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U NA NOTA SUL TROBAR CLUS DI O RA PARRÀ S ’ EO SAVERÒ CANTARE

FRATE GUITTONE

II. U NA NOTA SUL TROBAR CLUS DI O RA PARRÀ S ’ EO SAVERÒ CANTARE

Se c’è però un tratto che è da sempre considerato distintivo dell’esperienza guittoniana, è senza dubbio quello del “parlare scuro”, vale a dire di una delle più sistematiche (insieme a quella attuata da Inghilfredi da Lucca, peraltro molto meno influente) declinazioni italiane del trobar clus già provenzale.

Il virtuosismo linguistico, la ricerca del dettato complesso e non comunque non “trasparente” sono caratteri propri tanto del Guittone poeta d’amore, quanto del convertito, ma anche in questo caso il fatidico 1265 costituisce uno spartiacque le cui conseguenze saranno da osservare con attenzione. Canzoni come Tutt’or s’eo veglio o

dormo o sonetti al limite dell’intelligibilità come A far meo porto, sembrano infatti

concepiti come tentativi di affermare la propria eccellenza nei confronti di un pubblico che già condivideva i valori che costituivano la materia di quei componimenti, mentre al contrario Ora parrà s’eo saverò cantare e Nescienza e più scienza carnale sono testi che con gli stessi mezzi tentano di convincere un uditorio non necessariamente ostile, ma di certo non allineato sugli stessi presupposti del loro autore.

È dunque legittimo intendere il ricorso allo stile scuro come un mezzo retorico dotato di valore conoscitivo, da porsi sullo stesso piano del ricorso guinizzelliano alla similitudine e dell’organizzazione logica delle canzoni bonagiuntiane osservate poche

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pagine addietro? Benché il dibattito critico sulla funzione del trobar clus sia ovviamente orientato per lo più sull’analisi di esempi transalpini,7 sono sostanzialmente tre gli spunti ancor oggi utili per interrogarci sulla funzione del «parlare scuro» in Guittone e in generale nella lirica italiana duecentesca: il primo viene da un saggio del 1977 di Roberto Antonelli, dove il critico, pur senza parlare direttamente di Guittone, sottolineava come «il massimo della coscienza e quindi dei risultati cui potranno pervenire questi poeti […] [sarà] segnato dal riconoscimento, sempre implicito peraltro, del divario che passa fra il loro virtuosismo tecnico e il reale […]. Lo spessore formale della loro poesia e soprattutto l’esasperazione frequente delle tecniche compositive saranno così fra i punti in cui la verifica di un “mestiere” e insieme dei suoi limiti sarà più evidente».8 Il secondo spunto, sulla stessa linea, è quello di Marcello Ciccuto, che sottolinea alla radice di questa ricerca dell’oscurità il ruolo giocato da quella parte di cultura teologica medievale che reputava positivo ciò che era meritevole di esegesi, e che vedeva nella difficoltà del linguaggio poetico un modo per addentrarsi alla scoperta della radice divina (e quindi misteriosa) della realtà.9 Diverso infine l’approccio di Claudio Giunta, che afferma come in ambito italiano l’elemento decisivo per comprendere il problema consista nel rilevare una costante corrispondenza tra tema e stile, cioè un simmetrico ricorso da parte dei rimatori al trobar leu per cantare la gioia d’amore e al trobar clus per esprimere il proprio dolore o, nel caso di Guittone, il rifiuto dell’amor cortese.10

Senza addentrarci in un discorso generale sull’opposizione trobar clus/trobar leu, si può comunque notare che nel caso specifico della lirica di Guittone tutti e tre questi aspetti si trovano a cooperare (pur in misure di volta in volta diverse) alla costruzione dei vari componimenti; ma se a questo punto abbiamo accettato il presupposto che l’oscurità guittoniana abbia in qualche modo a che fare con la possibilità di interpretare ed esprimere correttamente la realtà, potrò valer la pena concentrarci sulla già più volte citata Ora parrà, testo di fatto indispensabile per comprendere cosa concretamente significhi e come si esprima questa nuova tensione guittoniana alla conoscenza:

Ora parra s’eo saverò cantare e s’eo varrò quanto valer già soglio

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Si vedano su questo almeno i classici Mölk 1968, Mancini 1969, Paterson 1975, Köhler 1987.

8 Cfr. Antonelli 1977, p. 53. 9 Cfr. Ciccuto 1985c. 10 Cfr. Giunta 1998, pp. 224-245.

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poi che del tutto Amor fugh’ e disvoglio e più che cosa mai forte mi spare;

ch’ a omo tenuto saggio audo contare che trovare – non sa né valer punto homo d’amor non punto;

ma’ che digiunto – da verità mi pare se lo pensare – a lo parlare – senbra, ché ’n tutte parte ove distringe Amore reggie follore – in loco di savere: donque como valere

né piacere – pò di guiza alcuna fiore poi dal fattore – d’ogni valore – disenbra e al contraro d’ogni mainer’ asenbra?

(vv. 1-15)

Come dicevamo poche righe sopra, questa canzone non costituisce un attacco o una contestazione diretta nei confronti dell’amore (come accadeva invece in O tu de nome

Amor), ma piuttosto vuole stabilire al di là di ogni dubbio la possibilità di «cantare»

senza essere soggetti alla passione amorosa. Se infatti analizziamo i temi trattati stanza per stanza, ci accorgiamo che innanzitutto il poeta fornisce i fondamenti morali per «cantare […] e valer bene» (v. 16), che consistono nell’ossequio alla legge (v. 17), la pratica della saggezza (v. 18), l’amore di Dio e la ricerca della vera gloria (v. 19); in seguito, con la terza e la quarta stanza, Guittone si scaglia contro quei vizi che compromettono in vario modo questi fondamenti, con particolare attenzione alla malizia e all’avidità in tutte le loro declinazioni. La quinta stanza poi propone una difesa appassionata della virtù della giustizia, garantita da Dio, ma desiderabile in sé e per sé; il congedo infine, chiude sul lamento tipico del saggio inascoltato («Ai come valemi poco mostransa», v. 76), che vede il mondo attorno a sé così assiduo nella «malvagia uzansa» da non rendersi conto che «Non è ’l mal più che ’l bene a far leggero», precludendosi così la possibilità di volgersi al bene.

Il rifiuto d’amore riportato nell’incipit è quindi da intendersi come un elemento importante soprattutto in chiave di elaborazione stilistico-retorica, poiché giustifica la straordinaria tensione comunicativa generata attraverso la combinazione di un pattern metrico tra i più elaborati di tutto il Duecento (paragonabile, e non a caso, soltanto a

Donna me prega) e il consueto ricorso quasi ossessivo a figure retoriche di ogni genere

e tipo. Non a caso infatti la sfida è lanciata sul piano del “saper cantare”, e l’antagonista prescelto (vv. 5-7) è quel Bernart de Ventadorn che era nella sua celeberrima Chantars

no pot gaire valer aveva teorizzato l’inidissolubile corrispondenza biunivoca tra

capacità di dire e capacità di amare. Se però non ci si ferma a questo primo livello di evidenza, si può notare che proprio nel rifiuto di questo “dogma bernartiano” è implicito

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l’aspetto forse più interessante per tentare di mettere a fuoco la funzione conoscitiva dello stile clus guittoniano.

Ai vv. 8-9 Guittone afferma «ma che digiunto da verità mi pare / se lo pensare a lo parlare senbra», affermando cioè di voler finalmente stabilire una corrispondenza tra pensiero e parola, e di conseguenza facendo del parlare scuro non soltanto un mezzo con cui “nobilitare” e insieme rendere più elitario il proprio discorso (concedendosi alla comprensione dei soli conoscenti), ma anche un modo di “corrispondere alla realtà”. In altre parole, la difficoltà dello stile serve a “mostrare” verità ormai disconosciute e realtà difficili da accettare, smascherando al contempo il paradosso di una società dedita al male per un doppio fraintendimento, che consiste da un lato nel credere che da esso possa nascere la felicità, e dall’altro nell’illudersi che il bene sia troppo difficile da seguire.

Ovviamente, siamo ben consci che i tratti sin qui delineati del “nuovo programma” poetico di Fra’ Guittone non sono certo sufficienti a rendere ragione di una produzione che si sviluppa per trent’anni, e in cui si accentuano di volta in volta sempre differenti. In particolare però può essere interessante rilevare come nei testi più tardi di Guittone si accentui (forse anche in seguito agli inevitabili contatti con le l’esperienza poetica di Cavalcanti, che in fondo muore solo sette anni dopo l’aretino) la volontà di difendere e propugnare i capisaldi della propria weltanschauung, ricalcando sempre di più movenze ed esemplificazioni di carattere trattatistico, e riversando un numero sempre maggiore di auctoritates nei testi (o comunque rendendo sempre più espliciti i rimandi a esse). In questo processo di crescente commistione tra forma-canzone e testi come la Summa peraldina, diventa sempre più sistematico il tentativo di creare una sinergia tra sapienza cristiana e filosofia antica, all’insegna di una comune difesa della virtù. Proviamo quindi a osservare alcuni esempi.