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FRATE GUITTONE

IV. B REVE NOTA SU TRE EPIGON

Come è noto, l’influenza del magistero guittoniano sulla lirica duecentesca è non solo vasta, ma estremamente varia nei suoi esiti (si pensi alle differenze sostanziali che corrono tra un Meo o un Bacciarone e un Monte Andrea), e come è ovvio anche quella parte della lirica di Frate Guittone tutta presa a discettare di teologia, di vizi e di virtù, non ha fatto eccezione a questa regola. Basti pensare che in più di un caso possiamo vedere il rimatore aretino essere chiamato ad esprimere il proprio parere su questioni come la naturalità della virtù26 o la bontà di Dio.27 Senza avere dunque la pretesa di produrre un catalogo esaustivo di testi, potrà forse essere utile registrare qui tre casi in cui questo peculiare “stile dimostrativo” (che non si procede tanto ad illustrare e dare evidenza ad una verità quanto a difendere strenuamente una serie di premesse inconfutabili) di Guittone sia stato riproposto all’interno di componimenti che, a prescindere dal loro rigore argomentativo o dalla loro profondità dottrinale, si qualificano per il loro ruotare attorno a valori come la misura, la discrezione o in generale la pratica della virtù.

a) Meo Abbracciavacca

Il primo caso da citare è sicuramente quello di Meo Abbracciavacca. Da fedele discepolo dell’aretino, il rimatore pistoiese non manca di inserire in ogni suo componimento un qualche omaggio al più celebre poeta, ma in particolare possiamo qui citare due sonetti, il primo inviato proprio a Fra’ Guittone, e il secondo anch’esso parte di un’epistola (destinata però a Bindo d’Alessio Donati). Entrambe i componimenti infatti si pongono come brevi disamine su temi etici quali la naturalità della virtù (con

26

Cfr,. infra il sonetto di Meo.

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tanto di rielaborazione di una citazione aristotelica28) e la preminenza che nell’uomo la ragione dovrebbe avere sulla volontà:

Se ’l filosofo dice: «È necessaro mangiar e ber e luxuria per certo», parmi che[d] esser possa troppo caro lo corpo casto, s’el no sta ’n deserto. Ché nostri padri santi apportaro lor vita casta, como pare aperto: erba prendendo e aigua, refrenaro luxuria, che ci fier tropp’a scoperto.

Ché, per mangiare e ber pur dilicato, nel corpo abonda molto nodrimento che per natura serve al gennerare.

Vorrea saver da saggio regolato como s’amorta così gran talento non astenendo il bere e ’l mangiare.29

Non volontà, ma hom fa ragione, per che soperchia, vantagiando, fera; e, qual <to> sonmette a vogla operassione, torna disotto, ladove sopr’era.

Perciò, chi àve saggia oppinione, porta dinansi di ragion mainera, e di sé dritta d’om fa elessione, unde li· surge poi di gioi lumera.

E dunque, amico, ch’ài d’omo figura rassional, potente, bono e saggio, chome ti· sottopon visio charnale?

Pensa per ch’è l’umana natura, che di tutti anmali sovr’à barnaggio: non vorrai, credo, poi, vita bestiale.30

b) Un anonimo del codice Vaticano

Sul tema dell’ultimo sonetto però è interessante citare anche un altro componimento, in questo caso anonimo, conservato nel Vat. Lat. 3793. Del testo che riportiamo qui sotto ha già parlato ampiamente Gentili 2005, sottolineandone la limpida scansione ragionativa e i contatti con il modello della quaestio filosofica medievale. Per l’esattezza della tecnica argomentativa, bisogna riconoscere che un simile sonetto costituisce un caso più unico che raro nel panorama del guittonismo italiano, ma se osserviamo il tema trattato dal componimento e il messaggio veicolato da precise scelte

28

Cfr. per questa “triade” di appetiti naturali (fame, sete e appetito sessuale) Eth.Nic., VII 14 (1154a 17- 18) e anche in parte X 1 (1172a 19-21). Si tenga presente peraltro che questo tema dell’innaturalità della castità totale era uno dei temi al centro del dibattito filosofico tardoduecentesco, tanto che esso compare tra le proposizioni “averroiste” condannate da Tempier nel 1277 (cfr. inoltre infra, pp. 232-233).

29

Testo cit. da PD I, p. 342.

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lessicali come quelle del v. 8 («che follemente fanno soduzione»), possiamo facilmente accorgerci di avere a che fare, dal punto di vista dei contenuti, con un rimatore che doveva condividere in pieno i valori del frate aretino, pur declinandone il messaggio in maniera decisamente più spregiudicata e aperta nei confronti dell’indagine filosofica (soprattutto per quanto riguarda la psicologia):

Naturalmente animali e planti fanno tut[t]i loro operazïone come natura chere, e nonn-avanti, ché nulli sanno usare discrezione.

Ma l’omo ha due mutori in fatti manti, natura ed intelletto co·ragione:

natura vuole amar, però son tanti che follemente fanno soduzione: e’ son seguaci de la volontate non dicernando lo mal che n’avene e così pere, per voglia, ragione.

Ma·llo ’ntelletto sta con deïtate e contastare vuol chi non fa bene: però ha l’om diversa openione.

c) Bacciarone di messer Baccone

A completare quindi questa cursoria rassegna di epigoni di Guittone, non resta che citare il caso di un rimatore pisano a tutt’oggi quasi sconosciuto, giunto sino a noi attraverso un corpus estremamente esiguo e di livello non certo eccelso, ma che nella canzone Nova m’è volontà nel cor creata ha fornito una delle reinterpretazioni più interessanti e sistematiche dell’attacco guittoniano all’amor cortese. Data la lunghezza del testo (ben 132 versi) e la sostanziale assenza di elementi diversi da quelli messi in luce sin qui, basterà riportarne le prime due stanze, che ne costituiscono il nucleo più significativo:31

Nova m’è volontà nel cor creata, la qual conpreza l’alma e ’l corpo m’àve, volendo proferisca e dicha ’l grave crudele stato ch’è ’n Amor fallace. Peroc’ aquanto già fui su’ seguace, vol che testimonia renda ·ne dritta, ala gente veder faccia sconfitta che seguen lui, com’ell’è denudata d’onor, di prode e d’allegressa tocta, e come dal pie’ veste ’nfin al capo tutto ’l contrar (s’eo ben dir lo· sapo,

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dirò ·nn- un poco, poi no ’l cor mi· lascia), e come grave a pportar son soi’ fascia, e con’ sre’ mè[i’], [cu]i ten, tennese ·l gotta.

Ora dico, chi ·l segue, com’ei concia; che, disconciando loro e i loro e ’l loro, gridan ·ne punt’o no ne· fan mormoro, ma si· rallegran com’òr acquistasse. Par ·mi, di tai, son lor le vertù casse, non più che vist’àn d’om rassionale, poi prenden gioia e ddel lor cant’àn male e ddànno laude a chi tanto li ·sconcia, ciò è Amor; ché non stanchi si· vèno di coronar ·lo inpero d’ogni bene, e, sensa lui non mai nullo pervene, dicon, a ccosa, poss’avere onore. Unde cotal discende loro errore, di lassar ·si infrenar di sì reo freno.

95 CAPITOLOIV

A FIRENZE

CHIARO E I “MAESTRI”

In questa nostra panoramica della lirica duecentesca, è finalmente giunto il momento di osservare più da vicino la situazione del Comune di Firenze, che già della “rivoluzione” poetica ccavalcantiana e dantesca vede formarsi al suo interno una cultura lirica dal nostro punto di vista decisamente significativa. Accanto (e parallelamente) all’ortodossia guittoniana infatti si registrano in terra fiorentina casi in cui nel discorso poetico compaiono concetti propri della filosofia naturale, utilizzati con una consapevolezza non inferiore a quella di un Giacomo da Lentini o di Guido Guinizzelli.

Ovviamente, si può pensare che questo fenomeno sia dovuto in parte ad una generazione di poeti che si trovano qualificati nei codici col titolo di “maestri”, che qualificava i medici allo stesso modo in cui l’appellativo “ser” indicava di norma un notaio. La cultura medica infatti proprio nella seconda metà del XIII secolo stabiliva legami sempre più forti (soprattutto all’università di Bologna, sede di una non trascurabile enclave fiorentina) proprio con la “scienza della natura”, e non è quindi inverosimile che questi medici-rimatori sfruttassero una certa confidenza con l’osservazione di certi fenomeni naturali per dare un’impronta peculiare alla propria riflessione sulla natura dell’amore. Tuttavia, siamo ben consapevoli che limitarsi ad una spiegazione del genere sarebbe profondamente riduttivo, perché trascureremmo tutta la ricchezza di linguaggi che nel corso dei decenni entravano a far parte della langue della lirica, e che proprio sul finire del secolo (in corrispondenza con quel controverso gruppo di fenomeni che ricadono sotto l’etichetta di “Stilnovo”) troveranno la loro massima valorizzazione.

Come primo esempio di questo uso della filosofia nella lirica fiorentina “pre- cavalcantiana” sarà utile citare il caso di una tenzone tra uno dei più noti rimatori del comune toscano, Chiaro Davanzati, e un tale «Frate Ubertino», probabilmente originario di Arezzo, corrispondente di Guittone ed entrato anch’egli nei Frati Godenti

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attorno al 1265-66, per morire però, a differenza del più famoso collega, pochissimi anni dopo (forse nel 1269).1