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2 2.1.2 L’azzardo più grande: la morte

Nel documento Marco Aurelio: filosofia e potere (pagine 54-58)

Vediamo ora le estreme conseguenze del rapporto con l’altro in Marco Aurelio, ovvero cosa implica la vicinanza altrui e quindi la possibilità della morte che essa comporta. Ma procediamo con ordine.

Quanto questo problema sia profondamente sentito nei Pensieri lo indica l’apertura del II libro, da considerarsi il vero inizio dell’opera (il primo consiste infatti più che altro in dediche e ringraziamenti da parte dell’autore a chi lo ha ispirato nella composizione): si tratta dell’esame di coscienza mattutino, il cui motivo ricorrente non è tanto il futuro, quanto gli altri, ciascuno con le sue

102 Cfr. Farquharson [1975], cap VIII, p. 130. Il corsivo è mio; ritengo che l’espressione vain show sia

una delle espressioni più efficaci utilizzate da Farquharson per indicare la concezione della vanità (typhos) secondo l’imperatore filosofo (si cfr. in proposito Marco Aurelio [2008], 6.13, pp. 241-243 e Hadot [2006], cap. IV, § 1, p. 59). In toni molto simili ne tratta a mio parere anche Salvatore Natoli, discorrendo della natura del dolore (“il dolore è un’esperienza intensa [...] spettacolo del mondo come desolazione e perciò come destino di morte. Da qui l’angustia [...] come senso dell’effimero, angoscia per l’incombente vanità del tutto”) in Natoli [1986], cap. 1, § 4, p. 31, così come afferma Julia Annas, riferendosi ad alcuni passi dei Pensieri (cfr. Marco Aurelio [2008], 9.28 e 9.39), a proposito della Provvidenza e degli atomi: “In many ways these thoughts can be seen as a natural extension of his frequent feeling of isolation in a changing and ephemeral world”, in Annas [2004], § VIII, p. 112.

mancanze104. Le azioni che mi appartengono le recupero infatti tramite l’altro, interponendo quella distanza che mi permette di riprendere, attraverso la mia razionalità, quella sicurezza verso di loro che l’incontro stesso rendeva precaria. Il ritorno alla dimensione altrui è dunque mediata dalla consapevolezza di partecipare ad una razionalità collettiva, non più solamente individuale: “Il comune (to koinon) e il proprio (to idion) sono i due poli distinti che determinano la tensione vitale alla conoscenza e all’azione, entrambi perfettamente in sintonia con la ragione [logos] che nella natura [physis] si esprime”105.

Nella nostra vicinanza condivisa con l’altro, in tale stretto contatto che investe la nostra esistenza, possiamo senza dubbio apprezzare le virtù di coloro che ci stanno accanto106, cosa che ci deve sicuramente rallegrare, poiché vanno ad accrescere la nostra esperienza interiore; ma, inversamente a tale movimento di avvicinamento, si colloca il momento di allontanamento e di repulsione107, col quale si viene a constatare quanto gli altri siano difficilmente sopportabili. Tale motivo risulta infatti strettamente connesso col motivo dell’allontanamento insito nella morte.

In primo luogo, secondo l’imperatore filosofo il tema della morte ha dei risvolti decisamente positivi: certo, essa può giungere in qualunque momento, ma proprio per questo non si può prendere con superficialità nemmeno un solo istante della propria vita108. In secondo luogo, la morte appartiene anch’essa all’ordine prestabilito del logos universale, per cui “non disprezzare la morte, ma accoglila di buon grado perché anch’essa è un ente, tra quelli che natura vuole”.109

104 Cfr. Marco Aurelio [2008], 2.1, p. 145.

105 Cfr. Maso [2012], cap. 5, § 5.6, p. 200. In proposito si cfr. anche Marco Aurelio [2008], 5.3, p. 213:

“Compi il tuo cammino per la strada diritta, in conformità con la natura tua propria (tê phusei tê idia) e con quella comune (tê koinê): una sola strada è di entrambe”.

106 Cfr. Marco Aurelio [2008], 6.48, p. 263. 107 Ivi, 5.10, p. 221.

108 Ivi, 2.5, pp. 147-149: “ [...] affronterai ogni azione come se fosse l’ultima della tua vita...”. 109 Ivi, 9.3, p.333.

Infine se crediamo, secondo Marco Aurelio e gli stoici, che l’unico bene sia l’intenzione totalmente pura e disinteressata, allora non c’è tempo da perdere. Ora o mai più, il pensiero della morte (naturale o per mano altrui) incorona la vita ed ogni suo istante di una maestosità ed un valore infinito, ridefinendone completamente il senso110. Cosa comporta ciò di conseguenza? In questo modo tutti gli eventi si parificano dinanzi all’unico fronte della morte, quindi compresi gli altri che ci lodano, ci calunniano o ci condannano: anch’essi sono destinati a scomparire insieme a noi111. A tal proposito Salvatore Natoli ci ricorda, riguardo al tema della sofferenza come anticipatrice di morte nell’esistenza umana, che “il dolore dei singoli non può essere separato dal dolore di tutti, dal dolore del mondo”, così come il fatto che “la maschera dolorosa, nella sua oggettività, implica tutti poiché li coinvolge in un vissuto di memoria e di attese comuni”. Inoltre, continua Natoli, “nel dolore non si è sostituibili perché il dolore è un’anticipazione di morte”, è esattamente “il luogo proprio entro cui si annida e matura il sentimento dell’angoscia come

preoccupazione dell’universale”112. Questa riflessione sul fato comune, anticipazione di un letto di morte che non esclude nessuno, annulla l’opposizione tra me e l’altro, parificandoci ad un piano in cui si può finalmente parlare di ‘entrambi’; le sue meschinità e la vacuità del mio desiderio di compiacerlo saranno rapidamente inghiottite dall’eternità dei secoli113. Ben presto saremo io e lui accomunati nella morte: “foglie che il vento getta a terra, così la stirpe degli uomini”114. Pur nella sua terribile semplicità, “è pur sempre un meccanismo di difesa [...]: l’opposizione tra uomo e uomo svanisce nella consapevolezza che presto entrambi saremo morti e non resterà a lungo neppure il nostro nome”115.

110 Cfr. Hadot [2006], cap. VII, § 2, p. 129. 111 Cfr Marco Aurelio [2008], 10.34, p. 377.

112 Cfr. Natoli [1986], cap. 1, § 1, p. 11; § 2, p. 13, 17; § 3, p. 25.

113 Cfr Marco Aurelio [2008], 11.18, pp. 395-399 sul letto di morte; 7.22, p. 277, sull’entrambi; 6.59,

p. 267, sul tempo eterno.

114 Cfr Marco Aurelio [2008], 10.34, p. 377.

La morte non ha dunque alcun potere sull’uomo, non c’è nessun motivo di temerla, perché chiunque vive con tutto il suo Essere nel presente non può realmente esser privato di ciò che gli appartiene. Quindi la dimensione del rischio scompare? No, l’oscillazione di fondo resta sempre costante: la sfida rimane proprio nel saper evitare di vivere come coloro che hanno paura di morire, che vorrebbero approfittare per sempre dei piaceri della vita, senza comprenderne la dimensione effimera e limitata. In questa visione Marco Aurelio ci invita perciò a sbarazzarci dei falsi valori davanti all’equità del giudizio della morte, dunque ad una compiuta risolutezza dinanzi al pericolo di sprecare la propria esistenza116.

Di conseguenza dobbiamo essere capaci di “ammaestrare” gli altri, senza lasciarci trascinare dalle emozioni, facendo attenzione che il nostro agire (da noi ritenuto giusto) non riscontri impedimenti. Se l’altro non si dimostra bendisposto all’ammaestramento, come l’abbiamo definito sopra, allora possiamo solo isolarlo, non tiranneggiarlo. Se questi ci si rivolta contro, possiamo sempre difenderci tramite la nostra stessa diversità, accentuandola ai massimi livelli. “Allora si accetta il

rischio: se non ti sopportano, ti uccidano”117. Vivere assieme agli altri può cioè diventare “stanchezza della disarmonia, pericolo continuo di dimenticanza di noi stessi che ci fa desiderare la morte”118.

A questo punto il rischio è superato, la paura dell’altro è vinta dalla nostra razionalità, il nostro essere fa perno sul presente e il timore della morte non ha perciò più motivo di esistere: “ho portato a compimento la mia vita, ho avuto tutto ciò che potevo aspettarmi dalla vita. Posso, dunque, morire”119.

116 Cfr. Hadot [2006], cap. VII, § 6, pp. 165-166.

117 Cfr. Citroni Marchetti [1994], cap. V, § 1, p. 4596; il corsivo è mio. Si cfr. anche Marco Aurelio

[2008], 10.15, p. 367: “Guardino gli uomini, studino l’uomo vero che vive secondo natura! Se non lo sopportano, lo uccidano pure: meglio che vivere così”.

118 Cfr. Citroni Marchetti [1994], cap. V, § 1, p. 4596.

Nel documento Marco Aurelio: filosofia e potere (pagine 54-58)