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A LTRI “ DIMOSTRAMENTI ” GUITTONIANI

FRATE GUITTONE

III. A LTRI “ DIMOSTRAMENTI ” GUITTONIANI

Tra i numerosi testi che potremmo prendere in considerazione, ve ne sono due in particolare che fanno particolarmente al caso nostro, attribuibili con diversi gradi di sicurezza al Fra’ Guittone più maturo. Si tratta della canzone Degno è che che dice

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homo el defenda, non databile con sicurezza, ma probabilmente piuttosto tarda,11 e di

Poi male tutto è nulla inver’ peccato, testo provvisto di un terminus post quem fissato al

1289.12

In questi componimenti infatti si può osservare uno sviluppo della struttura argomentativa in qualche modo diverso rispetto ai testi esaminati sino ad ora; ovviamente l’obiettivo resta sempre quello di convertire i peccatori e di mutare l’animo dei malvagi, ma questa volta vediamo il rimatore aretino cercare di raggiungere lo scopo da una parte procedendo secondo una cadenza meno declamatoria e argomentativamente più serrata, dall’altro servendosi in maniera ancor più esibita del solito di richiami a ben precise auctoritates (sono per esempio gli unici testi in versi in cui Aristotele è nominato apertis verbis).

Cominciamo dunque da Degno è che che dice.

a) Degno è che che dice homo el defenda

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A farci pensare che Degno è che che dice sia stata composta ben dopo il 1266 sono alcuni indizi desumibili sia da elementi esterni, sia da elementi interni al testo. Se infatti Margueron 1966 ha pienamente ragione a rilevare il fatto che la tesi principale dell’intero componimento («che mal leggerọ non sia più che ben fare») è una ripresa quasi letterale di uno degli ultimi versi di Ora parrà, sembra forse un po’ forzata l’ipotesi di datare in base a questo Degno è che che dice attorno al 1266. Tralasciando il fatto che forse la datazione di Ora parrà al 1265-66 appare anch’essa per certi versi eccessivamente meccanica (per quanto sia banale riaffermarlo dopo tutto quel che sappiamo su Petrarca e il sonetto proemiale, varrà la pena ribadire che non è detto che un testo pensato come “programmatico” sia per forza il primo ad essere scritto), non si può infatti escludere che al contrario la canzone sia stata composta diversi anni dopo Ora parrà, e appartenga piuttosto ad un momento in cui forse si era già aperta la lunga stagione di confronto tra Guittone e personalità poetiche quali Guinizzelli o il giovane Cavalcanti, che (in tempi e modi per certi aspetti estremamente diversi tra loro) stavano cambiando la lirica d’amore contemporanea, caricandola di tensione conoscitiva fino all’intellettualismo, e quindi venendo inevitabilmente a scontrarsi con l’acclamato maestro che aveva fatto del rifiuto dell’amore terreno e della riflessione morale il nuovo centro della propria poesia. Inoltre, dal punto di vista strettamente filologico desta qualche sospetto il fatto che un testo apparentemente così solidale alla canzone-manifesto non sia stata riportato né da P né da V (codice che per esempio sottolinea una solidarietà anche cronologica tra

Ora parrà e Vergogn’ò lasso, trascrivendole in successione), subendo quindi lo stesso destino di Poi male tutto è nulla, che però sappiamo essere la canzone più tarda tra quelle sicuramente databili, rimasta

probabilmente sconosciuta alla tradizione VP, che Leonardi 1994 ha dimostraro essere più antica di quella da cui si originano L ed R.

Ovviamente simili argomenti non possono essere considerati “prova” di alcunché, data la scoraggiante penuria di informazioni in nostro possesso. È però anche vero che sia Degno è che che dice, sia Ora

parrà, per quanto legate dal punto di vista ideale (la ripresa del v. 81 di Ora parrà da parte di Degno è che che dice suggerisce che Guittone abbia voluto evidenziare un legame tra i due testi), sembrano

riflettere due atteggiamenti in qualche modo diversi tra loro, il che ci riporta a tenere in considerazione la possiilità che esse siano state composte in due momenti ben diversi del percorso guittoniano.

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Il congedo al vescovo d’Arezzo «conte magno» implica che fosse già avvenuto l’insediamento di Ildebrandino dei conti Guidi sulla cattedra che era stata occupata fino al 1289 dal vescovo Guglielmino degli Ubertini. Cfr. infra, pp. 83 e ss.

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Già dall’inizio, la canzone si pone come un testo costruito con il preciso intento di “difendere”, cioè “giustificare” attraverso argomentazioni logiche, quanto già detto in altre occasioni:

Degno è che che dice homo el· defenda, e chi non sente ben cessi parlare,

e, s’ el parla, mendare

deggialo penitendo e perdon chera.

(vv. 1-4)

Come si può facilmente notare, la differenza che passa tra una simile difesa e una semplice illustrazione di alcuni valori fondamentali, è il valore polemico che nei primi versi si conferisce ad ogni affermazione successiva, attraverso l’ingiunzione al lettore (ma anche ad un possibile avversario) di adeguarsi alla verità contenuta nel prosieguo della trattazione, e di pentirsi nel caso in cui avesse seguito opinioni differenti.

Tornando quindi al testo, vediamo che il problema attorno a cui ruota l’intera trattazione è costituito da un assunto ripreso dal congedo di Ora parrà s’eo saverò

cantare, quello per cui «No è ’l mal più che ’l bene a far leggero» (v. 81), che qui

troviamo così riformulato:

E me convene a defensione stenda che mal leggero non sia più che ben fare, dapoi già ’l dissi e pare

lo credano pluzor’ cosa non vera.

(vv. 5-9)

Subito dopo questo iniziale inquadramento della questione, il poeta passa quindi ad esprimere, nella sirma della prima stanza, la tesi fondamentale dell’intera canzone:

Dico che male amaro è in natura, el contrar suo bon dolc’e piacente; e cor ben natoralmente ordinato, in cui sano è palato,

bono dolcie e reo amar savora; ma chi dizordinato à ·lo e ’nfermo, alo contraro è fermo,

sì come in corporal palato avene, d’infermo a sano bene

e ’n giudicio di non-saggio a saggio. Di bon porta ver saggio

quel che giudicha bonọ, sano, sacciente. (vv. 9-20)

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Tutto ciò che seguirà nel corso delle stanze successive sarà una documentazione e uno sviluppo di questi primi venti versi, interamente costruiti sull’autorevole base filosofica della Summa Alexandrinorum, la diffusissima versione latina di un compendio arabo dell’Etica Nicomachea. Per meglio comprendere l’operazione condotta dal rimatore aretino, osserviamo il passo del testo filosofico citato:

Bonum autem secundum ueritatem est id quod uidetur sic esse uiro bono. Homo enim uirtuosus uidet in re hoc quod in ipsa est et sic iudicat de ipsa. Quemadmodum sanus iudicat de dulci quoniam dulce, et de amaro quoniam amarum; eger uero opposito modo se habet uel iudicans dicens amarum non amarum, et non amarum amarum, et sic malus; similiter homo peruerse anime iudicat in agendis dicens malum bonum et bonum malum: omne nempe delectabile bonum iudicat et indelectabile malum, et delectabile inquirit tamquam bonum et ab indelectabili fugit tamquam a malo, et hoc peruersitatis morbo laborant plures homines, eo quod ipsorum actiones sunt in potestate eorum et in uoluntate et in electione et in arbitrio.13

Dal confronto tra i due testi, emerge con chiarezza la puntualità con cui Guittone riprende il verbo della Summa, sia nel parallelo tra la percezione sensibile alterata dalla malattia e la valutazione morale alterata dall’assenza di virtù (o dalla corruzione di quest’ultima), sia nella citazione quasi letterale di certe espressioni, come accade ad esempio ai vv. 19-20, «Di bon porta ver saggio / quel che giudicha bonọ, sano, sacciente», esemplati sull’affermazione «Bonum autem secundum ueritatem est id quod uidetur sic esse uiro bono» (rr. 24-25), con amplificatio dell’espressione «uiro bono» in «bono, sano, sacciente».

Nel prosieguo della canzone però si vede come questa precisione nella ripresa della fonte filosofica serva a creare una base solida e autorevole, da confermare attraverso le argomentazioni che si susseguiranno senza mai abbandonare il consueto andamento sentenzioso, ma con una particolare attenzione all’articolazione logica del discorso, oltre che alla costruzione di una serie di esempi, orchestrati in progressione ascendente e alternando riferimenti al mondo della filosofia antica e della sapienza cristiana.

Chi più è bono bon conosce a meglio e con meglio megli’ àve innamore, perch’ama in suo valore

retto, giusto, bene catuna cosa.

Und’ alma più che corpo ama e sa i meglio cielo che terra, quanto el sa migliore

o d’amore fa savore,

nel quale dolce par cosa noiosa;

(quanto tradolcie dolci’ è inn ess’, a!, donque!)

13

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e se ’ffannoso è bono alcuna fiata,

iscifal già non bon ma più ’l dezia;

prod’ omo cher pugnar pria

con prode che con vile, che non vole onque: † ov’ è valor, fa valore e porge merto †. Gravessa in corpo certo

face, o!, che poco, ov’è dolciessa in core! E quando èvi amarore

non guaire corpo inn agiar ben monta: ov’ omo falla e prend’ onta,

onni sua gioia de noia dea star meschiata.

(vv. 21-40)

Nella seconda stanza dunque già compare questa divisione: dapprima Guittone, ai vv. 21-31, afferma che chi sa ben discernere il bene dal male sa anche di dover prediligere l’anima al corpo, accettando le sofferenze carnali in cambio delle gioie spirituali future. Quindi, dopo questa affermazione, il poeta prima porta all’attenzione del lettore l’esempio del «prod’omo» (il quale «cher pugnar pria / con prode che con vile», vv. 32- 33, così come le avversità sono l’avversario degno di un uomo veramente retto), e poi afferma, sulla base dell’osservazione degli umani comportamenti, che la rettitudine permette di superare senza affanni ogni tribolazione, mentre la malvagità impedisce di godere anche delle situazioni di maggior benessere e fortuna.

Passando però ora alla stanza successiva, possiamo notare che Guittone rafforza il ricorso all’esemplificazione, facendo di questo procedimento il cardine della propria argomentazione:

Non à giamai savor non bono a bono ni fore suo savore propio è bon loi. Sì como è certo noi,

charnal piacere odiaro e mondan santi e lo despiacer quazi amò catono. E se dicem Dio ciò fece nei soi, troviall’ anche inn altroi, in filozofi orrati e magni manti,

ch’è ben rassional seguir ragione, e no ’n sensi ghauder ma intelletto! È non visio ma vertù o’ gaudio assai; gaudio in visio è non mai,

se ’n natura non ven corrussione, segondo che ’l saggio Aristotel dicie e mostra homo felice

vertù ovrando. In cui ghaudio è pieno, e’ no male terreno

ni bene pregia alcuno; ma la cui mente ghaudio dentro non sente,

fugg’ e’ a van corporal parvo diletto.

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La stanza si apre con una sintetica ripresa della tesi iniziale («Non’à giamai savor non-bono a bono, …», v. 41), sostenuta attraverso la menzione dei santi, figure esemplari per eccellenza della tradizione cristiana (vv. 44-45); e quindi, dopo aver richiamato l’ipotesi iniziale, il poeta risponde ad una ipotetica obiezione («e se dicem: “Dio [ciò] fece nei soi” », v. 46) servendosi di un esempio perfettamente simmetrico e complementare a quello dei santi: quello dei filosofi pagani.

Questa volontà di dimostrare una concordanza tra i modelli etici del mondo cristiano e quelli del mondo antico è un passaggio assolutamente cruciale del testo, da cui Guittone prende le mosse per mostrare il valore razionale (e quindi universale) della virtù, considerata come premio a sé stessa e fonte per l’uomo della massima gioia conseguibile in terra. In questo particolare passaggio, si fa più chiaro che mai il ruolo decisivo nella riflessione guittoniana della Summa virtutum ac vitiorum, che non a caso, dopo un prologo in cui si dichiara esplicitamente «Nec de solis Scripturi sacris testimonia volui assumere in opere isto: sed etiam de scripturis Philosophorum»,14 comincia ad osservare la virtù nei suoi aspetti generali (De virtute in communi), descrivendone i caratteri (De descriptionibus Virtutis, cap. III),15 o notificandone la naturalità e l’autosufficienza (Quod Virtus sit proprie bonum nostrum, possessio libera

et sufficiens, cap. VI).16

Nei congedi infine, possiamo vedere Guittone riproporre in maniera ancora più sintetica ed incisiva lo schema argomentativo adottato sinora: il poeta fa riferimento prima al Vangelo di Matteo17 e al libro del Siracide (Ecclesiasticus),18 e poi di nuovo alla filosofia dello Stagirita, mettendo in risalto i nomi di Cristo e di Aristotele per sottolineare ulteriormente un’ideale unità tra le due massime autorità del mondo medievale, e dunque tra filosofia antica e sapienza biblica. Al v. 73, Guittone riprende la sentenza dal quale si era originata tutta la trattazione («Non donqu’è ’l mal più [a] far che ’l ben leggero»), e negli undici versi successivi si serve ancora una volta di una serie di esempi per documentare la verità di un concetto fondamentale dell’etica aristotelica: quello che vede la felicità come risultato di un continuo agire conformemente al fine insito nella propria natura:

14

SVV I, p. 3. Ad ulteriore conferma di quanto detto, si consideri che il passo citato prosegue così: «Iuxta verbum Seneca: in aliena castra transiens, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator».

15

Ibidem, pp. 9-15.

16

Ibidem, pp. 20-22.

17

Per i vv. 61-62: cfr. Matth., XI, 30: «Iugum enim meum suave, et onus meum leve est».

18

Per i vv. 62-63: cfr. Ecclesiasticus, XXI, 11 «Via peccantium complanata lapidibus, et in fine illius fovea inferi».

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Cristo el giovo suo dicie soave, la soma leve; e Santa anche Scrittura dice la via dei rei grav’ e pretosa, e Arestotel posa

in sentensa esta e saggio onni assì l’àve. E che è quando noi senbr’ altramente, for che ’nfermo, nesciente

e disnaturat’ è nostro cor fatto, da visiato uso stratto,

lo qual già fece e fa cibo veneno e triacha non meno

senbrar fa venenosa, ove ben dura?

Non donqu’ è ’l mal più a far che ’l ben leggero, ma piu grav’ è in natura e inn uzo anco.

Ghaudendo tribula hom male operando, bon ben ghaude penando;

ghaude conbattendo hom bon cavalero e donna mascio bel figlio faccendo, martiri morte sofrendo.

E leggeri stimo arare piu che ’nbolare, astenere in mangiare

più che sovente el ventre molto enpiere e chastità tenere

più c’avoltrare e ovrare che star nel banco. Iacomo, Giovanni, amici, e Meo, me piace onni dir meo

interpetrare e difendere in Pisa deggiate a vostra guiza,

e come piace voi mel chalognate.

(vv. 61-89)

In questo caso, la ratio dell’esemplificazione non risiede nel mobilitare figure dall’alto profilo ideale come quelle dei santi e dei filosofi, ma nel citare casi su cui si raccolga senza difficoltà il consensus omnium, in modo da portare il lettore ad appoggiare senza sforzo la conclusione secondo cui l’inclinazione più naturale dell’uomo è quella verso il bene, conferendo così all’attaccamento al male una connotazione paradossale, oltre che negativa.

b) Poi male tutto è nulla inver’ peccato

Indirizzata al vescovo d’Arezzo succeduto all’inossidabile Guglielmino degli Ubertini (morto vecchissimo in battaglia a Campaldino, nel 1289, dopo aver retto per quarant’anni la diocesi aretina), con Poi male tutto è nulla ci troviamo in un contesto poetico decisamente mutato rispetto agli anni in cui operava Guinizzelli; gli anni ’89- ’90 del Duecento infatti cadono già ben dentro la maturità lirica di Guido Cavalcanti, e

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vedono comparire le prime prove significative del giovane Dante. A questo proposito, Domenico De Robertis ha addirittura ipotizzato che proprio questa canzone potesse essere il bersaglio del sonetto cavalcantiano Da più a uno face un sollegismo, e nonostante le basi su cui il critico costruisce la sua lettura presentino alcune aporie difficilmente superabili,19 il fatto stesso che sia stata presa in considerazione la possibilità di questo legame ci dà l’idea di come nel momento in cui questa canzone veniva scritta, i rapporti tra il vecchio maestro di un’intera generazione e il giovane rimatore fiorentino dovessero essere già incandescenti.

Al di là però dei possibili collegamenti tra questa canzone e la lirica cavalcantiana, la prima cosa da rilevare parlando di Poi male tutto è nulla è il suo spiccato carattere “occasionale”. Se infatti teniamo presente che il componimento tratta di due tra i più importanti articula fidei elencati da Peraldo nella sua più volte citata Summa,20 non sembra così assurto ipotizzare che l’invio al vescovo Ildebrandino in occasione del suo insediamento sulla cattedra aretina sia con tutta probabilità da considerarsi all’origine della scrittura di questo importante ed impegnativo testo lirico.

Come nella canzone precedente, anche Poi male tutto è nulla nelle battute iniziali menziona una precedente produzione poetica volta a dissipare gli errori generati dal peccato; anzi, più precisamente Guittone afferma di aver smascherato i peccati «dispregiando e lungiando essi d’amore» (v. 7), cioè mostrando come il vero amore sia da considerarsi una virtù che poco ha a che vedere con la immorale follia della passione. Tuttavia, prima di questa allusione che sembra richiamare molto da vicino la coppia di canzoni O tu de nome Amor e O vera vertù, il poeta aveva esordito proponendo una vera e propria “scala” del male morale:

Poi male tutto è nulla inver’ peccato e peccato onni parvo inver’ d’errore e onni error leggero, al vizo meo,

19

Secondo De Robertis, il testo guittoniano giocherebbe deliberatamente su un tema «su cui si gioca la ‘fama’ secolare di Guido, che appunto “le sue speculazioni” fossero “solo in cercare se trovar si potesse che Dio non fosse”», provocando quindi Cavalcanti, che dunque avrebbe risposto con questo sonetto per rifiutare il tentativo di Guittone di dimostrare «ciò che non è dimostrabile». Tuttavia lo studioso non considera che per un aristotelico come Guido la dimostrazione dell’esistenza di Dio non era materia di fede, ma oggetto di trattazione sommamente scientifica, dal momento che Aristotele stesso si era dedicato alla dimostrazione dell’esistenza e delle caratteristiche del Primo Motore Immobile sia in Physica VIII, sia in Metaphysica XII. Se dunque è vero che il sistema argomentativo guittoniano doveva essere inaccettabile per Cavalcanti (e più per la sua imprecisione che non per la presenza di auctoritates), è anche vero che al centro del dibattito tra i due non ci poteva essere un tema come quello dell’esistenza di Dio. Sembra dunque difficile che l’obiettivo di Da più a uno possa essere Poi male tutto è nulla.

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85 ver’ non creder sia Deo

né vita appresso d’esta o pena o merto, (vv. 1-5)

Come si può facilmente notare, con questo tipo di “catalogazione” del male (esplorata anche nel testo di alcuni sonetti) siamo usciti dalle classificazioni e dalle divisioni tra i vizi proposti dall’etica aristotelica e stoica, per abbracciare un punto di vista marcatamente più teologico. Rinunciando dunque alla partizione dei vizi fondata sulla triade classica “incontinenza-violenza-frode” (che sarà invece decisiva per l’Inferno dantesco), il poeta assume nei cinque versi citati una prospettiva più “teologica”, in cui il male prima si distingue tra quello involontariamente («male») e volontariamente compiuto («peccato»), quindi si aggrava nel momento in cui diventa eresia («errore» evidentemente inteso nel senso di cattiva conoscenza di Dio), o addirittura alla negazione della natura divina, presentata sotto forma di disconoscimento prima dell’Ente supremo («non creder sia Deo») e poi dell’immortalità dell’anima umana («né vita appresso d’esta, o pena o merto»).

Anche in questo caso, Guittone procede in maniera più rigorosamente argomentativa rispetto al passato, come si vede chiaramente nel prosieguo della prima stanza:

mi soducie dizio e pungie or manto in male tale e tanto

metter consiglio alcun leale e cierto a dimostrare aperto

lo grande errore a chi viz’ à che veggia, per ragion cara e nova

e per dicevel prova

dei soi stormenti e testimon’ veri molti. (vv. 8-15)

«Dimostrare aperto», «dicevel prova», sono espressioni che denotano un impegno nella costruzione di argomentazioni elaborate, con minore ricorso agli esempi e maggiore impegno nell’individuare nessi causali tra le proposizioni. La «ragion cara e nova» del v. 13 è poi forse l’elemento che in maniera più evidente ci mostra come Guittone stesso si stia addentrando in un territorio ancor più difficile rispetto al solito.

Ovviamente, la necessità di adeguarsi ad una nuova situazione non significa un totale sconvolgimento dei parametri consueti, e quindi, nonostante la particolare attenzione per la costruzione logica dell’argomentazione, Guittone non rinuncia a quello che forse è il suo metodo argomentativo preferito e più efficace: il ricorso all’esempio e alla “testimonianza”. Non è un caso infatti che, soprattutto per quanto riguarda la

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dimostrazione dell’esistenza di Dio, il poeta dica innanzitutto di voler far rinsavire gli stolti (v. 20) mostrando loro gli «stormenti» di Dio, e i suoi «testimon’ verị molti», operando così una momentanea incursione nel lessico giuridico, come se la canzone si trasformasse per un attimo in un processo, in cui esibire atti scritti21 e testimoni. L’esempio concreto, il fatto, l’esperienza in generale è per Guittone sempre il punto di