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I «kathêkonta», ovvero le azioni appropriate

Nel documento Marco Aurelio: filosofia e potere (pagine 111-114)

4.2.2.2 «Tutto è opinione»

4.3. L’azione nei confronti degli altr

4.3.1. I «kathêkonta», ovvero le azioni appropriate

L’ambito d’esercizio dell’impulso ad agire corrisponde, nella logica di Epitteto, ai

kathêkonta stoici, parola tradotta usualmente con «doveri». Marco Aurelio non

specifica espressamente tale concetto nei Pensieri, ma, parlando di azioni “secondo il bene pubblico”71, riprende i termini di Epitteto, dimostrando così di conoscerne la dottrina. Ma cosa rende un bene “morale”? Prima di tutto, bisogna che esso si trovi nell’ambito di ciò che dipende da noi: il pensiero, l’impulso attivo o il desiderio, i quali dovranno poi conformarsi alla legge di Ragione. Quindi è necessario che ci sia una volontà assoluta di fare il bene; tutto il resto è indifferente, privo di valore in sé72. Giavatto ci ricorda inoltre che il valore dato alla πρᾶξις è scaturito nel suo livello più intimo dall’impulso che provoca l’azione, un’impulso che è «travail sur

les représentations», lavoro sulle rappresentazioni. Perché, ancora una volta, è

assegnata un’importanza così rilevante all’impulso nella teoria dell’azione? Per ribadirlo in altri termini, Giavatto risponde sostenendo che l’impulso è considerato da Marco Aurelio come un aspetto della natura umana potenzialmente sbagliato (noi infatti abbiamo il potere di scegliere anche il male, ricordiamocelo), ma che può assumere, se la ragione interviene, il compimento del dovere più profondo nell’uomo73. Quindi non è sufficiente voler fare il bene, ma è anche necessario sapere cosa fare concretamente: qui interviene la teoria dei kathêkonta o delle azioni «convenienti», compiute appositamente per offrire una sorta di manuale pratico d’esercizio per la volontà. Il punto di partenza che gli stoici assumono è, come sempre, l’istinto primordiale degli animali come primaria espressione della volontà della Natura. Come dicevamo prima, con l’apparire della ragione nell’uomo, l’istinto di conservazione animale diventa scelta ponderata, perciò, se “il primo dovere verso se stessi è fare ciò che è necessario per conservarsi in vita”74, si passa al riconoscere

71 Cfr. Marco Aurelio [2008], 9.6, p. 335; 11.37, p. 405. 72 Cfr. Hadot [2006], cap. 8, § 3, p. 176.

73 Cfr. Giavatto [2011], § 2, pp. 464-465. 74 Cfr. Di Stefano [2006], cap. 2, § 8, p. 127.

razionalmente quei valori innati che la natura ha posto in noi. Allora, “se è importante la cura moderata del corpo, bisogna anche moderare i bisogni del corpo con la temperanza ed il rispetto di se stessi”, temperanza che deve esercitarsi anche nel “dominio sessuale”, nei “doveri verso gli dèi”, ed innanzitutto nei “doveri verso la famiglia”75: sposarsi, avere dei figli, servire la patria, ecc...

Tuttavia bisogna sempre rammentarsi che, secondo la prospettiva stoica, tutto ciò è indifferente, non è né buono né cattivo, poiché non dipende completamente da noi. Perciò si tratta di effettuare azioni nei confronti di materia indifferente, ma che, a seconda del contenuto o delle circostanze, può risultare coerente alla volontà della Natura, e quindi acquistare un certo valore ai nostri occhi76.

Abbiamo detto che questa «dottrina dei doveri», delle «azioni appropriate», comporta dei precisi obblighi politici e sociali davanti alla città: tra quelli elencati, vorrei soffermarmi in particolare sulla famiglia, sul procreare ed allevare i figli e sul rispetto del vincolo coniugale. Augusto Fraschetti, eminente storico dell’età antica, ha avuto da ridire a proposito del fatto che, “durante tutto il suo impero”, Marco per primo abbia invece optato per un vero e proprio «familismo amorale», espressione coniata dagli antropologi moderni per definire la mancanza di moralità “nell’uso a volte assolutamente spregiudicato dei membri della propria famiglia”. Teoria alquanto interessante, che non manca di presentare vari fatti a suo sostegno: in primo luogo le nozze con l’Augusta Faustina, per le quali Marco non esitò a rompere la sua promessa di matrimonio con la figlia del successore designato da Adriano, in favore chiaramente della figlia di Antonino Pio (dietro dichiarato ed esplicito volere di quest’ultimo). In tali condizioni, sottolinea Fraschetti, il matrimonio con Faustina non poté certo definirsi felice, quanto piuttosto un’unione di «parata», si arrivò sino al punto di dubitare che lo stesso Commodo fosse effettivamente figlio di Marco, come riporta la medesima Historia Augusta.

Successivamente Fraschetti individua la seconda «vittima» di tale «familismo amorale» nella figlia di Marco, Lucilla, costretta a darsi in sposa prima a Lucio Vero,

75 Ibidem.

“fratello” per adozione di Marco, poi, dopo la morte di Vero nel 169, all’anziano generale Pompeiano, fedele e valoroso milite che seguiva Marco Aurelio in tutte le campagne di guerra, forse per supplire alla sua inesperienza bellica77.

Cosa possiamo dire? Ancora una volta, sembra che i Pensieri dicano una cosa e la vita dell’imperatore (“durante tutto il suo impero”) un’altra, o, più semplicemente, che esista un divario enorme tra la theoria filosofica e la praxis di ogni giorno, tra il filosofo seduto a riflettere nella sua tenda e l’imperatore dedito a salvaguardare l’impero infangato negli intrighi politici di potere. Eppure si tratta della stessa persona. È possibile allora un’azione giusta, nonostante tutto, che possa davvero mediare tra ideale e realtà?

4.3.1.2. L’incertezza dell’esito

Possiamo come minimo individuare, in questi doveri ed azioni appropriate, l’elemento dell’incertezza e della preoccupazione che rischiano di riaffacciarsi prepotentemente nell’anima del filosofo. Nonostante l’iniziativa personale rimanga inviolata, il risultato dell’azione resta ineluttabilmente ridimensionato dalle responsabilità dell’Impero, dalle infinite complicazioni politiche e dal necessario venire a patti con la realtà quotidiana.

Gli stoici in questi casi sapevano dell’incertezza dell’esito della propria azione, ma sapevano anche che, comunque vada il Destino, bisogna prendere lo stesso una decisione secondo una valutazione razionale, pur non avendo la certezza assoluta di scegliere e di agire bene. È tuttavia significativo come, nei casi di coscienza, gli stoici ammettessero l’incertezza nei rapporti tra il fine morale (che restava indiscutibile) e le «azioni convenienti» utili a compierlo78. A proposito di tale problema, Grimal asserisce giustamente che, secondo la prospettiva di Marco Aurelio, “in ogni situazione concreta la risposta deve essere elaborata all’istante.

77 Cfr. Fraschetti [2008], pp. XII-XIV. 78 Cfr. Hadot [2006], cap. 8, § 4, pp. 178-179.

Essa è di natura tecnica e non dipende da considerazioni teoriche ma solamente da un’abilità pratica, un campo nel quale i Romani sono maestri”. In effetti, data la carica ricoperta, “una decisione da prendere a proposito di una richiesta avanzata da una città o da una provincia richiedono ogni volta una risposta urgente”79.

Troppo spesso ci raffiguriamo lo stoicismo come una “filosofia della certezza e della sicurezza intellettuale”, dice Hadot. In verità è soltanto il saggio, più una figura limite che reale, un uomo incredibilmente raro, che raduna in se stesso “l’impossibilità di sbagliarsi e la perfetta sicurezza nei propri assensi”. I filosofi in realtà appartengono ai comuni mortali, non sono dei saggi ideali, bensì anch’essi devono “faticosamente orientarsi nell’incertezza della vita quotidiana, operando scelte che sembrano ragionevolmente, cioè verosimilmente, giustificate”80.

Tuttavia, osserva Parain, il dedicarsi alla filosofia, e soprattutto allo stoicismo, è un’attività che ben pochi si possono permettere; bisogna compiere una difficile iniziazione intellettuale, nonché possedere “quel minimo di agio” ed indipendenza materiale senza dei quali “l’esercizio del pensiero è difficilmente sostenibile”81.

Nel documento Marco Aurelio: filosofia e potere (pagine 111-114)