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L E RIME DEI “ MAESTRI ”: T ORRIGIANO , R INUCCINO , F RANCESCO

FRATE GUITTONE

II. L E RIME DEI “ MAESTRI ”: T ORRIGIANO , R INUCCINO , F RANCESCO

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Se nel paragrafo precedente abbiamo trattato di una tenzone tra due rimatori, ad essere preso in considerazione stavolta sarà un gruppo di poeti accomunato (oltre che dalle origini fiorentine) da un tratto di carattere più spiccatamente “sociologico”, che sopperisce in parte all’assenza quasi totale di informazioni biografiche: si tratta infatti, come dichiarato già dal titolo di questo paragrafo, del significativo titolo di “maestro”.

Dei tre autori che passeremo in rassegna (in maniera estremamente sintetica) Maestro Rinuccino è di gran lunga la figura su cui siamo più informati: a partire da un’identificazione di Debenedetti ancora accettata dalla critica, possiamo collocare la sua nascita negli anni ’30 (era quindi quasi coetaneo di Monte e Chiaro), e grazie ai documenti delle amministrazioni del sesto d’Oltrarno del quartiere di S. Spirito sappiamo anche che ebbe importanti incarichi politici. Di Maestro Torrigiano poi sappiamo solo che morì, pare in età molto avanzata, approssimativamente attorno al 1313; ma è già molto di più di quanto sappiamo su Maestro Francesco, di cui non conosciamo nemmeno il nome di famiglia, rendendo praticamente impossibile non solo un’identificazione biografica precisa, ma anche una collocazione cronologica plausibile. Dunque l’appellativo di “maestro” che accompagna questi nomi risulta paradossalmente essere l’informazione più concreta in nostro possesso, da cui dedurre per ipotesi una probabile frequentazione dello studium bolognese, oltre che ovviamente l’esercizio in terra fiorentiina della professione di medico.

Nell’esiguo canzoniere di Maestro Torrigiano si può trovare un solo testo in cui emerga la dimestichezza dell’autore con la cultura filosofica: il sonetto sulla natura d’amore Chi non sapesse ben la veritate. Il tema di questo componimento si presta particolarmente bene a far risaltare la competenza di Torrigiano, dando allo stesso tempo l’idea di come l’integrazione tra lirica d’amore e linguaggio filosofico sia tentata in maniera ormai tutt’altro che ingenua, ma comunque ancora piuttosto precaria e altalenante nei suoi risultati.

Ad essere messo al centro del componimento che ci accingiamo a citare, è ancora una volta il problema della natura divina dell’amore. Su questo argomento l’opinione di Torrigiano è in linea con quella degli altri maestri, i quali, in un’ottica inevitabilmente influenzata dai trattati di Galeno o Avicenna, non abbracciano mai le teorie che abbiamo visto essere sostenute da Chiaro Davanzati. Tuttavia il dato più interessante ai fini della nostra indagine è il fatto che la consueta rivendicazione “antiteologica” è condotta da un lato cercando di ridurre la passione ad un fenomeno perfettamente

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interno alle dinamiche naturali (cosa che Ubertino aveva fatto in maniera tutto sommato più marginale), e dall’altro giustificando comunque sul piano “retorico” ciò che non è ammesso su quello filosofico:

Chi non sapesse ben la veritate come l’amor sia deo, ora lo ‘ntenda: di quante cose ne son nominate per questo nome deo, primera aprenda.

Dette a natura Deo la maestate e da la forma par che ‘l nome penda e tal per grazza e tal per potestate si chiama dio per simile vicenda.

E già la mente dell’uom no ripiglia che tre ed uno Deo l’amore sia, se non quand’om sognasse maraviglia.

Ma per la forza e per la segnoria c’ha ver l’amante, di Colui s’apiglia: si chiama dio per quella similìa.6

Seguendo infatti il sillogismo che corre lungo questa brevissima trattazione, ci si può accorgere di come il poeta prima affermi che Dio è il nome con cui si indica l’Ente che ha conferito maestate alla natura (premessa maggiore), e poi osservi che soltanto se un altro ente che sapesse esercitare un simile potere (premessa minore), potrebbe a buon diritto esser chiamato “dio” (conclusione). Ma se sin qui non si nota nulla di strano (dato che in effetti il rimatore puntualizza che pensare all’amore come a qualcosa capace di soddisfare una tale condizione equivalga a «sognare maraviglia»), a colpire è invece il fatto che Torrigiano ammetta come l’innamorato, dal punto di vista della sua mente tormentata dall’ossessione amorosa, possa anche giungere a questa assimilazione tra Dio e l’amore, che viene giustificata come una similìa, infondata dal punto di vista razionale, ma a quanto sembra non illegittima da quello retorico.

Certo un altro aspetto interessante di questo sonetto è senza dubbio costituito dal contenuto e dalla terminologia dei vv. 5-6, poiché da un lato il v. 5 dà una definizione di Dio radicalmente ridotta alla dimensione della filosofia naturale (Dio come signore della natura, senza altri connotati), dall’altro il v. 6 riprende la massima nomina sunt

consequentia rerum, potenziandola però in senso filosofico mediante l’uso del termine

“forma”, più specifico e filosoficamente connotato di res, dal momento che indica l’essenza di una sostanza. Tuttavia, questa supposta indipendenza del piano della verità “retorica” da quello della verità “scientifica” è un dato da tenere ben presente, dal

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momento che, come vedremo, Cavalcanti costruirà Donna me prega proprio sull’eliminazione sistematica di un tale scollamento.

Passando quindi a Rinuccino, la prima cosa che notiamo è di avere a che fare con una declinazione diversa del sonetto de natura amoris, poiché stavolta, a differenza di quanto è capitato con il Chi non sapesse ben, non si prende posizione sulla questione della natura divina dell’amore,7 ma se ne descrive “in positivo” la natura, a partire dalla metafora di derivazione lentiniana dell’amore come raggio e splendore:

Veracemente Amore à somiglianza di luce che risplende e dà lumera, ca, sì tosto ch’è apresa, s’inavanza e spande per natura la sua spera;

poi, quando vène i·loco ov’à già stanza, moltiplica e sormonta sua manera,

però che rifedir le dà baldanza, quando le vèn lo raggio per rivera.

Così l’amore aprendesi a lo core, moltiprica in pensare ed in vedere ed in piacer, che lo porta e ’l conduce.

Ma già neiente non è vero amore, se li due cor’ non tiene in un volere e co’ risguardi intra gli amanti luce.8

In questo caso le nozioni di scienza naturale sono messe in campo non per descrivere la realtà fisiologica dell’amore, ma per riprendere in maniera meno scontata di quanto forse ci si aspetterebbe una metafora già in quegli anni probabilmente sentita come abusata.

I vv. 3-8 infatti intendono allestire un piccolo “trattato” sulla propagazione e sulla riflessione della luce, mettendosi chiaramente sulla scia di modelli come Sì come il sol o

Or come puote, specificando però il fatto (di per sé non così scontato) che nel

meccanismo di riflessione del raggio luminoso ai due “capi” del suo percorso moltiplica il proprio splendore, facendosi abbagliante.

Questa stessa immagine infine è al centro anche nel sonetto di Maestro Francesco Se

non si move d’ogni parte amore, e anche se in quest’ultimo componimento la

trattazione è molto più sintetica e tutta contenuta nella prima terzina, bisogna dire che questa equivalenza fa effettivamente pensare ad un rapporto di interdipendenza tra i due

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Rinuccino tocca questo tema nel sonetto S’Amor fosse formato in dietate (e si noti l’uso filosofico del termine formato, ad indicare che l’equivalenza tra amore e divinità sarebbe possibile se l’uno avesse la forma dell’altro), dove peraltro la posizione assunta dal medico rimatore sembra essere la stessa che emergeva dai versi citati di Maestro Torrigiano.

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testi (tanto che Carrai, forse con scelta troppo radicale, li accorpa sotto la dicitura di “tenzone”). Riportiamo in ogni caso il testo del sonetto:

Se non si move d’ogne parte amore, sì da l’amata come da l’amante, non può molto durar lo suo valore, ché mezzo amore né ferm’è né stante,

ché di partir si sforza l’amatore sed e’ non truova parte simigliante; ma se si sente amato di bon core, l’amor sta fermo e pur sale ’n avante.

Però c’amore sì è [com’] la luce del sol, che cresce se ’l corpo alumato in sé la tiene e ’ndietro la riduce;

così l’amore, se l’amant’è amato, cresce e si notrica e si conduce, e d’ora in ora è l’om più ’namorato.9

Come si può osservare ai vv. 9-11, la similitudine è di fatto perfettamente identica a quella proposta da Rinuccino, ridefinendo l’imagerie lentiniana di Sì come il sol in termini scientificamente più precisi.

Da questa rapidissima rassegna dunque possiamo trovare in fondo un’ulteriore conferma di come l’influenza della filosofia naturale nella cultura poetica fiorentina emerga in maniera a volte anche evidente, ma venga in ogni caso utilizzata in maniera piuttosto marginale e discontinua. In altre parole, anche per questi medici-poeti il lingugaggio della scienza serve magari ad aggiornare qualche metafora, ma non viene in fondo mai considerato come uno strumento utile per costruire un discorso dotato di reali e concrete potenzialità conoscitive.

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SEZIONE II