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I saperi dell’homo technologicus

Nel documento Il diritto nell'età dell'informazione (pagine 38-45)

Il riposizionamento tecnologico del diritto

1.1. I saperi dell’homo technologicus

Si è fatto cenno alla distinzione tra l’impiego della tecnica per il soddisfacimento delle esigenze basilari dell’uomo, quali la propria sopravvivenza sul pianeta, e l’uso della tecnica per la produzione di beni superflui nella “società opulenta” di Platone. La distinzione viene fatta dal filosofo per bocca di Socrate (470-469 – 399 a. C.), nel secondo libro de La Repubblica, nel dialogo con il fratello maggiore di Platone, Glaucone, al fine di “costruire a parole uno stato fin dalla sua origine”1

.

Da un lato, a detta di Socrate, “uno stato nasce perché ciascuno di noi non basta a se stesso, ma ha molti bisogni […] Così, per un certo bisogno ci si vale dell’aiuto di uno, per un altro di quello di un altro: il gran numero di questi bisogni fa riunire in un’unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa coabita- zione abbiamo dato il nome di stato [polis]” (369b5-c5). All’origine delle comunità umane, quindi, troviamo un criterio utilitaristico, fondato sulla divisione del lavoro, per cui “il nucleo essenziale dello stato” consta all’inizio di “quattro o cinque per- sone”, ciascuna delle quali dovrà saper fare, evidentemente, il proprio lavoro. Dal “primo e maggiore bisogno [che] è quello di provvedersi il nutrimento per sussiste- re e vivere”, i personaggi che con la loro tecnica danno vita alla città sono, oltre all’agricoltore, il muratore, il tessitore e il calzolaio, che a loro volta avranno bisogno degli attrezzi per svolgere il proprio lavoro: “ecco dunque che carpentieri, fabbri e molti altri simili artigiani verranno a far parte del nostro staterello e lo renderanno popoloso [e] non sarebbe ancora troppo grande se vi aggiungessimo bovai, pecorai e le altre categorie di pastori” (370d3-e1, p. 78).

D’altro canto, soddisfatti i bisogni elementari dell’uomo e innanzi alla prospetti- va di una vita frugale, spesa tutto il giorno a lavorare duramente sui campi, spetta a Glaucone farsi carico di esprimere i bisogni della società opulenta, alla quale corri- spondono di necessità nuove figure sociali. Al saper fare di agricoltori e muratori, di tessitori e calzolai, dovranno di qui aggiungersi imitatori e valletti, rapsodi e attori, coreuti e impresari, stilisti e servi, pedagoghi, balie e nutrici, acconciatrici, barbieri e cuochi. “Bene, risposi [Socrate], comprendo. A quanto sembra, non vogliamo sol- tanto sapere come nasce uno stato, ma uno stato gonfio di lusso. Forse però non è un male, perché così vedremo probabilmente come nascono negli stati giustizia e ingiustizia” (372d6-e6, p. 80). Infatti, a giudizio di Socrate, la nascita della società opulenta o, se si preferisce, la fine di quella primitiva, comporta inevitabilmente il sorgere del conflitto tra gli uomini, poiché il territorio fin lì sufficiente a nutrire i suoi abitanti, diventerà piccolo e porterà a “prenderci una porzione del territorio dei vicini se vorremo aver terra sufficiente per pascolare e arare” (373d4-e1, p. 81). La conseguenza è che ci sarà bisogno non soltanto di una nuova classe sociale, vale a dire l’esercito con la tecnica dei guerrieri; ma la necessità di saper ora difendersi, ora aggredire, conduce al classico problema di chi debba mai custodire i custodi. “La verità è questa: lo stato in cui chi deve governare non ne ha il minimo desiderio, è per forza amministrato benissimo, senza la più piccola discordia […] Se invece

1

Riprendendo la tr. it. di Franco Sartori (PLATONE, La Repubblica, ed. Laterza, Roma-Bari 2000), i

vanno al potere dei pezzenti, avidi di beni personali e convinti di dover ricavare il loro bene di lì, dal governo, non è possibile una buona amministrazione: perché il governo è oggetto di contesa e una simile guerra civile e intestina rovina con loro tutto il resto dello stato” (520d1-521a10, pp. 235-236).

Possiamo qui interrompere il racconto platonico, al fine di sottolineare come al saper fare delle “quattro o cinque persone” con cui ha avuto inizio la città, subentri, con la politica, un nuovo tipo di sapere. Dal punto di vista di Platone, si tratta di un sapere che appare necessariamente più alto e più nobile, rispetto al saper fare dei ceti produttivi: è l’intelligenza politica dei filosofi-re. Questa distinzione è sostanzialmente mantenuta dal grande allievo di Platone, Aristotele (384-322 a. C.), nel primo libro della Metafisica, in cui si legge che, prima, dovettero costituirsi le arti dirette al soddi- sfacimento dei bisogni vitali e, dopo, “quando già si erano costituite tutte le arti di questo tipo [rivolte all’utile], si passò alla scoperta di quelle scienze che non sono di- rette né al piacere né alle necessità della vita, e ciò avvenne dapprima in quei luoghi in cui gli uomini dapprima furono liberi da occupazioni pratiche. Per questo le arti ma- tematiche si costituirono per la prima volta in Egitto: infatti, là era concessa questa libertà alla casta dei sacerdoti”2

. La sostanziale differenza tra Platone e Aristotele, pertanto, non consiste nell’ammettere la precedenza cronologica del sapere tecnico su quello scientifico e, dal punto di vista valoriale, la superiorità di quest’ultimo sapere su quello tecnico. Piuttosto, la differenza consiste nell’ulteriore distinzione che Aristo- tele delinea tra sapienza e saggezza, tra sapere teoretico e sapere pratico. “Ed è per questo che, come si è detto sopra, chi ha esperienza è ritenuto più sapiente di chi pos- siede soltanto una qualunque conoscenza sensibile: chi ha l’arte più di chi ha espe- rienza, chi dirige più del manovale e le scienze teoretiche più delle pratiche” (Met. 981b30-982a2, p. 7). La figura 1, qui sotto, illustra ciò che un noto storico della filoso- fia ha convenientemente riassunto come “le ragioni di Aristotele” (Berti 1989).

Figura 1: Tra teoria e prassi

2

Sulla scorta della tr. it. di Giovanni Reale (ARISTOTELE, Metafisica, ed. Bompiani, Milano 2000), ancora una volta i rinvii bibliografici nel testo sono quelli tradizionali: in questo caso, il rimando è ARI- STOTELE, Met. A 1, 981b20-25, p. 7.

Ad onor del vero, la novità che Aristotele introduce rispetto a Platone, nel di- stinguere tra sapere teoretico e pratico, poco cambia rispetto al modo in cui è stato tradizionalmente concepito dagli antichi il saper fare dell’uomo tecnologico. Si trat- ta di una conoscenza sostanzialmente subordinata ai parametri epistemici e valoriali messi a punto dai filosofi, per cui il risultato è che, al pari della speculazione di Pla- tone, nemmeno quella aristotelica aiuterebbe in molto a capire l’impatto della tecni- ca sul diritto. Non è certo questa la tradizione filosofica cui rivolgersi per avere chiarimenti in merito! Tuttavia, soffermiamo l’attenzione sulla tripartizione aristote- lica di teoretica, pratica e poietica, perché essa aiuta a chiarire preliminarmente l’oggetto di questo impatto, e cioè, appunto, il diritto stesso.

Di qui, ci concentreremo a continuazione sul significato della tripartizione ari- stotelica, al fine di cominciare ad avere dimestichezza con i termini della figura 1 (v. § 1.1.1). Dopo di che (§ 1.1.2), occorrerà una breve digressione metodologica sul “livello di astrazione” che intendiamo assumere rispetto ai termini della figura, vale a dire, il diritto come meta-tecnologia (§ 1.1.3). Su queste basi, potremo tornare al problema di quale impatto mai la tecnologia possa avere sul diritto, pace Platone e Aristotele, a detta degli esponenti del tecno-determinismo (§ 1.2).

1.1.1. Teoresi, prassi e poiesi

La distinzione che Aristotele coglie tra teoretica, pratica e poietica, ha a che fare tanto con la differenza d’oggetto di studio quanto con la finalità del sapere. Seguen- do l’ordine cronologico messo in rilievo nel paragrafo precedente, si può dire che, per quanto concerne la razionalità poietica, essa consista nel saper fare, o produrre, qualcosa, sia ai fini essenziali, o del soddisfacimento dei bisogni vitali, della società primitiva, sia ai fini superflui o del lusso della società opulenta. Nel caso della ra- gion pratica, essa ha come oggetto le azioni umane e, più in particolare, secondo l’espressione dell’Etica Nicomachea, “le azioni belle e giuste” (op. cit., 1094b11): si tratta di un sapere che non è fine a sé ma, bensì, un sapere per fare, come mezzo per l’azione. Infine, quanto alle scienze teoretiche, esse hanno come oggetto la matema- tica, la fisica e la teologia, per cui il fine è il sapere per il sapere, la verità fine a se stessa. Con le parole del filosofo, “è anche giusto denominare la filosofia scienza della verità, perché il fine della scienza teoretica è la verità, mentre il fine della pra- tica è l’azione. (Infatti, coloro che hanno per fine l’azione, anche se osservano come stanno le cose, non tendono alla conoscenza di ciò che è eterno ma solo di ciò che è relativo ad una determinata circostanza e in un determinato momento)” (Met. II, 993b24-26).

Naturalmente, per quanto concerne le scienze teoretiche, a detta di Aristotele, bisognerebbe distinguere ulteriormente tra il rigore dimostrativo della matematica, basato sul metodo apodittico, e il metodo dialettico della fisica (e della metafisica). Senza fare per questo di Aristotele un precursore del probabilismo moderno, le prove della fisica, al contrario della matematica, suggeriscono un parallelismo me- todologico tra fisica e scienze pratiche, dato che le dimostrazioni della fisica, al con- trario della matematica, valgono “per lo più” e non “sempre”. A giudizio di Aristo- tele, qui in diretta polemica con Platone, “è proprio dell’uomo colto, infatti, richie- dere in ciascun campo tanta precisione quanta ne permette la natura dell’oggetto,

giacché è manifesto che sarebbe pressappoco la stessa cosa accettare che un mate- matico faccia dei ragionamenti solo probabili e richiedere dimostrazioni da un ora- tore” (Aristotele ed. 2000: 53).

Lo stesso accorgimento metodologico, nondimeno, vale anche per lo studio delle azioni umane, in quanto, come attesta il caso dell’etica e della politica, la filosofia pratica, o scienza politica, è pur sempre una scienza. Bisogna per ciò distinguere la capacità di cogliere i principi della scienza nella particolarità dell’esperienza, dalla capacità di dimostrare ciò che è per lo più nelle faccende umane: una cosa, infatti, è la saggezza dell’uomo politico, ben esemplificata dalla phrónesis di Pericle, per cui l’intuizione gioca un ruolo determinante per sapere individuare ciò che è opportuno in determinate situazioni e, soprattutto, al fine di scegliere i mezzi attraverso i quali raggiungere i fini della buona politica. Altra cosa, però, è l’indagine della scienza politica vera e propria, o epistème, illustrata dall’insegnamento di Socrate, che si av- vale della dialettica come metodo dimostrativo per la confutazione delle tesi tra loro contrapposte e assunte all’interno della totalità delle opinioni possibili (Aristotele ed. 2000: 237 e 251). Da quest’ultimo punto di vista, ne consegue che le rigide di- stinzioni dei saperi, come tratteggiate sopra nella figura 1, vanno in realtà relativiz- zate sia “verso l’alto”, sia “verso il basso”.

Verso l’alto perché, nonostante la differenza d’oggetto – il mondo della necessità nel caso delle scienze teoretiche, il mondo della libertà nel caso delle scienze prati- che – le virtù dianoetiche del sapere epistemico, o scientifico, accomunano il sapere pratico a quello teoretico. Questo è un punto su cui, tra i tanti, ha insistito con par- ticolare rigore il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer (1900-2002), quando sotto- linea le “implicazioni ontologiche” della filosofia pratica aristotelica, specie per quanto riguarda il suo punto di orientamento ultimo, “il modello dell’imperituro”. Sebbene la distinzione che Aristotele delinea tra teoresi e pratica sia “manifestamen- te la conseguenza della sua critica dell’idea platonica di bene […] Aristotele può ripetere autentiche formulazioni platoniche quando cerca di descrivere la confor- mazione dell’uomo al Divino. Di lui non si può dire quello che Hegel ha preteso per se stesso”, e cioè di superare l’aspirazione al sapere, o filo-sofia, nella sapienza stessa (Gadamer 1984: 257 e 260).

D’altra parte, la separazione dei saperi è relativizzata anche verso il basso, e cioè per quanto attiene al mondo della libertà, per un duplice ordine di motivi. Il primo riguarda le evidenti affinità tra la phrónesis, o saggezza, dello statista e l’epistème, o scienza, del filosofo, sia per la compenetrazione delle istanze pratiche e conoscitive nell’ambito della politica, sia perché in entrambi i casi è richiesta una certa espe- rienza di vita al politico e al filosofo. In secondo luogo, malgrado la differenza d’og- getto tra il mondo morale di cui si occupano i filosofi, e la sfera delle arti e della produzione, tanto le scienze pratiche quanto le scienze poietiche sono per l’appunto scienze relative al mondo della libertà. Inoltre, secondo l’annotazione della Metafisi-

ca (981b24-25), basti pensare che nessun uomo potrebbe aspirare a diventare saggio

in uno stato corrotto: anzi, chi si occupa di politica e di etica non è mai disinteressa- to poiché, per dirla con il filosofo francese Eric Weil (1904-1977), “colui che parla di morale non fa un corso teorico, ma si sforza di rendere migliori i suoi concittadi- ni” (Weil 1990: 38).

al problema sollevato all’inizio di questo capitolo, e chiederci: quale, dunque, il ruo- lo del diritto? Quale il rapporto tra le istanze teoretiche, pratiche e tecniche della sfera giuridica? Più in particolar modo, quale il nesso tra i profili tecnici del diritto e le sfide poste dall’ambito della produzione sociale? Avendo a che fare con il fine di disciplinare tali sfide che provengono, per così dire, dal basso dell’esperienza, e te- nendo del pari presente l’apertura verso l’alto delle istanze metafisiche, dobbiamo forse concludere che il diritto sia veramente una meta-tecnica, o una meta-fisica?

1.1.2. Livelli di astrazione

Dai tempi di Platone e Aristotele, i filosofi discutono e si dividono sia sul concet- to del diritto, sia sui fini e modi in cui esso debba essere convenientemente rappre- sentato. Sul fronte del concetto, per esempio, ci sono gli esponenti del positivismo giuridico che, in estrema sintesi, ritengono che diritto sia soltanto quello posto in essere dagli organi dell’autorità costituita in un dato territorio; vale a dire, in era moderna, lo stato sovrano nazionale. A questi si contrappongono i sostenitori, anti- chi e moderni, della scuola del diritto naturale che ritengono vi sia un parametro di razionalità, dato dalle leggi o diritto di natura, sulla cui base giudicare della legitti- mità del diritto positivo. Poi, ci sono i teorici del realismo che insistono sui rapporti di forza, politici o economici, all’interno della società, come anche i teorici dell’isti- tuzionalismo che fanno leva sulla continuità e peculiarità storica delle organizzazio- ni sociali, e via dicendo.

Sul fronte dei fini, le cose non vanno tanto meglio: a chi, come spesso accade con i teorici del giusnaturalismo, ritiene che il diritto sia uno strumento di comuni- cazione tra i soggetti, vanno contrapposti coloro i quali vedono nel diritto un mezzo di controllo sociale. Non mancano quindi i sostenitori della tesi intermedia, che as- sume il diritto sia come un medium della comunicazione intersoggettiva, sia come una tecnica del controllo sociale, magari specificando quest’ultimo scopo, ora con il fine di fare coesistere gli arbitri degli individui, ora con quello di far prevalere gli interessi di una classe sociale o, più semplicemente, come voleva il sofista Trasimaco nel ricordato dialogo platonico su La Repubblica, l’“utile del più forte”.

Il lettore (e lo studente) non disperi: non è mia intenzione aggiungere alla lunga lista, una nuova versione di ciò che il diritto è o come esso debba essere, magari sul- la scorta delle indicazioni aristoteliche riportate in precedenza. Piuttosto, l’intento è di individuare il livello di analisi adeguato a cogliere il rapporto tra fenomeno giuri- dico e progresso tecnologico.

Una breve digressione metodologica s’impone a questo punto della trattazione, per cogliere le ragioni di una prospettiva, quella del diritto come meta-tecnologia, che sarà resa esplicita nel prossimo paragrafo. In particolare, vale la pena di soffer- marsi sulle riflessioni che Luciano Floridi, dal 2013 professore di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford, ha svolto proprio su questa collana, Di-

gitalica, a proposito “del metodo dei livelli di astrazione” o LdA (Floridi 2009). In

sostanza, occorre scegliere il punto di vista, dal quale s’intende descrivere, esamina- re e sottoporre le proprie argomentazioni attorno a un dato oggetto di studio. Prima ancora del concetto e fini del diritto, si pensi, ad esempio, al caso in cui si abbia a che fare con uno dei robot domestici che illustreremo nel capitolo nono (v. § 9.4.2).

Nel caso in cui, sfortunatamente, l’applicazione presenti qualche problema di fun- zionamento, è probabile che l’attenzione vada rivolta ora alle proprietà fisiche dell’artefatto, ora al suo design, poiché è ragionevole assumere che il robot sia stato prodotto al fine di compiere determinate operazioni e, dunque, si comporti conse- guentemente. Trattandosi più spesso di “macchine intelligenti”, e cioè di macchine in grado di apprendere dagli stimoli provenienti dall’ambiente che li circonda e dal- la propria esperienza, è tuttavia probabile che in più occasioni entreranno in gioco le credenze e i desideri di un agente artificiale che si comporta al fine di raggiungere un determinato obiettivo (si v. Dennett 1987: 17). A seconda, perciò, del motivo per cui abbiamo a che fare con il robot domestico – ma, se per questo, con un animale o un essere umano – muta il plesso di proprietà, caratteristiche o peculiarità che sa- ranno ritenute rilevanti.

Formalizzando, il livello di astrazione prescelto può dunque essere inteso come l’interfaccia che rende possibile l’analisi del sistema, mediante l’individuazione dei suoi “osservabili”, vale a dire le proprietà, caratteristiche o peculiarità rilevanti a quel dato livello di astrazione. Naturalmente, tali osservabili potranno essere ulte- riormente raffinati tramite le “variabili”. Il risultato consiste in un modello per quel determinato settore: la figura 2 illustra questa metodologia.

Figura 2: Livelli d’astrazione

Si tratta ora di comprendere come operi questo metodo nel campo del diritto e, in particolare, al livello definito dal diritto come meta-tecnologia.

1.1.3. Il diritto come meta-tecnologia

Si è fatto cenno nel paragrafo precedente, al fatto che non siano mancate le in- terpretazioni del diritto che lo intendono, ora, come tecnica volta a perseguire il fine della coesistenza degli arbitri individuali, ora, quello del controllo sociale. La prima chiave di lettura la si deve al filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804); la secon- da al giurista viennese e teorico neo-kantiano Hans Kelsen (1881-1973). Particolare rilevanza assume, in entrambi i casi, il ruolo della sanzione o momento coattivo del diritto. Nel caso del giusnaturalismo kantiano, la sanzione chiarisce il passaggio dal

diritto privato dello stato di natura al diritto pubblico dello stato civile, rendendo perentorio lo stato giuridico provvisorio delle regole presenti in natura. Nel caso del giuspositivismo kelseniano, invece, la sanzione distingue il diritto da altre forme di ordinamento sociale, secondo la formula “se A, allora B”. Nella prospettiva della

Teoria generale del diritto e dello stato (Kelsen 1959), il diritto è infatti una tecnica

del controllo sociale, le cui regole (“A”) si attuano mediante la minaccia di misure coercitive (“B”).

Come già riferito, non preme in questa sede entrare nel merito di queste o altre definizioni sull’essenza del fenomeno giuridico: in fondo, avremo modo di vedere come, oltre alle tradizionali forme coattive o sanzionatorie del diritto, gli odierni si- stemi giuridici prevedano forme autoritative d’intervento che, nel gergo inglese, vengono chiamate soft law. Basti accennare per ora ai codici di auto-regolamenta- zione e alle opinioni o raccomandazioni delle autorità indipendenti nel campo della protezione dei dati personali.

Lasciando dunque da parte le diatribe filosofiche, occorre piuttosto precisare il livello di astrazione che connota il presente volume. Da un lato, l’attenzione va ri- volta allo studio sistematico delle tecniche di cui si avvalgono gli ordinamenti giuri- dici, al fine di disciplinare un determinato settore, come nel caso delle tecnologie dell’informazione e comunicazione (ICT), della robotica, ecc. Da questo primo punto di vista, avendo come oggetto della propria disciplina la tecnologia, l’indagi- ne sulle tecniche di cui si avvale il diritto, può pertanto essere convenientemente riassunta all’insegna del diritto come un saper fare “meta-tecnologico”. Nonostante le assonanze aristoteliche della tesi, nella duplice apertura verso l’alto (meta-fisica), e verso il basso (meta-poietica), dello studio delle azioni umane, il livello di astra-

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