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TRA EMILIA E TOSCANA

I. B ONAGIUNTA O RBICCIAN

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Un primo tratto per noi estremamente interessante dell’opera bonagiuntiana emerge già ad primo sguardo d’insieme su quel pugno di componimenti attribuibili con ragionevole sicurezza al rimatore lucchese.2 Nonostante infatti l’Orbicciani, in tutti i suoi testi di argomento amoroso, rifiuti sistematicamente ogni tipo di concettualizzazione filosofica o di andamento “ragionativo” volto ad analizzare la natura dell’amore (distaccandosi quindi in questo dal pur venerato Notaro3), è nel contempo facile accorgersi di come nel suo corpus si presentino almeno due casi in cui il linguaggio lirico del rimatore lucchese si plasma (con ottimi risultati) proprio sui modelli della riflessione filosofica e della logica argomentativa. I due casi in questione, entrambe piuttosto noti, sono Similemente onore e In quanto la natura, due entrambe canzoni accomunate da una tematica che potremmo definire latamente “morale”.

Già da questa semplice osservazione dunque emerge un dato forse non di poco momento, poiché mentre nel capitolo precedente avevamo visto alcuni tentativi di dare uno spessore speculativo al linguaggio dell’amore, per Bonagiunta invece il discorso poetico acquista una tensione conoscitiva (espressa peraltro attraverso la forma metrica della canzone) soltanto quando si distacca dalla sfera delle passioni, per dedicarsi a problemi riguardanti gli umani comportamenti e la vita civile (nello specifico, l’onore e la saggezza). Di conseguenza, in una prospettiva volta a rilevare proprio le diverse modalità con cui questa tensione conoscitiva entra a far parte del linguaggio lirico, sarà utile cominciare ad analizare innanzitutto questi due componimenti, provando a vedere come in un certo senso si trovino in essi informazioni importanti per individuare un

modus operandi più generale, che nell’opera bonagiuntiana si ritrova (seppur

diversamente declinato) anche in altri testi cruciali, come i sonetti in tenzone con Bonodico e Gonella, o come il celeberrimo Voi ch’avete mutata la mainera.

a) Similemente onore e In quanto la natura

Come purtroppo accade per gran parte dei testi duecenteschi, è praticamente impossibile determinare anche approssimativamente una cronologia di questi due

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Tra i testi di Bonagiunta, considereremo qui anche la canzone In quanto la natura. Per questa attribuzione, avanzata per la prima volta in Menichetti 1978a (e recepita con cautela da Ciccuto 1994 e in maniera più entusiastica da Paolazzi 1998, Giunta 1998), si veda da ultimo Menichetti 2000, che ha fatto luce in maniera potremmo dire “definitiva” sul problema.

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Celebre è la definizione continiana di Bonagiunta «vero trapiantatore modi siciliani in Toscana» (PD I, p. 258). Per un quadro dettagliato degli elementi che indicano la vicinanza tra il rimatore lucchese e i poeti federiciani si veda in particolare Giunta 1998.

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componimenti, tanto più che, stando ai pochi dati biografici affidabili realmente attendibili sul nostro rimatore, Bonagiunta (pressapoco coetaneo di Guittone) continuò a vivere e dire per rima ben dentro l’ultimo quarto del secolo XIII.4 In compenso però questa frustrante assenza di elementi documentari non ci impedisce di riscontrare nei due componimenti in esame una notevole autonomia tanto dai modi della poesia etico- politica transalpina, quanto dalle movenze della lirica morale siciliana e guittoniana; autonomia a cui, almeno nel caso di Similemente onore, dovette accompagnarsi un notevole successo, se si pensa che con essa volle confrontarsi anche il Dante cantor

rectitudinis, all’interno della celebre Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato.5

Partiamo dunque nella nostra analisi proprio dalla cosiddetta «canzone dell’onore», un testo incentrato su un valore tutto cortese, che viene affrontato secondo una prospettiva agli antipodi di quella adottata da Frate Guittone o da Monte Andrea,6 e ben distante in generale anche da quella tradizione di lirica morale che puntava tutto sull’esortazione, sull’invettiva o (nei momenti di più spiccata elaborazione teorica) sulla lode dei “valori” orchestrata in forma di plazer.

Un primo dato che colpisce di questa canzone è innanzitutto il fatto che in essa, dal punto di vista concettuale, Bonagiunta non si serva in nessun modo di auctoritates chiaramente riconoscibili, ma fondi tutta la propria trattazione (comunque dotata di un indubbio valore politico7) su un distillato del più convenzionale codice etico di stampo cortese, mescolato forse in qualche caso con quel moralismo fondato sul buon senso di cui si trovano abbondanti esempi nei trattati di un Albertano da Brescia.8 In un simile contesto infatti spicca in maniera ancora più evidente il rigoroso schema argomentativo con cui l’autore tratta di virtù quali l’onore, il piacere, l’ubbidienza e la «fina canoscenza» (valori che appaiono qui ancora non toccati dalla crescente influenza dell’etica aristotelica sulla cultura del secondo Duecento).

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Menichetti 1978a ipotizza addirittura un Bonagiunta ancora attivo all’inizio degli anni ’90 del ’200.

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Per questo confronto si vedano Menichetti 1978b, pp. 350-361 e Menichetti 2000, pp. 87-89.

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Secondo l’acuta sintesi di Menichetti 1978a: «Il suo [scil. di Bonagiunta] sostanziale ottimismo lo salva dalle angosce e dalle brusche impennate umorali di Guittone, di cui siamo qui agli antipodi» (p. 10).

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Per una riflessione particolarmente attenta all’incidenza politica di temi come l’onore o la nobiltà nelle turbolente società comunali tra la metà del XIII secolo e l’inizio del XIV si veda Carpi 2004, che presta particolare attenzione a come le diverse prospettive ideologiche e culturali si riflettessero anche nei testi letterari.

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Per citare soltanto l’esempio riportato da Menichetti: «e sapie che, secondo che la sofferenza è buona, chosì la non sofferenza è ria, e quelli che non è sofferente soffera danno, e chi non è sofferente non puote essere piacente e questo viene da fina conoscientha» (volgarizzamento del pistoiese Soffredi del Grazia del Liber consolationi et consilii di Albertano da Brescia, cit. da Menichetti 2000, p. 89).

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Come del resto si nota sin dai primi versi della canzone, se l’attacco «Similemente onore / como ’l piacere / al meo parere / s’acquista e si mantene» (vv. 1-4) farebbe pensare alla tipica canzone di precettistica cortese,9 vediamo invece che già dal v. 9 l’Orbicciani mostra di voler impostare il discorso su un piano diverso, impegnandosi per gran parte del testo in una articolata riflessione sulla reale natura di questa virtù:10

Similemente onore como ’l piacere al meo parere

s’acquista e si mantene; e ambur hano un core e un volere,

como savere a li bon’ si convene. «Donqua, dirà l’om, come amburo han più d’un nome, da poi che ’nsieme

son d’una speme

e d’un sentire e d’uno intendimento?» Però che son du’ cose

in un voler conchiuse, e ’l piacer vene imprima bene,

und’onor cresce ch’è so compimento.

(vv. 1-18)

In questa prima strofa, un immaginario interlocutore pone all’interno di un’unica domanda due problemi ben distinti: come possono infatti essere distinte «du’ cose» che hanno le medesime caratteristiche («son […] d’un sentire»)11 e il medesimo scopo («son d’una speme […] e d’uno intendimento»)? E se questi due “oggetti” in realtà sono uno solo (dal momento che tra di loro non sussiste alcuna differenza), come possono avere comunque due nomi? In fondo, se si prende sul serio in tutte le sue implicazioni il principio per cui nomina sunt consequentia rerum, deve valere anche l’inverso, e di conseguenza ogni nome deve rimandare ad una precisa realtà, senza sovrapposizioni che finirebbero per violare il principio di identità (per cui ciascuna cosa è se stessa e non un’altra).

Fin da subito dunque vediamo che la discussione si articola secondo un taglio filosofico che, se non appare certo all’avanguardia per quanto riguarda i concetti e le

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Si pensi, giusto per citare un caso estremamente famoso, ai primi capitoli del primo e del secondo libro del De amore, dove si tratta rispettivamente di come l’amore si acquista (I VI), si mantiene e finisce (II I-

V).

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Testo citato da Menichetti 1978a.

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Il significato letterale sarebbe ‘si percepiscono allo stesso modo’ (si pensi ad esempio al celebre incipit di Guittone «Me piace dir como sento d’amore», son. 87 dell’edizione di Egidi 1940).

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argomentazioni utilizzate, è comunque piuttosto raro riscontrare nell’ambito della precettistica cortese.

La risposta di Bonagiunta a questa ipotetica obiezione sottolinea prima come le affinità tra onore e piacere siano dovute al loro essere «in un voler conchiuse» (cioè radicate in una sola volontà), e poi come in realtà questi due valori non siano semplicemente coincidenti («però che son du’ cose»), ma piuttosto l’uno il compimento dell’altro («e ’l piacer vene / imprima bene, / und’onor cresce ch’è so compimento). E da questa premessa comincia quindi una sorta di “risalita all’origine”, per cui il rimatore dimostra come se l’onore compie il piacere, il piacere nasce da «l’obedire / unde ’l servire si move ogna stagione» (vv. 20-21), il quale a sua volta ha la sua radice in quella capacità di «sufrire» che deriva dalla «fina canoscenza».

A questo punto, con la terza stanza, l’impegno filosofico del rimatore lucchese raggiunge il vertice, dando quasi l’impressione di voler tentare una fondazione metafisica complessiva dell’insieme delle virtù cortesi:

Canoscenza si move da senno intero, como dal cero,

quand’arde lo sprendore; e tutte cose nove di stato altero da lui nascero e nasceno a tuttore; a la sua signoria si regge cortesia, tutta larghessa, tutta prodessa,

pregio e leansa e tutto valimento: quel corpo la u’ si cria

giammai non falleria né per ricchessa né per grandessa,

tanto lo guida fino insegnamento.

(vv. 37-54)

L’espressione «senno intero» è estremamente rara in volgare antico, e dal punto di vista del significato l’unico parallelo davvero convincente si trova (non a caso) proprio nei versi di In quanto la natura.12 A prima vista, si potrebbe pensare ad un semplice

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Le uniche altre occorrenze di ‘senno’ unito all’aggettivo ‘intero’ sono nei Proverbia que dicuntur super

natura feminarum, vv. 411-412: «Q[ua]ndo l’om cre’ a femena, no à lo sen entero: / s[peso]ra li fai creere

qe Piero sea Gualtero» (PD I, p. 540) e nella tenzone di Pallamidesse con Orlanduccio orafo, II, v. 6: «se senno ha ’nter, - non farà tal vïaggio» (PD I, p. 474). Tuttavia risulta subito evidente come entrambe questi esempi non siano immediatamente confronotabili con l’espressione bonagiuntiana. Più interessante

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calco di diffusissime tessere occitaniche quali pretz entier o gaug entier, con cui si indicavano il ‘pregio’ o la ‘gioia (d’amore)’ nella loro completezza, elevati al massimo grado possibile. Se però si osserva il testo con attenzione, ci si accorge che qui Bonagiunta utilizza questa nozione con un significato per così dire molto più “impegnativo”, poiché non si riferisce semplicemente alla ‘massima saggezza umanamente raggiungibile’,13 ma ad un principio metafisico vero e proprio, forse identificabile con Dio stesso.

Ai vv. 37-40 infatti, per mostrare come la conoscenza sia generata dal «senno intero», il poeta ricorre all’immagine dello splendore che si diffonde da una fiamma accesa, immagine certo di per sé non rara, ma che doveva ancora essere ben riconoscibile come la metafora più usata per spiegare il processo di emanazione con cui Dio crea le sostanze separate e l’intero universo, secondo una visione di matrice platonica, ma che stava vivendo un momento di particolare fortuna nel XIII secolo, grazie alla metafisica avicenniana e, ancor prima, ai testi del Corpus Dionysianum. E per rendere ancora più chiaro il concetto, Bonagiunta prima afferma che «tutte cose nove / di stato altero» (cioè realmente nobili, cfr. vv. 41-44) nascono da proprio da questa particolare “somma intelligenza” (assegnandole in maniera ancora più precisa un potere creativo), e poi specifica che il «senno intero» è “signore” dell’intera corte delle virtù (vv. 45-49), per arrivare infine a teorizzare che chi fosse tutto informato da questa suprema saggezza non commetterebbe mai alcun errore («giammai non falleria»), qualunque fosse la sua condizione sociale (vv. 50-54).14

A questa sorta di ardito sconfinamento nel campo della metafisica, seguono un’ultima stanza di convenzionale elogio della liberalità, e infine un congedo diretto ai «signor’ ch’andate / e cavalcate / a guisa di maggiori», che riconducono il testo sui binari della più consueta precettistica sociale. Prima però di tirare qualunque invece l’esempio di Se la virtù d’amore è sì graciosa, un sonetto anonimo (probabilmente collocabile nell’ambito della Toscana occidentale) edito da Pellegrini 1897, che ai vv. 3-4 recita: «Perché si parte la più dilettosa / […] amorosa cho lo senno [’n]ter[o]?»; tuttavia bisogna rilevare innanzitutto che ’ntero è lezione di fatto ricostruita per via congetturale, e poi che comunque si parla anche in questo caso del “senno intero” di qualcuno, e non del “senno intero” in sé.

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Sull’idea di “senno” (e sulle varie attestazioni dei termini afferenti a quel campo semantico) nel corpus dei trovatori, si vedano Köhler 1962 e Schutz 1958. Per alcune considerazioni su questo stesso tema proprio nella lirica italiana delle Origini si veda Giunta 1998, pp. 316-318.

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Sull’espressione «quel corpo là u’ si cria / giammai non falleria» Menichetti non fornisce una spiegazione dettagliata. Alla luce di quanto detto sinora, un senso davvero soddisfacente può essere ottenuto interpretando «là u’ si cria» nel senso di ‘qualora sia creato in quel luogo (sottinteso alla corte delle virtù originate dal «senno intero»)’, oppure intendendo «quel corpo» nel senso di ‘una di quelle «cose nove / di stato altero», come se Bonagiunta volesse dire che in qualunque condizione sociale un uomo perfettamente virtuoso si trovi a nascere, si comporterebbe in maniera adeguata.

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conclusione, varrà la pena soffermarci anche sul testo di In quanto la natura, dal momento che in questo componimento si riscontrano un’impostazione estremamente vicina a quella di Similemente onore e alcune caratteristiche a cui converrà prestare attenzione.

Innanzitutto, In quanto la natura presenta con una chiarezza ancor maggiore rispetto alla sua “canzone gemella” sull’onore un impianto modellato su quello della quaestio, come dimostra l’articolata esposizione del problema, terminante con un inconfondibile «quero»:15

In quanto la natura e ’l fino insegnamento

han movimento - de lo senno ’ntero, und’ha più dirittura

lo gran cognoscimento,

da nodrimento - o da natura, quero.

(vv. 1-6)

Stavolta non si tratta di stabilire “cosa sia” una particolare virtù, ma se abbia più valore il «gran conoscimento» che deriva «da natura» (cioè da quelle innate capacità intellettive che costituiscono la radice etimologica del termine ingegnum) o quello acquisito tramite «nodrimento», cioè tramite lo studio e quella che oggi chiameremmo “formazione”. In questa particolare declinazione medievale del dibattito “natura vs cultura”, di cui Carlo Paolazzi ha rintracciato una non inverosimile radice oraziana,16 Bonagiunta propone una sorta di soluzione “di compromesso”, affermando senza esitazioni la necessità del processo di acculturazione, ma a condizione che esso avvenga rigorosamente alla scuola dell’esperienza e del «senno» naturale. Come già nel testo precedente, anche in questo caso si rileva una struttura concettuale saldamente ancorata alla tradizione, dal momento che non si ha traccia di quell’interesse per le dinamiche della conoscenza umana e per la struttura intima dell’anima che cominciava a prendere piede già nella Scuola siciliana (il che sarebbe forse bastato per respingere l’ipotesi di attribuzione a Cavalcanti, avanzata da Contini con toni giustamente dubitativi); tuttavia,

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Il testo è da considerarsi sempre citato da Menichetti 2000.

16

Cfr. Paolazzi 1998, pp. 157-165. A dire il vero, se i rimandi operati dallo studioso ai versi dell’Ars

poetica di Orazio sono senza dubbio interessanti e di per sé degni di attenta considerazione, meno

convincenti risultano le conclusioni che offrono un Bonagiunta intento a cercare le «componenti essenziali della “gran conoscenza” poetico-filosofica» (p. 164), attestando così un certo grado di «complicità con i novatori» (p. 165). Come avremo ampiamente modo di vedere, la concezione etica ed estetica dell’Orbicciani si serve di alcuni aspetti della retorica filosofica soltanto quando permettono di rafforzare concretamente l’etica cortese.

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quel che ci interessa maggiormente in questa sede è piuttosto il modo con cui il rimatore lucchese organizza il suo argomentare, insieme ad alcuni passaggi particolarmente significativi. Osserviamo dunque il testo dei vv. 7-28, in cui si dipana l’esposizione di Bonagiunta:

Se la gran caunoscenza dicess’om per ventura che ven più da natura, direbbe fallimento; ché nessuna scïensa sens’amaestratura

non sagl[i]e in grande altura per proprio sentimento;

ma per lo nodrimento on cresce in caunoscensa

che dà calensa - d’ogne gio’ compita; però ha compimento

di bene, in tal sentensa,

sensa fallensa, - persona nodrita.

(vv. 7-20)

La scansione tra le varie parti del discorso emerge chiaramente grazie al rilievo dato ai connettivi logici principali, collocati sempre ad inizio verso («Se», v. 7; «ché», v. 11; «ma», v. 15; «però», v. 18; «Adonqua», v. 21). Per prima cosa, Bonagiunta dimostra che sarebbe assurdo se il pieno possesso della saggezza fosse determinato solamente da una fortuita circostanza naturale, sarebbe in contraddizione con la semplice evidenza per cui un sapere che non necessitasse studio e applicazione non arrecherebbe nessun merito a chi ne fosse in possesso (vv. 7-14), mentre, al contrario, chiunque raggiunga l’eccellenza lo fa tramite un percorso di progressivo apprendimento (vv. 15-20). Ancor più interessante è però l’argomento successivo, con cui l’Orbicciani prova a dimostrare come l’ingegno sia una disposizione innata, coincidente di fatto col concetto stesso di “natura”, e quindi non possa essere preposto al «nodrimento».

Adonqua par che ’l gegno e la natura insieme vivano ad una speme in un sentire stando: com’adoven d’un legno ch’a dui nomi s’atene e pur una cosa ène, lo subietto guardando.

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In questi versi infatti si presenta una sorta di rovesciamento simmetrico della domanda contenuta nella prima stanza di Similemente onore, perché se in quel componimento Bonagiunta aveva mostrato come alle parole «piacere» ed «onore», apparentemente descrittive di una sola “cosa”, corrispondessero due realtà tra loro strettamente legate, ma distinte, qui invece l’argomento scelto dal poeta mira a mostrare come due termini apparentemente distinti («’l gegno» e «natura») indichino in realtà una sola “cosa”.

Come ha ben rilevato Menichetti, l’esempio scelto da Bonagiunta non trova paralleli nell’ambito della letteratura volgare (italiana o transalpina), e in effetti, data la peculiarità del caso in esame, la cautela è più che mai d’obbligo.

Cercando nell’ambito delle fonti probabilmente più accessibili al nostro rimatore, potrebbero forse risultare pertinenti due tessere ciceroniane, entrambe tratte dalle

Tusculanae disputationes, accostabili per il loro significato ai versi citati: «ego pluribus

nominibus unam rem declarari volo» ed ancor meglio «Sed ratio una omnium est aegritudinum, plura nomina».17 Tuttavia, bisognerà quanto meno rilevare innanzitutto l’uso tecnico straordinariamente consapevole del termine «subietto», con cui il poeta indica chiaramente il sostrato materiale di uno o (come in questo caso) più oggetti; e inoltre, non si potrà ignorare che l’argomento sembra ricalcare con fedeltà davvero stupefacente un passo del primo libro della Fisica aristotelica: «Est autem subiectum numero quidem unum, specie autem duo».18.

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Cfr. Tusc., III 83: «Hoc detracto, quod totum est voluntarium, aegritudo erit sublata illa maerens, morsus tamen et contractiuncula quaedam animi relinquetur. Hanc dicant sane naturalem, dum aegritudinis nomen absit grave taetrum funestum, quod cum sapientia esse atque, ut ita dicam, habitare nullo modo possit. At quae stirpes sunt aegritudinis, quam multae, quam amarae! quae ipso trunco everso omnes eligendae sunt et, si necesse erit, singulis disputationibus. Superest enim nobis hoc, cuicuimodi est, otium. Sed ratio una omnium est aegritudinum, plura nomina. Nam et invidere aegritudinis est et aemulari et obtrectare et misereri et angi, lugere, maerere, aerumna adfici, lamentari, sollicitari, dolere, in molestia esse, adflictari, desperare» e, II 46: «46 "Tune, cum pueros Lacedaemone, adulescentes Olympiae, barbaros in harena videris excipientis gravissimas plagas et ferentis silentio, si te forte dolor aliquis pervellerit, exclamabis ut mulier, non constanter et sedate feres?" "Fieri non potest; natura non patitur."- Audio. Pueri ferunt gloria ducti, ferunt pudore alii, multi metu, et tamen veremur, ut hoc, quod a tam multis et quod tot locis perferatur, natura patiatur? Illa vero non modo patitur, verum etiam postulat; nihil enim habet praestantius, nihil quod magis expetat quam honestatem, quam laudem, quam dignitatem, quam decus. Hisce ego pluribus nominibus unam rem declarari volo, sed utor, ut quam maxime significem, pluribus. Volo autem dicere illud homini longe optimum esse, quod ipsum sit optandum per se, a virtute profectum vel in ipsa virtute situm, sua sponte laudabile, quod quidem citius dixerim solum quam non summum bonum. Atque ut haec de honesto, sic de turpi contraria, nihil tam taetrum, nihil tam aspernandum, nihil homine indignius».

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Benché infatti qui non si parli esplicitamente di nomi, né tanto meno si faccia riferimento al legno,19 resta evidente il fatto che nel passo citato troviamo il medesimo concetto espresso con la stessa opposizione tra “uno” (in entrambe i contesti il