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Terminata la lunga marcia di avvicinamento che ci ha condotto ad osservare i dintorni del soggetto vero e proprio della nostra ricerca, è giunto finalmente il momento di cominciare ad affrontare il testo di Donna me prega, soffermandosi analiticamente su ogni passaggio di un questa canzone, che dal principio alla fine tenta di portare il linguaggio lirico ad un nuovo livello di potenza conoscitiva, attraverso una declinazione estremamente innovativa di quella “retorica della conoscenza” di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti.

Donna me prega, - per ch’eo voglio dire d’un accidente - ch’è·ssovente - fero ed èsi altero - ch’è chiamato amore: sì chi lo nega - possa ‘l ver sentire!

Ond’ a presente - canoscente - chero, 5 perch’io no spero - ch’om di basso core

a tal ragione porti canoscenza: ché senza - natural dimostramento non ò talento - di voler provare

là dov’e’ posa, e che lo fa creare, 10 e qual sia sua vertute e sua potenza,

l’essenza - poi e ciascun suo movimento, e ’l piacimento - che ’l fa dire amare, e s’omo per veder lo pò mostrare.1

Cominciamo dunque dall’esordio di questa canzone, che ci pone immediatamente di fronte ad un problema di “metodo” circa il rapporto che Cavalcanti mostra di voler stabilire con la tradizione lirica e con la cultura scientifica del suo tempo.

Donna me prega, perch’eo voglio dire

1

Il testo della canzone che in queste pagine si cita non è tratto sistematicamente da una delle più recenti edizioni. Le doverose considerazioni sulla tradizione manoscritta della canzone e i criteri filologici in base ai quali è stato costituito questo testo si trovano esposti al termine di questo commento, in un capitolo a parte in cui ovviamente saranno spiegate (si spera in modo soddisfacente) le ragioni di questa poco ortodossa disposizione della materia.

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Benché piuttosto limpido nel suo senso letterale, questo incipit non ha mancato di sollecitare gli interpreti, proprio in ragione del suo chiamare in causa sin da subito una non meglio specificata “donna”. Se infatti il rivolgersi direttamente all’amata (indicata non di rado come sorgente stessa del canto) era prassi consolidata sin dalle origini della lirica d’amore medievale,2 in questo caso la declinazione del topos appare piuttosto eccentrica, dal momento che la donna che occupa l’esordio scompare subito dal testo per non tornarvi più, “sostituita” nel suo ruolo di interlocutore prima dal lettore «conoscente» del v. 5 e poi dalle «persone ch’ànno intendimento» menzionate nel congedo (v. 74).

Posto quindi che una simile mossa di apertura da parte di Cavalcanti non può essere casuale, è necessario interrogarsi sul significato di questo primo verso nell’economia dell’intera canzone. Perché infatti parlare di una donna all’inizio di un componimento rigorosamente teorico, in cui l’autore compare in veste di filosofo più che di amante? E perché indirizzare a una donna un testo così fitto di complesse nozioni scientifico- filosofiche, verosimilmente fuori portata anche per quel tipo di figura femminile rappresentata dai poeti come «saggia e canoscente»,3 cioè perfettamente a suo agio con le regole e le pratiche imposte dal “gioco” cortese della fin’amors?4

Uno dei due più antichi commenti alla canzone, elaborato dal medico fiorentino Dino del Garbo († 1327), opta per un’interpretazione lineare e abbastanza immediata: Guido dice di scrivere su richiesta di una donna innanzitutto perché «huiusmodi passio, que est amor de quo loquitur, ut plurimum circa mulierem versatur; et licet aliquando erga masculum versetur (sed raro, cum sit talis amor bestialis et ideo preter naturam), ideo solum hic proponit circa mulierem» (§ 3).5 Questo primo verso servirebbe dunque a rendere in un certo modo più preciso il soggetto trattato da Cavalcanti, puntualizzando, tramite il riferimento a una donna, come l’amore cantato in queste cinque stanze debba

2

L’apostrofe iniziale alla donna presenta anzi un ruolo quasi “fondativo” nella lirica italiana delle Origini, vista l’importanza della canzone lentinana Madonna dir vo voglio per la costituzione della langue poetica della Penisola.

3

Fortunata dittologia coniata probabilmente da Guittone (Non per meo fallo, v. 10; cfr. Egidi 1940, son. D. 125).

4

Un esempio particolarmente noto e significativo di donna rappresentata non solo come “conoscente”, ma come vera e propria autorità circa le questioni d’amore è quello di Maria di Champagne, a cui Andrea Cappellano, nel suo De amore, indirizza una lettera (riportata con la relativa risposta della duchessa). Anche in questo caso però si tratta, come già accennato, di una conoscenza tutta fatta di buon senso ed esperienza, estranea ad ogni contatto con la cultura o l’argomentazione di carattere più strettamente scientifico-filosofico.

5

Salvo diversamente indicato, il testo dello Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus di Dino del Garbo è da considerarsi citato da Fenzi 1999 (pp. 86-132).

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essere rigorosamente eterosessuale, nonché rivolto (come si stabilisce al § 7) ad una donna “fisiologicamente” in grado di intendere un discorso articolato («nomen donna attribuitur mulieri cum iam habeat cognitionem perfectam», § 7) e “moralmente” incline a concepire un amore totalmente gratuito («illud nomen attribuitur mulieri honeste: mulier enim meretricia non dicitur donna», § 7).

L’antichità del testimone, il buon senso che traspare da questa lettura e il fatto che essa colga effettivamente nel testo la risposta alla questione cruciale dell’oggetto dell’amore (questione che altrimenti resterebbe implicita per tutta la durata della canzone), sono sicuramente i tre principali fattori che hanno decretato il meritato successo di questa ipotesi interpretativa, accolta con particolare decisione nel Novecento da studiosi attenti come Nardi, Savona e Fenzi. Prima però di accogliere con disinvoltura la prospettiva offerta dalla glossa garbiana, sarà bene notare che l’altro commento trecentesco a Donna me prega, l’Esposizione erroneamente attribuita ad Egidio Colonna, propone un’elaborazione critica più complessa di questo esordio, di cui sarà opportuno tenere conto.

In questa composizione infatti l’ignoto commentatore chiosa il primo verso in un’ottica molto simile a quella di Dino:

«Volendo l’autore dire dell’amore propuose inprimamente e disse: Donna, considerato ragionevole principio che come il sole per allegrare e rinovare lo mondo da oriente e per occidente tende en oriente a perpetual suo movimento, e come li fiumi nascono da mare et al mare tendino per ancora più nascere, così l’amore comincia dalle donne e nelle donne tende, e però puose l’autore ragionevole principio […], cominciando da quella cosa dalla quale amore à suo nascimento».6

Tuttavia, è interessante notare come questa prudente lettura sia esposta soltanto al termine di una breve introduzione di carattere allegorico, incardinata proprio sul verso esordiale, in cui si legge la «donna» in primo luogo come una personificazione dell’amore, rappresentata nell’atto di chiedere al poeta di celebrarla in una canzone:

Ne l’altro monte il quale era più alto stavano due donne, et in mezzo di loro era una bellissima fonte alla quale io soleva andare spesse volte a bere. Onde volendo io andare a bere come era usato, convennemi passare davanti alla donna prima e ’n sul passare vidi uno donzello davanti d’essa stare inginocchiato, al quale la donna dicea queste parole: «Tu mi conosci per faccia e per costumi, e sai bene ch’io sono amore. […] tu se’ philosofo di sapienza pieno, et imperò che non se’ dell’amor servo ma se’ amico, non ti comando ma io ti priego che tu rinovelli al mondo la mia memoria, e dirai de le mie proprietadi e conditioni

6

Ps.Eg. par. 9. Anche il testo dell’Esposizione dello Pseudo-Eigidio è da considerarsi sempre citato da Fenzi 1999 (pp. 187-219).

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segrete, le quali non sono toccate da gli altri dicitori». Udito questo, quel nobile donzello rispuose a la donna, e disse: «Madonna, di quello che mi pregate sarà fatto […]».7

In questo commento dunque vediamo comparire a distanza di pochi paragrafi due interpretazioni che potrebbero apparire discordanti ad un lettore moderno, ma che lo Pseudo-Egidio non esita a far convivere, in nome della possibilità di leggere il testo cavalcantiano tanto secondo il senso letterale, quanto secondo quello allegorico.

È evidente in questo modo di procedere la forte influenza esercitata qui dalla pratica dell’esegesi dantesca, influenza che peraltro lo Pseudo-Egidio aveva già mostrato

apertis verbis già con le prime parole del proprio commento («Stando io in nua selva

obscura et andando per duro et aspro camino, per la fatica mi riposai e dormî […]»),8 e forse, se fossimo in grado di datare con maggiore sicurezza questo antico commento, potrebbe essere interessante metterlo in relazione con le fervide discussioni “teoriche” sulla poesia portate avanti attorno alla metà del XIV secolo da Boccaccio e Petrarca; ma ciò che per ora più importa rilevare è il fatto che il passo citato mostra come già nel pieno ’300 si documenti per l’incipit di Donna me prega quella possibilità di interpretazione allegorica che ricorrerà più volte tra Quattro e Cinquecento nei testi di Pico della Mirandola (che come Egidio identifica tout court la donna con l’Amore),9 Iacopo Mini (il quale riteneva che col termine «donna» Cavalcanti indicasse «la parte sensuale di se stesso»)10 e del Verino Secondo («per donna si può esporre la parte razionale nelle persone di valore»),11 per poi riemergere, in una forma più raffinata, addirittura nel pieno Novecento, quando Maria Corti ipotizzerà che nella «donna» cavalcantiana possa celarsi una personificazione della filosofia naturale, quasi «l’archetipo della donna gentile del Convivio».12

Letture di questo tipo, ben lungi dall’essere semplici sovrastrutture erudite, possono essere considerate un tentativo tutt’altro che banale di spiegare questo attacco

7

Ibidem, parr. 2-4

8

Ps.Eg., par. 1. Sonia Gentili ha parlato di questo attacco e di altri passi del commento pseudo- egidiano come parti di una vera e propria «correzione in senso dantesco di Donna me prega» (cfr. Gentili 2005, pp. 196-201).

9

«L’altra [scil. canzona] da Guido composta comincia: Donna mi priega perch’io voglia dire e dagli espositori suoi è detto per quella Donna intendersi amore». Questo sintetico riferimento si trova in un commento redatto da Pico su una canzone (di tema amoroso) di Girolamo Benivieni. Per il passo citato, cfr. Fenzi 1999, p. 230.

10

Expositione di messer Iacopo Mini medico fiorentino sopra la canzone di Guido Cavalcanti. Per il passo citato, cfr. Fenzi 1999, p. 238.

11

Esposizione di messer Francesco Vieri detto il Verino Secondo sopra la Canzone di Guido

Cavalcanti. Per il passo citato cfr. Fenzi 1999, p. 268.

12

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apparentemente così eterogeneo dal resto della canzone, soprattutto se si pensa all’influenza esercitata ancora nel basso Medioevo il De consolatione Philosophie di Boezio, testo insieme filosofico e poetico, che si apre proprio su una rappresentazione della filosofia in forma di donna. A ben vedere anzi l’ipotesi allegorica risulta per molti versi più convincente delle interpretazioni in chiave “biografica” di un Paolo del Rosso o di un Frachetta, che ritenevano l’incipit un omaggio ad una non meglio precisata nobildonna di cui Guido doveva essere invaghito.13 Per arrivare però a una lettura pienamente soddisfacente del primo verso di Donna me prega, occorre integrare le diverse impostazioni tentate da Dino e dallo Pseudo-Egidio con alcuni importanti spunti della critica più recente, cercando di mettere a fuoco nel suo insieme quella che potremmo definire la “strategia” retorica a cui obbedisce il nostro esordio.

Domenico De Robertis, Giorgio Inglese e Claudio Giunta hanno infatti avanzato, da angolazioni diverse, alcune ipotesi molto interessanti, incentrando il proprio discorso non tanto sulla “natura” della donna chiamata in causa dal poeta, quanto sulle possibili relazioni che corrono tra l’intero v. 1 della canzone cavalcantiana e le più diffuse tecniche esordiali del XIII secolo. In particolare, De Robertis e Giunta hanno insistito sulla natura topica della “preghiera” all’autore, già presente nella trattatistica antica (si pensi ad esempio alla Rhetorica ad Herennium) e ben radicata in quella medievale (come ben dimostra anche il De amore cappellaniano),14 mentre Giorgio Inglese ha invece pensato al verso iniziale come «ad una minima ed elementare finzione narrativa, per giustificare l’attacco dell’esposizione», riprendendo quindi un modulo già sperimentato all’interno della tradizione lirica al di qua e al di là delle Alpi.15 Tuttavia, è quasi paradossale notare come l’aiuto più concreto che queste acute segnalazioni ci offrono consista in realtà nel rafforzare ulteriormente il senso di una differenza tra

Donna me prega e il suo contesto lirico.

È facile del resto accorgersi di come questa canzone, pur ponendosi indubbiamente in dialogo con testi poetici capitali (come ad esempio Madonna dir vo voglio), ne riproponga gli elementi (la donna, e la volontà di dire) secondo una prospettiva di fatto rovesciata, poiché nel caso di Donna me prega il poeta non vuole «dire» per mostrare 13 Cfr. Pasqualigo 1891, p. 111. 14 Cfr. De Robertis 1986, p. 95, Giunta 2002, pp. 120-129. 15

Cfr. Inglese 1995, p. 180. Gli esempi riportati dallo studioso sono costituiti da una canzone del cosiddetto Amico di Dante («La gioven donna cui appello Amore / … vole e comanda a·mme suo servidore / ch’i’ canti … / per dimostrar») e da un testo attribuito a Chastelain de Couci (Bele dame me

prie de chanter), senza ovviamente dimenticare il lentiniano «Madonna dir vo voglio / como l’amor m’ha

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l’autenticità del proprio innamoramento, ma per condurre una disamina totalmente distaccata, in cui non è mai menzionata la condizione emotiva dell’io lirico.16 Dall’altro lato, il richiamo di un topos trattatistico tipico dei trattati in prosa viene significativamente contaminato con un altro luogo comune esordiale, sempre proprio di .testi dottrinali, ma appartenenti ad un contesto molto preciso, di cui fino ad ora non si è tenuto conto in maniera adeguata.

Le figure femminili infatti sono presenze estremamente diffuse in dei testi “introduttivi” in cui certo senso sui generis, come le prolusioni e i sermones che già nel ’200 si tenevano all’inizio dell’anno accademico a Bologna o a Parigi, e che consistevano generalmente in lunghe ed articolate commendationes della filosofia (o anche di singole materie, come la logica o la grammatica), in cui la disciplina al centro dell’elogio era rappresentata spesso come una donna, offrendo così il destro all’oratore di diffondersi in una ricca interpretazione allegorica delle sue caratteristiche e dei suoi eventuali attributi (come il vestiario o diversi tipi di “accessori”), non di rado mescolando topoi boeziani, biblici (attingendo per lo più al vasto repertorio offerto dai libri di Salomone), o anche tipici del culto mariano.17 Naturalmente, si tratta di qualcosa di molto diverso dall’essenziale riferimento cavalcantiano, che di per sé non tratteggia in nessun modo la figura della donna (ponendo quindi un limite invalicabile alla possibilità di parlare in senso stretto di “allegoria”); a destare però un certo interesse nell’ambito della nostra indagine è piuttosto il fatto che le commendationes citate costituivano, nella retorica scientifica delle università due-trecentesche, l’unica occasione in cui fosse vista con favore l’uso del linguaggio figurale e del codice allegorico, elementi che non erano invece ammessi all’interno delle trattazioni filosofiche vere e proprie, che dovrebbero evitare (almeno a norma delle raccomandazioni avanzate da Aristotele nei Topici) di impiegare termini utilizzati in senso traslato.18

16

Come si vedrà nel commentare la quarta stanza, anche il v. 53 («imaginar non pote om che nol prova») ha una sua precisa ragion d’essere retorica, ma non apre alcuno spiraglio sullo stato “attuale” del poeta.

17

Per questo genere di testi e per le figure in essi più frequenti si vedano Gauthier 1984, Lafleur 1988 e 1994, De Libera 1991, Fioravanti 1992.

18

Aristotele aveva raccomandato di attenersi ad una terminologia chiara, chiamando ogni cosa con il proprio nome, biasimando ad esempio coloro che chiamano un platano “uomo”, ricorrendo quindi ad un’analogia così oscura da risultare equivalente ad un’affermazione falsa (cfr. Topici II 1). In ambito medievale, queste critiche al linguaggio figurato si trovano riprese in autori cruciali come Tommaso (Quodlibet VII, q. 6) e Sigieri (Quaestiones super Metaphysicam, III, q. 17).

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Come avremo modo di vedere, Cavalcanti rinuncia lungo tutta la canzone ad ogni tipo di metafora o di similitudine che non sia in qualche modo già attestato come pienamente funzionale anche in un contesto filosofico. Pur non trattandosi dunque di una sconfessione della natura polisemica e in parte irriducibilmente ambigua del linguaggio poetico,19 non può non colpire una certa analogia tra la strategia retorica praticata nelle università (dove in sede di introduzione era ammesso un ricorso alla figuralità escluso poi altrove) e quella seguita dal Guido fiorentino, che nell’incipit introduce una figura diafana come quella della donna, per poi abbandonarla non appena la cadenza dimostrativa prende il sopravvento.

Se dunque proviamo ad integrare quest’ultimo spunto con le altre osservazioni avanzate sino ad ora, possiamo renderci conto di come da una parte la lettura diniana (che vede la menzione della donna come dichiarazione dell’oggetto proprio dell’amore) resti un punto fermo per capire il merito di questo incipit cavalcantiano, ma dall’altra parte la scelta di Guido di far confluire in questo inizio elementi di retorica al crocevia tra lirica e generi in prosa di carattere dottrinale (come il trattato o la commendatio

philosophie) ci permette di cogliere un aspetto di metodo che si rivelerà decisivo per

l’elaborazione di Donna me prega: la volontà costante di integrare in maniera rigorosa all’interno del linguaggio lirico tanto i concetti quanto le forme retoriche del linguaggio filosofico.

Già dai primi versi dunque questa canzone prende chiaramente le distanze dal fervore missionario che animava le canzoni “filosofico-dottrinali” Guittone, e che faceva oscillare il rimatore aretino in un’alternanza di toni ora laudistico e quasi esplosivo, ora aridamente didascalico, infarcito di citazioni; ma al tempo stesso si registra un’inversione di tendenza anche rispetto ad esperienze poetiche in linea di principio più vicine a quelle di Guido, poiché in Donna me prega il ruolo dell’io lirico è ridotto a quello del puro espositore, secondo una modalità che era comparsa più volte nei sonetti, ma che risulta praticamente inedita nelle canzoni d’amore, dove normalmente il poeta restava in primo piano in veste di innamorato.20

19

Come abbiamo in parte visto con Da più a uno, e come vedremo più avanti, l’ambiguità è anzi utilizzata proprio come una possibile risorsa da Cavalcanti, al fine di costruire argomentazioni più efficaci.

20

Oltre che ai casi citati sopra alla n. 15, si pensi ad esempio come in Al cor gentil, che peraltro presenta un’impostazione molto diversa da quella scelta da Cavalcanti (in quanto incentrata essenzialmente sulla metafora), quell’io lirico che era rimasto “in ombra” per quattro stanze torni prepotentemente in primo piano nella stanza conclusiva, dichiarando implicitamente di aver descritto la passione amorosa nei termini da lui stesso vissuti in relazione alla donna amata.

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Analizzato quindi in tutte le sue implicazioni l’incipit della canzone, possiamo finalmente passare ai vv. 2-3, in cui Cavalcanti propone una prima definizione della materia trattata:

d’un accidente - ch’è·ssovente - fero ed èsi altero - ch’è chiamato amore:

Per prima cosa, sarà opportuno concentrarsi sul principale elemento che emerge dal v. 2, vale a dire l’accento posto dal poeta sulla natura puramente accidentale dell’amore. Dal punto di vista letterale, il senso di questa affermazione era chiaro già a Dino, che aveva puntualizzato in maniera impeccabile tre aspetti dell’“accidentalità” della passione amorosa:

Dicitur autem hec passio accidens, primo quia non est substantia per se stans, sed est alteri adherens sicut subiecto, ut appetitus anime, simili modo sicut anime passiones, ques sunt ira, tristitia, timor et similis. Secundo dicitur accidens quia potest advenire et etiam recedere sicut accidentia alia. Tertio dicitur accidens, quia advenit ab extrinseco […]. (§ 9)

Questa spiegazione così articolata proposta dal medico fiorentino sembra avere il chiaro intento di rendere evidente la compatibilità tra l’affermazione di Cavalcanti (per cui l’amore è un accidente) e tutti e due i significati fondamentali che Aristotele aveva proposto per il termine sumbebhkov" (in latino accidens) nel celebre “dizionario filosofico” che costituisce il quinto libro della Metafisica:

Accidens dicitur quod inest alicui et est dicere, non tamen ex necessitate nec secundum magis […]. Nec est aliqua causa determinata accidentis, sed quod forte; et hoc est indeterminatum. […] Dicitur et aliter accidens, ut quecumque sunt in unoquoque secundum se non in substantia entia, velut in triangulo duos rectos habere.21