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T RE ACCUSE E UN AVVERTIMENTO : VV 9-

DA PIÙ A UNO FACE UN SOLLEGISMO

III. T RE ACCUSE E UN AVVERTIMENTO : VV 9-

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La studiosa, oltre ai già citati esempi di Brunetto e Bono Giamboni, menziona anche il commento altomedievale a Donato redatto da Sedulio Scoto (cfr. Desideri 2001a, p. 208). Tuttavia, a margine di questi pur calzanti riferimenti, viene da chiedersi se non ci esista la possibilità (per quanto remota e difficile da verificare) che Cavalcanti si riferisca al barbarismo intendendolo come una storpiatura non solo della facies linguistica della parola, ma anche del suo reale significato.

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Cfr. Favati 1975, pp. 78-79.

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Si tenga però presente che le altre quarantacinque occorrenze di sofismo e affini nell’italiano due- trecentesco (consultabili nella banca dati TLIO) sono di fatto sempre utilizzate con almeno una sfumatura di negatività.

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Definiti dunque i principali capi d’accusa, non resta a Cavalcanti che addentrarsi con le terzine nella requisitoria finale nei confronti del suo avversario, tentando di convincerlo ad abbandonare un non meglio identificato progettto letterario, che agli occhi del poeta fiorentino doveva ancora una volta presentare tutti i difetti sin qui elencati. A ben vedere, è proprio in questi versi che il meccanismo della parodia sembra accentuarsi al massimo grado, poiché se Guittone aveva fatto della denuncia, dell’invettiva e del monito (anche personale) uno degli strumenti retorici foondamentali delle sue liriche morali più “militanti”, in questi pochi versi possiamo facilmente notare che Cavalcanti riproduce in scala questo meccanismo, ritorcendolo quindi contro chi più di tutti lo aveva utilizzato.

La prima terzina è una rapida sequenza di tre accuse, tre colpi ben assestati ancora una volta (se si accettano le premesse svolte nelle quartine) contro le rime dell’aretino volte a convertire e ad insegnare: «per te non fu giammai una figura / non fòri ha posto il tuo un argomento / induri quanto più disci».

Come è facile aspettarsi, anche attorno a questi tre versi si sono avvicendate negli anni diverse interpretazioni, che in alcuni casi modificano anche il testo tràdito dai manoscritti. Il primo problema infatti è stabilire un significato (o almeno una gamma di significati possibili) per l’ambiguo termine figura, che potrebbe valere “immagine”, ma anche “figura retorica” o addirittura (pensando all’incipit del componimento) “figura di sillogismo”.30 Resta poi da capire il senso generale del v. 10, tràdito da Bart3 nella forma «non fora apposto il tuo in argomento» e da Ca «non fori aposto il tuo un argomento», ma che si trova edito in forme come «non fori ha’ posto in tuo un argomento» (Favati 1957, seguito da Contini in PD II); e infine anche per il v. 11 si ha un problema di natura anche testuale, dal momento che la tradizione è unanime nel riportare «induri quando più dissi» («quanto più disci» è congettura di risalente già a Pellegrini 1895), negli ultimi anni messa in discussione da più parti).

Innanzitutto, prima di addentrarci nei particolari che rendono così problematica questa breve porrzione di testo, varrà la pena tenere ben presente che figura e

argomento sono, insieme all’“indurare” del v. 11, termini che non potranno essere presi

in considerazione separatamente l’uno dall’altro, ma che al contrario andranno intesi come tre elementi complementari, funzionali (nell’ottica di Cavalcanti) a rendere ancor più completa e ficcante la polemica antiguittoniana.

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Il caso più evidente dell’importanza di questa attenzione al contesto lo si trova già al momento di interpretare il termine figura. Intendere questa parola nel senso di “figura di sillogismo”, come avviene nel commento di Cassata 1993, sarebbe soltanto una ridondanza nei confronti di quanto detto all’inizio del sonetto, senza contare che a questo punto anche l’argomento del verso successivo finirebbe per costituire una inutile ripetizione, che verosimilmente Cavalcanti avrebbe evitato nell’ambito di una trattazione così densa e concentrata in poco spazio. Per quanto riguarda poi la possibilità che figura rimandi semplicemente ad un’“immagine”, lascia qualche dubbio il fatto che all’interno di un discorso molto compatto e oscillante tra i poli della retorica e della logica, compaia a questo punto un riferimento all’ambito figurativo, senza che poi abbia alcun seguito nel prosieguo del testo.31

Decisamente più convincente appare invece la scelta di intendere figura nel senso di “figura retorica”, a patto però di non far derivare da questa scelta una parafrasi semplicistica come ‘tu non sei mai riuscito a costruire una figura retorica’, interpretazione che comporterebbe alcune difficoltà non da poco. Come infatti ha già rilevato da Ciccuto, sarebbe piuttosto paradossale pensare che Guido stia qui accusando Guittone di non aver fatto mai ricorso a quegli strumenti di cui l’aretino non perde occasione di far sfoggio (a volte anche a discapito della comprensibilità del testo);32 ma si potrebbe aggiungere che una simile ipotesi sarebbe anche incoerente rispetto al contesto, perché Cavalcanti cadrebbe in contraddizione rispetto a quanto affermato nelle quartine, in cui l’aretino era accusato non tanto di non saper poetare o ricorrere ad artifici retorici, ma piuttosto di non essere in grado di gestirli correttamente («nel profferer che cade ’n barbarismo»), e di armonizzarli ad una struttura logica e conoscitiva coerente (a causa del suo “partirsi” dal corretto uso del sillogismo).

A questo proposito, una lettura che sfrutta consapevolmente tutto il potenziale retorico del termine senza cadere in facili banalizzazioni è quella di Ciccuto, che «la parola-rima del v. 9 pare indicare la concrezione figurativa tipica della poesia cavalcantiana, l’oggettivazione in figura e la personificazione».33 Alcuni commentatori come De Robertis 1986 e Berisso 2006 hanno però indicato (pur senza approfondire il

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Se poi la menzione di un’immagine fosse da ritenersi collegata alla possibilità di identificare il “volume d’insegnamento” (di cui al v. 12) con la corona di sonetti Del carnale amore, il discorso si farebbe addirittura contraddittorio, poiché quel testo (al di là del suo essere agli antipodi dei principi sottesi al sistema lirico cavalcantiano) si origina proprio a partire da una figura.

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Cfr. Ciccuto 1985a, pp. 42-43.

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tema) una linea interpretativa altrettanto convincente, e forse potenzialmente ancor più efficace, richiamando su questo punto il parallelo del celeberrimo cap. 16 [XXV] della

Vita Nova. Come è noto, in questo breve passaggio in prosa Dante discute proprio della

legittimità delle figure retoriche, vincolando l’operato del poeta ad un criterio apparentemente semplice, ma in realtà per nulla scontato: la condizione fondamentale per cui una figura possa dirsi ben scelta e ben utilizzata è che l’autore conosca nella sua vera essenza la realtà che rappresenta figuralmente, e che di conseguenza sappia scegliere il procedimento retorico più appropriato. In quest’ottica, il rimprovero di Cavalcanti non va a mettere in luce una presunta incapacità nel formulare una figura retorica tout court (incapacità che sarebbe stata ben difficile da sostenere), ma serve piuttosto a Guido per ribadire che ogni figura usata da Guittone era contaminata da un «difetto di saver» che si estendeva dal piano logico-concettuale a quello espressivo.

Questa proposta interpretativa si attaglia peraltro benissimo al contesto, poiché in questa prospettiva figura e argomento diventano termini complementari, simboleggianti l’incapacità che Cavalcanti attribuisce all’aretino di imbastire tanto una veste retorica consona alla rappresentazione della realtà dei fatti, quanto una prova reale, ben argomentata, delle proprie affermazioni. Il v. 10 in questo modo non avrà bisogno di modifiche congetturali, ma sarà da leggere secondo la lezione di Ca («non fori ha posto il tuo un argomento»), così parafrasabile: ‘la tua opera non ha prodotto neppure una dimostrazione’.34

Già all’inizio delle terzine si propone dunque una variazione di quell’attacco che nei primi otto versi Cavalcanti aveva sferrato contro l’incapacità di Guittone di trovare un modo adeguato di esprimere nel codice del linguaggio poetico un pensiero coerentemente strutturato, solo che in questo caso vediamo comparire un nuovo elemento polemico: l’“indurirsi” del v. 11, che rende impossibile a Guittone correggere i propri difetti, e anzi fa sì che essi diventino sempre più gravi. Avendo colto il senso generale del passo, Flaminio Pellegrini (nella sua recensione del 1895 all’importante saggio cavalcantiano di Salvadori, pubblicato in quello stesso anno) aveva proposto di

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Questa parafrasi non si riscontra in nessun commento. Le soluzioni più vicine sono (pur derivanti da lezioni diverse) quelle di De Robertis 1986 «non sarebbe mai addott[o] ad argomento il tuo, un argomento come il tuo» e Ciccuto 1978 «la tua poesia non ha mai prodotto alcunché di originale». Berisso 2006 legge «non for’ aposto il tuo in argomento», cioè «“ciò che hai scritto non è mai stato utilizzato da altri” […] letteralmente: all’interno di un’argomentazione», ma non è chiaro il senso di un’affermazione del genere all’interno del contesto. Si cita infine solo per dovere di completezza l’invasiva congettura di Cassata 1993 (ripresa da Rossi 1997) «no ’nfra li tuoi aposto un argomento», che forza la lezione tràdita senza alcun vantaggio dal punto di vista del senso (il verso significherebbe “tra i tuoi argomenti non ce n’è uno pertinente [= aposto]”).

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correggere il verso in «induri quanto più disci», proposta che, passata di fatto in giudicato nell’edizione Favati 1957, è rimasta in auge ancora per alcuni decenni, finché a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, ha cominciato ad essere messa in discussione su più fronti. Dapprima Letterio Cassata, nella sua edizione cavalcantiana del 1993, ha proposto di tornare parzialmente alla lezione tràdita, ma scandendo la sequenza in maniera diversa («’nduri quanto più di’ “ssì è”»);35 alcuni anni dopo Giovannella Desideri ha suggerito in un suo articolo di ripristinare del tutto la lezione «quando più dissi», per poi parafrasarla nel seguente modo: «Induri» (cioè: “ti mostri superbo e duro di cuore”, nell’interpretazione della studiosa) «quando più [ti] dissi»;36 e infine Marco Berisso, nella sua già citata antologia dello Stilnovo, ha di fatto accolto la proposta della Desideri, modificando però leggermente la parafrasi in «quanto più ti dissuado, tanto più ti ostini in questa direzione».37

Posto che la lezione propugnata da Cassata può essere accantonata senza particolari remore (si tratta infatti di un ritorno solo parziale al testo tràdito, e la segmentazione proposta dallo studioso forza sintassi e significato del verso in maniera davvero eccessiva), bisogna riconoscere a Desideri e Berisso che il tentativo di salvare il testo riportato dai codici è tutt’altro che banale. Restano però due difficoltà che, almeno a parere di chi scrive, fanno ancora preferire la lezione congetturale tradizionalmente accolta. La prima consiste nel fatto che la proposizione «quando più dissi» nel senso di “quanto più ti dico” non ha in realtà paralleli convincenti nella lingua del Duecento, e quindi è a ben vedere meno accettabile di quanto non sembri a prima vista (quanto meno se si vuole mantenere il senso che propongono gli studiosi);38 la seconda invece nasce dal constatare che «induri quanto più disci» non solo riflette una banalizzazione tanto “facile” da commettere quanto irreversibile (da disci a dissi), ma corrisponde perfettamente all’ultimo componente che serviva a questa terzina “accusatoria” per

35

Cfr, Cassata 1993. Questa ipotesi si trova accolta in Rossi 1997, p. 410.

36

Cfr. Desideri 2001b, p. 474.

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Cfr. Berisso 2006, p. 199.

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Tutti i casi di “quando più” che Desideri 2001a indica come sostituibili con l’espressione “quanto più” sembrano in realtà essere ben poco calzanti. Ad esempio, i versi di Guittone «ché, quando più ira aggio / o più doglia sostegno, / ad un pensier m’avegno» non significano che “quanto più mi adiro o mi addoloro, penso”, ma piuttosto “allorché provo più ira o dolore, etc.”, quindi descrivendo non tanto una proporzionalità (che nel caso di Cavalcanti è decisiva per rendere il senso di “quanto più ti parlo, tanto più tu ti ‘indurisci’” proposto da Desideri), quanto una eventualità (“quando accade X, allora si verifica la conseguenza Y”). Lo stesso discorso si può fare non solo per le altre occorrenze citate dalla studiosa, ma anche per tutte quelle documentate nel corpus TLIO (poco più di una settantina). La lettura di Desideri è seguita anche da Berisso 2006, che però non approfondisce il tema e mostra di preferire questa ipotesi semplicemente perché consente di mantenere il testo tràdito.

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stigmatizzare anche un ultimo aspetto della lirica guittoniana, toccato sinora solo in maniera marginale, ma legato indissolubilmente a quanto affermato da Cavalcanti dall’inizio sino a questo punto. Se infatti Guittone, nel suo tentativo di costruire una lirica “persuasiva”, paga un «difetto di saver» che mina tanto la struttura logica del discorso, quanto la sua veste formale, è ovvio che ogni tentativo di compensare queste mende infarcendo i componimenti di sentenze tratte dalle più varie auctoritates non condurrà ad altro (nella prospettiva cavalcantiana) che ad un progressivo “indurimento” tanto dell’intelletto del rimatore quanto dei suoi testi.

Sistemato dunque anche l’ultimo tassello di questo mosaico di attacchi, accuse e rimproveri, si arriva finalmente alle ultime battute di questo tour de force polemico, che si chiude su un vero e proprio monito:

[…] e pon’ cura, ché ’ntes’ ho che compon’ d’insegnamento volume: e fòr principio ha da natura.

Fa’ ch’om non rida il tuo proponimento!

(vv. 11-14)

Se la difficoltà dei versi precedenti era dovuta all’intrinseca difficoltà del dettato (come la definizione di sillogismo) o all’ambiguità dei termini utilizzati (come «figura» al v. 9), qui a creare problemi è il riferimento a circostanze di cui noi non siamo a conoscenza. Cos’è infatti questo “volume d’insegnamento” che si fonda su principi estranei a quelli che regolano la natura?39 Trattandosi di un poeta celebre come Guittone, autorità poetica per eccellenza nei canzonieri duecenteschi e per di più proclive (come ben sappiamo) ad organizzare i propri testi in sillogi o corone secondo precise strategie comunicative, è ragionevole supporre che l’attacco di Cavalcanti si appunti su un testo conservato. L’ipotesi tradizionale (e tutt’oggi forse la più convincente) può essere considerata quella che vede in questo «volume» la corona di sonetti Del carnale amore, conservata nel codice Escorialense,40 ma come si può

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Non convince la diversa lettura, avanzata ancora una volta da Desideri e ripresa da Berisso, per cui «fòr principio ha da natura» si riferirebbe all’atto stesso di comporre il «volume» («è contro l’ordinamento naturale che tu possa comporre un volume di insegnamento», Desideri 2001a, p. 204). Dal momento infatti che lungo tutto il sonetto Cavalcanti contesta il modo sbagliato con cui Guittone compone, sembra più probabile che anche in questo caso l’accusa sia diretta contro l’errata impostazione di questa nuova opera, e non sul fatto stesso che essa venga scritta, anche perché da un lato il fatto di scrivere un’opera di insegnamento non ha nulla di innaturale (a prescindere dalle capacità dell’autore), e dall’altro Guido ha appena finito di rimproverare l’ostinazione dell’aretino nel non capire che deve cambiare l’impostazione stessa del suo ragionare in versi («induri quanto più disci»).

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facilmene immaginare, le ipotesi sono state diverse e molto distanti tra loro: De Robertis ad esempio ha ipotizzato che Da più a uno attaccasse la canzone guittoniana

Poi male tutto è nulla (di cui abbiamo trattato alcuni capitoli fa), e che per volume si

intendesse magari una lettera che accompagnava quella lirica;41 Claudio Giunta (seguito da Giovannella Desideri) ha suggerito che il bersaglio del Guido fiorentino potrebbe essere invece una raccolta di lettere in quel momento in corso di allestimento;42 e non è mancato chi ha indicato nel «volume» l’intero codice Laurenziano, considerato da alcuni (come già accennato in precedenza) un vero e proprio canzoniere d’autore.43

Posto dunque che nessuna di queste teorie può considerarsi priva di punti deboli, bisogna però riconoscere che esse presentano diversi gradi di probabilità. Appare infatti decisamente improbabile che la polemica di Guido fosse indirizzata alla canzone Poi

male tutto è nulla, poiché dal punto di vista stilistico o formale non c’è nessun tipo di

indizio (né alcuna ripresa lessicale o sintattica) che ci faccia pensare a quel preciso testo di Guittone, e dal punto di vista dottrinale i due componimenti sembrano svilupparsi su piani decisamente diversi e di fatto mai comunicanti.44 Se poi si accetta quanto detto sino ad ora sul fatto che Da più a uno prende di mira essenzialmente l’incapacità del

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Lo studioso non entra nel dettaglio, ma si limita ad affermare che il volume in questione potrebbe essere un trattato che, come la seconda metà della lettera a Gianni Bentivegna (tutta sulla questione della vita eterna) riprenda temi e metodi argomentativi della canzone Poi male tuto è nulla, ritenuta da De Robertis il vero bersaglio del sonetto cavalcantiano (cfr. De Robertis 1986, pp. 184-186 e, per una critica di quesa ipotesi, infra n. 44).

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Cfr. Giunta 1998 e Desideri 2001a, pp. 204-207.

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Particolarmente incline a questa ipotesi è stato Leporatti 2001. In generale, per l’ipotesi di una natura prettamente autoriale del codice Laurenziano, cfr. quanto detto supra, a p. 69. Pur essendosi in più occasioni dimostrato scettico circa le idee di Picone, Holmes e Leporatti, Lino Leonardi ha segnalato (con estrema cautela) che tra i potenziali referenti del volume menzionato da Cavalcanti potrebbe esserci anche non tanto il Laurenziano nel suo insieme, quanto quella corona di sonetti (contenuta nello stesso codice) dallo stesso studioso scoperta ed edita (cfr. Leonardi 1994, p. LV).

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L’equivoco in cui sembra cadere De Robertis emerge quando lo studioso afferma che la canzone guittoniana affronterebbe un tema «su cui si gioca la ‘fama’ secolare di Guido, che appunto “le sue speculazioni” fossero “solo in cercare se trovar si potesse che Dio non fosse”», provocando quindi Cavalcanti, che dunque avrebbe risposto con questo sonetto per rifiutare il tentativo di Guittone di dimostrare «ciò che non è dimostrabile». Per discutere questa affermazione, si potrebbe prendere le mosse proprio dal fatto che il celeberrimo passo boccacciano contenuto nella citazione appena riportata, poiché l’ateismo di Cavalcanti (come ha dimostrato Inglese 1992) è opinione errata e superficiale che il certaldese mette in bocca ai giovani della brigata, che non capiscono il valore della (pur eterodossa) riflessione filosofica di Guido. Per un aristotelico come Cavalcanti infatti la dimostrazione dell’esistenza di Dio non era materia di fede, ma oggetto di trattazione sommamente scientifica, dal momento che Aristotele stesso si era dedicato alla dimostrazione dell’esistenza e delle caratteristiche del Primo Motore Immobile, sia in Physica VIII, sia in Metaphysica XII. Senza dunque entrare in questioni più specifiche, su cui invece è verosimile pensare che Guido e Guittone si sarebbero schierati su fronti opposti (come quella, sempre menzionata in Poi male tutto è nulla, della salvezza dell’anima e dell’esistenza di Paradiso e Inferno, ma di cui Cavalcanti in ogni caso non tratta mai esplicitamente), quanto osservato finora dovrebbe bastare per spingerci a restare ancor meglio ancorati al dato incontrovertibile dell’attacco portato dal rimatore fiorentino alle tecniche argomentative e poetiche dell’avversario, consentendoci di accantonare la candidatura di Poi male tutto è nulla a bersaglio principale.

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frate aretino di comporre un ragionamento logico «per silabate carte», diventa difficile pensare ad una raccolta di lettere, che solo in parte rispondono al requisito di essere scritte in metro (a meno che non si tratti di una silloge di epistole metriche, della quale però non sapremmo nulla). Per quanto riguarda infine l’ipotesi concernente l’intero codice Laurenziano, basterà dire che una condizione fondamentale per prendere in considerazione questa possibilità è quella di essere convinti del fatto che il canzoniere pisano sia effettivamente stato voluto e allestito in toto sotto la supervisione di Guittone, cosa che Lino Leonardi e Claudio Giunta hannno messo in discussione con notevole efficacia.45

E la silloge dell’Escorialense? Questa corona di sonetti presenta diverse caratteristiche che la rendono di fatto il miglior “candidato” al ruolo di bersaglio degli strali di Guido: come sappiamo, la silloge si costruisce attorno ad un’immagine dell’amore costruita osservando alla lettera il canone cortese, e i sonetti che fisicamente circondano l’immagine ne offrono insieme una descrizione e un’interpretazione allegorica, finalizzata a distogliere l’uomo dalle insidie dell’amore carnale. da queste premesse, è facile dunque intuire che un simile testo ben risponde sia al requisito dell’intento “didascalico”, sia a quello della “non naturalità” delle sue premesse, dal momento che l’amore che in esso si rifiuta non è descritto in osservanza alle caratteristiche reali (“naturali” appunto) della passione, ma a partire da una premessa puramente retorica e figurale, del tutto estranea alla realtà fenomenica della passione.

Ovviamente, resta il problema di capire in che senso questo macrotesto di dimensioni piuttosto ridotte potesse essere considerato un «volume», e in che senso Cavalcanti potesse parlarne come di un’opera in fieri («’ntes’ ho che compon’», v. 12), caratteristiche che a dire il vero ben si attaglierebbero a quella (ipotetica) perduta