4.2.2.2 «Tutto è opinione»
5. MARCO AURELIO, FILOSOFO O IMPERATORE?
5.1. Tra ritiro interiore e vita di corte
“Che la vita dell’imperatore sia, per così dire, ontologicamente antitetica a quella del filosofo è una realtà che Marco Aurelio accetta e insieme combatte”4, afferma Maltese; “il filosofo ha i suoi principi, ma l’imperatore ha le sue esigenze e può talvolta riconoscere che l’applicazione indiscriminata di quei principi può nuocere allo stato”5, conferma Cortassa. Marco riconosce in se stesso la coesistenza del cittadino nella grande patria del cosmo divino e perfetto, il cui preciso dovere è di aderire ad esso tramite la ragione e la filosofia, e del sovrano onnipotente con degli ineluttabili doveri verso un’altra patria. Perciò viene da chiedersi: e se le esigenze di queste due patrie fossero divergenti? Forse non fu senza contrasti interiori che Marco Aurelio tentò di servire le sue due patrie6. Egli stesso ammette, in un passo dei
Pensieri7, che tale scontro non punta al controllo di un ruolo sull’altro o ad un’assurda conciliazione, ma alla mutua indipendenza delle due funzioni, riaffermando così saldamente il suo doppio impegno come «figlio della filosofia» e «figlio dell’imperium». L’esercizio della filosofia è dunque concepito come una salutare reimmersione nell’autenticità, quale affrancamento e forse ricompensa per
3 Cfr. Hadot [2006], cap. 10, § 9, pp. 264-265. 4 Cfr. Maltese [1993], p. XII.
5 Cfr. Cortassa [1984], p. 52. 6 Ivi, pp. 52-53.
7 Cfr. Marco Aurelio [2008], 6.12, p. 241: “Se tu avessi nel contempo una matrigna e una madre, ti
prenderesti cura di quella e tuttavia di continuo torneresti alla madre. Questa è la tua situazione, ora, tra la corte e la filosofia. Così, tu torna spesso a lei e trovaci pace e riposo, perché è grazie a lei, cioè alla filosofia, che le cose e persone della corte ti appaiono sopportabili e tu sopportabile in mezzo a loro”.
gli oneri del governo; tuttavia si riscontra chiaramente che, tra i due settori, Marco Aurelio non scorge e non permette alcun effettivo punto d’incontro. Anzi, segnala Maltese, che “per una delle caratteristiche e paradossali contraddizioni che segnano la figura di Marco Aurelio potremmo addirittura concludere che l’unico vero tratto stoico nella sua attività di imperatore è l’abnegazione mostrata nell’accettare un ruolo di monarca che comportava il sacrificio di ogni idealità personale”8.
Parole piuttosto dure e forti, ma gravide di significato. Anche Charles Parain sottolinea il fatto che Marco Aurelio sentì profondamente la necessità di una soluzione, di un modo di conciliare i “ceppi” della vita di corte con le sue esigenze spirituali: doveva però essere una soluzione il cui primato spettasse ai valori del pensiero e della morale, unica fonte della vera forza e superiorità umana. Marco era ben conscio dei rischi a cui la vita di corte espone un imperatore, prosegue Parain: crimini sottaciuti e alla luce del sole, oppure errori di giudizio con nefande conseguenze politiche9. Doveva farsi continuamente violenza, esortandosi a non cavillare, mormorare o perdere il controllo di sé, così come a cercare di non essere troppo compiacente o vanitoso: riuscirvi non era certo semplice10. Vi era poi l’attenzione ai doveri quotidiani, al rigore logico e alla fedeltà ai propri principi: non sfuggiva mai al suo lavoro ed anzi adempiva puntualmente ad ogni suo dovere imperiale. Quando le guerre lo lasciavano respirare si dedicava all’amministrazione della giustizia, soprattutto ai processi capitali, per i quali quando poteva interveniva di persona. Quanto al denaro pubblico non si dimostrò meno economo di Antonino, distribuendo al momento opportuno ampie elargizioni. “Era di un liberalismo più sistematico, di un’umanità più profonda rispetto ad Antonino”, riconosce Parain: “era imbevuto del concetto stoico di comunità umana, una comunità peraltro non comprendente gli schiavi. [...] Ma poteva abbandonarsi a questa mitezza di
carattere?”11 Eccoci ad un punto di svolta, ad un punto critico nell’esperienza di
8 Cfr. Maltese [1993], p. XII.
9 Cfr. Marco Aurelio [2008], 3.7, p. 171. 10 Ivi, 9.37, p. 347; 5.28, pp. 231-233.
Marco Aurelio: la sua passione per la filosofia, il suo coltivare tale “mitezza di carattere”, erano comparabili con la vita di un imperatore romano? Non rischiavano paradossalmente di risultargli d’intralcio piuttosto che aiutarlo nell’applicazione dei propri doveri nei confronti del popolo romano?
“È così che l’imperatore filosofo si fece contemporaneamente, in forza delle circostanze, imperatore soldato”12. Dunque tale ripugnanza per la vita di corte non fu, per Marco Aurelio, soltanto un disprezzo superficiale, ma una frattura estremamente profonda: un dissidio riconducibile alla notevolissima differenza dei principi di vita.
“È il dramma della vita di Marco Aurelio. Ama gli uomini e vuole amarli, ma detesta ciò che essi amano. Una sola cosa conta per lui: la ricerca della virtù, della purezza dell’intenzione morale. Questo mondo umano dal quale è assente l’unico valore provoca in lui un intenso biasimo, un profondo sconforto”13, che non manca di esprimere a più riprese nei Pensieri, con toni davvero lugubri14. Ma, si chiede Parain, si può ancora chiamare filosofia “questa disperazione cupa, la completa rinuncia a tutto”? La risposta ci fornisce un quadro piuttosto inquietante, uno “strano spettacolo: l’imperatore filosofo diserta con il pensiero da quel mondo di cui ha la suprema responsabilità; l’angoscia lo attanaglia, e può assolvere ai suoi compiti di comandante di eserciti e capo dell’Impero soltanto con riflessi da automa”15.
Quindi Hadot individua la principale causa della stanchezza di Marco Aurelio nel suo appassionato amore per il bene morale; un mondo in cui tale valore non è
12 Cfr. Parain [1993], cap. VII, p. 98. 13 Cfr. Hadot [2006], cap. 10, § 9, p. 266.
14 Cfr. Marco Aurelio [2008], 7.3, p. 269; 10.10, pp. 363-365; 5.10, p. 221: “Accostati dunque agli
oggetti stessi dell’esistenza: come sono effimeri, vili e suscettibili di diventare possesso di cinedi, prostitute, furfanti. Dopodiché volgiti a considerare i comportamenti di quanti vivono con te, dei quali anche il più gentile è a malapena sopportabile, per non dire che costoro sopportano con difficoltà anche se stessi. Dunque, in siffatta infernale oscurità e sporcizia e in tanto grande flusso della sostanza, del tempo, del moto e degli oggetti sottoposti al moto, che cosa mai può esistere che possa davvero essere apprezzato e insomma costituire oggetto di interesse e impegno? Neanche lo scorgo.”
riconosciuto gli sembra un mondo vuoto, afferma il filosofo francese, in cui vivere non ha più senso. “E, invecchiando, in questo immenso Impero, in mezzo a queste folle che lo circondano e lo acclamano, in questa atroce guerra sul Danubio così come nei cortei di trionfo a Roma, si sente solo, sente il vuoto intorno a sé, perché non può realizzare il suo ideale: essere in comunione con gli altri nella ricerca dell’unica cosa veramente necessaria”16.
Parain invece insiste sul fatto che la rinuncia al progresso della tecnica, il cataclisma economico, nonché il devastante impantanarsi della società nelle antiche strutture civili, insomma la fine di ogni speranza comunitaria, abbiano condotto Marco Aurelio, come molti altri della sua epoca, al pessimismo filosofico e alla sconfitta costituita dal ripiegamento in se stessi. Ed infatti non c’è vittoria o salvezza spirituale, secondo lo storico, nell’occuparsi di faccende che ci assorbano continuamente ed interamente, se non organizzandosi un “rifugio” al di fuori di sé. Marco Aurelio, invece, “è l’onnipotente sovrano di un Impero ancora assai potente, eppure ogni atto nei confronti dei suoi simili gli appare destituito di significato, svuotato di ogni vanità”17.
Sono esistite ed esistono effettivamente diverse “mode” nel considerare e nel giudicare Marco Aurelio: una di queste, in seguito al crollo della civiltà antica e all’ascesa del cristianesimo, guardò con nostalgia all’epoca degli Antonini, quasi come ad un paradiso perduto, individuando subito nell’imperatore filosofo un fulgido esempio di sovrano. Di questa corrente l’ultimo esponente di spicco fu Ernest Renan. Ultimamente altri hanno optato per fare di Marco Aurelio un vero e proprio caso patologico, cercando di spiegarne il carattere, la filosofia, i comportamenti morali, i disturbi psichici ed affettivi con i vari mali fisici da cui era affetto, con le anomalie della situazione familiare e con l’amore possessivo della madre18.
Io credo che entrambe le interpretazioni contengano degli elementi di verità e che quindi vadano ambedue tenute presenti, pur senza abbracciarne nessuna
16 Cfr. Hadot [2006], cap. 10, § 9, pp. 269-270. 17 Cfr. Parain [1993], cap. X, pp. 149-150. 18 Ivi, p. 8.
aprioristicamente: concordo con Parain quando sostiene che sia l’idealizzazione del personaggio sia la riduzione di tutti i suoi problemi a questioni di fisiologia sono arbitrarie, dato che entrambe schematizzano la persona che fu Marco Aurelio, spogliandola dalle complicazioni e dalle contraddizioni di cui è fatta la vita e rischiando così di isolarla pericolosamente dal suo tempo.