ternazionale (FMI) e la Banca Mondiale. Qui, il fine è stato di precisare come gli organi di governo su scala nazionale siano stati accompagnati o, perfino, soppiantati da un più vasto e complesso reticolo istituzionale. Ad esempio, secondo la Banca Mondiale, l’idea di governance concerne “il processo e le istituzioni attraverso le quali le decisioni sono prese e l’autorità viene esercitata in un paese” (in Grindle 2007: 556). Altri fanno riferimento all’“esercizio dell’autorità attraverso tradizioni e istituzioni, sia formali sia informali, volte al bene comune” (Kaufmann 2003: 5). Al- tri ancora, come Hyden, Court e Mease, prestano attenzione alla “formazione e ge- stione delle regole, sia formali sia informali, che disciplinano lo spazio pubblico, ambito entro il quale lo stato, insieme ad altri attori economici e sociali, interagisco- no per prendere decisioni” (in Grindle 2007: 557).

Su queste basi, la nozione è stata ulteriormente raffinata nei termini di “buona governance”. Con la Banca Mondiale, l’accento è stato così posto sulle nozioni di responsabilità e apertura delle istituzioni in tre aree cruciali, riguardanti la “selezio- ne, responsabilità e ricambio delle autorità”, “l’efficienza delle istituzioni, del siste- ma normativo e delle risorse organizzative”, nonché il “rispetto per le istituzioni, le leggi e l’interazione tra gli attori nella società civile, gli affari e la politica” (ibidem). Nel caso di Hyden, Court e Mease, la nozione di buona governance deve invece es-

sere colta lungo sei diverse dimensioni, definite dalla “partecipazione, correttezza, moralità, efficienza, responsabilità e trasparenza”, in ciascuna delle seguenti aree: “società civile, politica, governo, burocrazia, economia e magistratura” (ibidem). A sua volta, per Kaufmann, tali dimensioni hanno piuttosto a che fare con il diritto di “parola e responsabilità esterna, stabilità politica e assenza di violenza, di criminalità e terrorismo, effettività di governo, assenza di gravami regolatori, stato di diritto e controllo della corruzione” (Kaufmann 2003: 5). Queste definizioni tornano in parte con l’FMI: se, da un lato, i due obiettivi della governance dovrebbero essere di “mi- gliorare la gestione delle risorse pubbliche” e “sostenere lo sviluppo e mantenimento di uno stabile e trasparente ambiente economico e regolativo, per contribuire all’efficienza delle attività del settore privato”, la buona governance consiste a sua vol- ta nel garantire “lo stato di diritto, migliorando l’efficienza e responsabilità del settore pubblico, e contrastando la corruzione” (in Grindle 2007: 556).

In ragione di questo quadro generale, non sorprende che alcuni studiosi abbiano criticato la lunghezza dei programmi d’intervento suggeriti dall’ONU, dall’FMI, o dalla Banca Mondiale, al fine di favorire lo sviluppo politico ed economico degli sta- ti in nome della “buona governance”. Piuttosto, bisognerebbe stabilire la lista di problemi che dovrebbero avere la priorità, a seconda del contesto esaminato e le condizioni specifiche di ogni paese (Grindle 2005: 1).

Riprendendo il suggerimento metodologico, quali, dunque, sono le questioni cui occorre assegnare la priorità, per capire i nodi giuridici del passaggio dalle tradizio- nali forme di governo a quelle odierne della governance?

3.3.2. I livelli della governance

La prima e fondamentale distinzione che occorre aver presente, affrontando gli odierni temi della governance e della buona governance, concerne i piani locale e globale della stessa, là dove il tradizionale livello del governo statale, sul doppio fronte del gubernaculum e della iurisdictio, rappresenterebbe lo snodo o collega- mento tra i due piani d’indagine. Sebbene, come detto (v. § 3.3), tanto il livello so- vranazionale quanto quello interno della governance degli stati debbano affrontare le medesime sfide della complessità – nei termini già visti del diritto come informa- zione, come emergenza degli ordini spontanei e secondo la nuova scala, o dimen- sione strutturale o sistemica, dei problemi da affrontare – esiste pur tuttavia una dif- ferenza di fondo.

Sul piano interno alla governance degli stati, la lunga lista degli esperti dell’ONU, dell’FMI o della Banca Mondiale, può essere convenientemente affrontata con il bagaglio dei concetti e criteri messi a punto dalla tradizione filosofica giuridica e po- litica moderna, a proposito delle modalità in cui “le decisioni sono prese e l’autorità viene esercitata in un paese” (Banca Mondiale), sia pure con strumenti informali per l’“esercizio dell’autorità” (Kaufmann), e in rapporto “ad altri attori economici e so- ciali” (Hyden, Court e Mease). Si tratta di un plesso di problemi che, potendo astrattamente fare a meno dei fenomeni di crescente interdipendenza mondiale, so- no intellegibili con le lenti concettuali messe a disposizione dal contrattualismo, dal federalismo, dal costituzionalismo, con lo stato di diritto, la sussidiarietà, e via di- cendo.

È piuttosto sul piano globale della governance che si profilano le difficoltà di af- frontare questi temi nei consueti termini della legittimità democratica delle istitu- zioni, della trasparenza con cui le decisioni sono prese, della responsabilità politica e giuridica dei diversi organi statali e non statali, che si danno in rapporto al ruolo di altri attori economici e sociali. Prova ne sia il dibattito tra “globalisti” e “realisti” sulle sorti dell’ordinamento giuridico internazionale, per cui, da un lato, sulle orme del progetto cosmopolitico di Kant (v. § 1.1.3), messo a punto nel saggio Per la pace

perpetua (1795), è maturata la convinzione che per rispondere alle sfide dell’ordine

mondiale occorra istituire una sorta di costituzione democratica su scala globale, con la quale far fronte allo stato di natura tra stati sovrani preconizzato da Hobbes (v. § 2.1.2.1). Al fine di pensare a “un nuovo ordinamento mondiale di tipo univer- salistico” come quello vagheggiato dal filosofo tedesco Jürgen Habermas (n. 1929), bisognerebbe partire da qui per colmare l’“assenza del terzo” che, a giudizio di Hobbes, segna la differenza tra ordine nazionale e disordine internazionale. Con le parole del filosofo italiano Norberto Bobbio (1909-2004), “il Terzo superiore alle parti per essere efficace senza essere oppressivo deve disporre di un potere demo- cratico, ovvero fondato sul consenso e sul controllo delle stesse parti di cui deve di- rimere il conflitto” (Bobbio 1989: 8-9). Tuttavia, anche ad ammettere che lo spettro della soggettività internazionale sia venuto allargandosi a organizzazioni non gover- native e, in prospettiva, a ogni individuo come cittadino del mondo, rimangono, a dir poco, problemi sia fattuali sia teorici, sul modo d’intendere questo Terzo mon- diale. Lasciando per il momento in sospeso il giudizio sull’odierno stato di salute del diritto internazionale e di organizzazioni come l’ONU, l’FMI o la Banca Mon- diale, a che titolo è lecito proporre su scala planetaria un modello di gubernaculum che, come visto (§ 3.3), non gode di ottima salute nemmeno in casa propria?

D’altro canto, sul fronte dei teorici realisti, è stato a vario titolo contestata la tesi che, in mancanza di un terzo mondiale, segua necessariamente, al modo di Hobbes, lo stato di natura. All’idea di chi continua a vedere nelle norme secondarie o di or- ganizzazione del diritto internazionale una sorta di mera moralità internazionale sot- toposta, peraltro, al proprio interesse vitale (v. ancora § 2.1.2.1), si contrappone la tesi di quanti sostengono che l’interdipendenza sistemica tra singoli stati fa emerge- re una condizione di “governance senza government” (Rosenau e Czempiel 1992), ovvero una sorta di “anarchia cooperativa” tra stati (Bull 1977), oppure un “ordine anarchico” delle relazioni internazionali (Waltz 1987). Anche a concedere ai teorici del realismo l’emersione di queste forme d’ordine spontaneo, tuttavia, sia pure in forma eguale e contraria alle tesi dei globalisti, rimangono una messe di problemi aperti. Come detto a proposito di un cultore degli ordini spontanei come Hayek (v. § 2.2.1), non soltanto questi ordini possono condurre a vicoli ciechi; ma, davanti ad essi, c’è bisogno di un approccio normativo che, nondimeno, nei realisti per lo più manca.

Per chiarire ulteriormente il dilemma tra una teoria senza prassi e una prassi pri- va di vincoli normativi, valga a continuazione l’esempio forse più probante dell’odierna governance, vale a dire quella globale d’internet (§ 3.4). Illustrati i ter- mini della questione con il tradizionale rapporto tra gubernaculum e iurisdictio (§ 3.4.1), nonché con l’odierno reticolo di attori privati e organismi pubblici (§ 3.4.2), l’intento è di mettere in mostra i limiti che affliggono le analisi, sia dei globalisti sia

dei realisti, alla luce dei problemi tuttora aperti nel mondo della rete (§ 3.4.3). Alla prassi più rigogliosa degli ordinamenti giuridici contemporanei farà da controcanto una teoria con tre criteri normativi, e cioè tre modi in cui è dato stabilire ciò che si può o non si deve fare nella governance d’internet.

3.4. La governance di internet

Possiamo riassumere quanto fin qui detto a proposito di tecnologia, complessità e diritto, proprio in relazione al tema del governo della rete.

Rispetto ai motivi del capitolo primo, internet rappresenta infatti, per molti ver- si, l’emblema della rivoluzione tecnologica in corso. La rete (delle reti) costituisce il tessuto nervoso degli odierni sistemi sociali, da cui dipende una parte rilevante dei commerci e il progresso economico, l’istruzione e la comunicazione, la difesa e la sicurezza degli stati, la libertà di parola e la garanzia della privacy personale, fino al banale intrattenimento degli individui. A proposito della quarta rivoluzione, abbia- mo già detto del modo in cui internet possa incidere sui processi cognitivi del diritto (§ 1.4.1), sui suoi istituti (§ 1.4.2), tecniche (§ 1.4.3), e istituzioni (§ 1.4.4), riassu- mendo questi processi con la formula del diritto nell’era delle società ICT-dipen- denti.

Rispetto ai temi del capitolo secondo, internet compendia i tre livelli in cui è da- to osservare la complessità giuridica dell’odierna rivoluzione tecnologica. In primo luogo, internet mette in chiaro i termini del diritto come informazione, là dove ha trasformato vecchi istituti giuridici, come la privacy o la tutela del diritto d’autore, nella questione di come avere a disposizione o tenere sotto controllo il flusso d’in- formazioni in rete. In secondo luogo, internet è il caso più lampante di come emer- gano dalla complessità forme spontanee d’ordine, secondo quanto approfondito nel caso dei “mondi piccoli” della rete (§ 2.2.2.1). In terzo luogo, a proposito dei rischi del sistema, internet spiega perché le nostre società siano propriamente complesse, nel senso che i problemi con cui devono misurarsi investono dette società nel loro insieme (§ 2.3).

Infine, rispetto ai temi del presente capitolo, internet mette bene in mostra il passaggio occorso dalle forme tradizionali di governo ai temi attuali della governan-

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