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TRA EMILIA E TOSCANA

III. G UIDO G UINIZZELL

Come si diceva all’inizio di questo capitolo, una delle condizioni per cui questa nostra indagine può risultare utile, evitando di trasformarsi un pretenzioso (e ultimamente deformante) tentativo di risistemazione “genealogica” della lirica duecentesca, consiste nel rinunciare a leggere gli accostamenti proposti come un percorso progressivo o teleologicamente orientato in direzione di Donna me prega. Avendo scelto come punto di osservazione lo specifico problema della “retorica della conoscenza”, ciò che interessa è sottolineare le diverse scelte che vengono operate nell’ambito di singoli corpora (e a volte anche di singoli testi), e questo, al momento di affronttare un poeta come Guido Guinizzelli, implica la necessità di concentrarsi su alcuni aspetti dei suoi testi, rinunciando in partenza tanto alla pretesa di fornire un quadro completo dei suoi rapporti con Bonagiunta e Guittone, quanto all’illusione di definire meglio di quanto sia già stato fatto un possibile panorama dell’influenza del bolognese nell’ultimo quarto del XIII secolo.

Nella prospettiva da noi scelta, Guinizzelli è interessante perché, nel più celebre e commentato dei suoi testi, risulta ben presente proprio quella tensione alla conoscenza anche teorica dell’amore che Bonagiunta aveva seccamente rifiutato, tensione che si esprime attraverso modalità sicuramente diverse rispetto a quelle codificate dalla tradizione cortese. Partendo da simili premesse dunque non si potrà non ritornare (seppure brevemente) sui versi di Al cor gentil rempaira sempre amore, non tanto per provare ad apportare improbabili innovazioni nella lettura di questo importante

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componimento, quanto per tentare di mettere meglio a fuoco alcuni tratti di quella “strategia” con cui Guinizzelli tenta di indagare la verità del fenomeno amoroso.

a) Al cor gentil. Una verifica.

In più di un’occasione, la critica ha presentato il più celebre componimento guinizzelliano come una versione più approfondita e compiuta dal punto di vista “teorico” della trattazione dell’amore espressa in Ancor che l’aigua di Guido delle Colonne.41 Se però si osserva attentamente il testo, non è poi difficile rendersi conto come manchino del tutto, nei versi di Al cor gentil, da un lato ogni approfondimento sulla natura propria dell’amore, dall’altro quelle riflessioni sulle cause e sui diversi momenti del processo di innamoramento che abbiamo visto sviluppate ad esempio nei sonetti di Giacomo da Lentini (o nella stessa Ancor che l’aigua). Dunque per provare a comprendere la tipologia e le linee di sviluppo della riflessione guinizzelliana sull’amore (senza limitarci a giudicare Al cor gentil una canzone ultimamente «reticente», come ha fatto Malato 1989) è necessario ripartire dal presupposto, mai abbastanza ricordato, che la natura dell’amore è osservata da Guido nel suo legame con la “gentilezza di cuore”.

A ben vedere, non è questa una prospettiva poi così scontata, perché non si tratta, come accadeva nel trattato cappellaniano, di un generico richiamo ad accompagnare l’amore alla «morum probitas», né di definire (come nei lunghi dialoghi simulati del De

amore) una “sociologia” dell’innamoramento capace di indirizzare i comportamenti di

chi vive nella passione. Porre l’accento in maniera così forte su una specie di

antropologia in cui l’amore affonda le radici, significa già di per sé dare un nuovo

spessore conoscitivo alla poesia, poiché in questa prospettiva, se l’amore è caratteristica imprescindibile (e quindi contrassegno distintivo) della natura umana veramente nobile, la poesia d’amore non potrà che essere la chiave d’accesso per una conoscenza totale e profonda dell’uomo, la lingua privilegiata per interpretare ed esprimere tutto l’orizzonte della sua esperienza.

Tralasciando per il momento tutta l’ampia problematica dell’opposizione tra una simile premessa e i pilastri concettuali della dominante poetica guittoniana (precedente e posteriore alla conversione), ciò che interessa ora è puntare l’attenzione sul “metodo”

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con cui Guinizzelli sviluppa questa sua visione complessiva dell’uomo sub specie

amoris, che significa, come si sarà già intuito, fare qualche considerazione

sull’impostazione sostanzialmente metaforica di Al cor gentil.

Già più di quarant’anni or sono, Aurelio Roncaglia sottolineava con grande lucidità, sulla base di un’intuizione di Vossler, come il tratto caratteristico di questa canzone (e in particolare dell’ultima stanza prima del congedo) consistesse di fatto nel «potenziamento intellettuale della metafora», che non serviva semplicemente a tracciare un paragone, ma era destinata ad illustrare concetti filosoficamente impegnativi.42 Come è facile immaginare, a questo fondamentale contributo di Roncaglia sono seguiti negli anni successivi diversi studi, volti ad esplorare in direzioni diverse il retroterra culturale delle varie immagini del componimento nel suo insieme, o anche di precise porzioni di testo: per citare soltanto alcuni esempi significativi, Moleta 1980 ha insistito sulla radice boeziana della similitudine incipitaria dell’uccello nella selva; Gorni 1981 ha invece richiamato l’attenzione sulla fondamentale eco scritturale dei versi «né fe’ amore anti che gentil core / né gentil core anti ch’amor, natura» (vv. 3-4); Inglese 2000 dal canto suo ha fatto alcune importanti puntualizzazioni circa le possibili fonti delle immagini della pietra contenuta nella seconda stanza (che Hartung 2002 aveva provato forse un po’ troppo audacemente a mettere in relazione con la teologia tomistica della grazia), e Rossi 2002 ha quindi insistito sul valore giuridico del concetto di “natura” che attraversa in vari modi quasi tutte le metafore delle prime quattro stanze. Per quanto riguarda infine la quinta stanza, il dibattito è stato così vasto e articolato a diversi livelli da rendere impossibile un semplice riassunto, benché in fondo si registri una pressoché totale (e più che comprensibile) convergenza della critica nell’individuare in questo nucleo il punto insieme più alto e filosoficamente più impegnativo della canzone guinizzelliana, dal momento che la donna è paragonata a Dio stesso e l’uomo innamorato all’intelligenza angelica.43

Evidentemente, un quadro come quello appena abbozzato basterebbe già di per sé a darci la misura dello straordinario impegno con cui il Guido bolognese ha costruito il

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Roncaglia 1967, p. 25, ma si veda anche p. 23: «Dov’è dunque la novità del Guinizzelli? La sua novità consiste nell’approfondimento intellettuale dello scavo: nell’interpretazione della metafora tradizionale donna-angelo alla luce dell’angelologia teorizzata dai filosofi, con l’equazione tra angelo e intelligenza. Come le intelligenze angeliche, la donna ha una funaione attualizzatrice: essa traduce in atto, cioè in amore, la potenza del cor gentile».

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Si vedano, nelle loro diverse prospettive, i soliti Paolazzi 1998 e Hartung 2002. Decisamente più conciso su questo punto è invece Giunta 1998, che si limita ad osservare la totale assenza di ogni prospettiva “devozionale” in questo passo, sottolineandone invece la carica provocatoria.

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suo testo più rappresentativo; tuttavia, anche dopo aver segnalato la complessa griglia culturale a cui il poeta attinge a piene mani per dar forma al suo componimento, resta aperta una domanda circa la strategia con cui è intrecciato ed organizzato questo complesso pattern di metafore e similitudini.

Al cor gentil infatti, nonostante la capfinidad tra alcune stanze le leghi come in un continuum, non sembra procedere utilizzando quella scansione logica tentata da

Giacomo da Lentini o anche (seppur con scopi molto diversi) dal Bonagiunta di In

quanto la natura. Del resto, basta pensare al fatto che c’è un solo connettivo logico che

torna in continuazione, ed è il «così» (o «sì») che mette in rapporto da un lato l’immagine “naturale”, dall’altra l’uomo gentile e il suo innamoramento.

Nella prospettiva da noi scelta, non sarà probabilmente necessario soffermarci tanto sul fatto (peraltro già più volte sottolineato dalla critica) che nel succedersi delle varie comparazioni si riscontri una sorta di “percorso ascensionale”, che dagli elementi meno nobili della creazione arriva fino al Creatore; ma procedendo comunque stanza per stanza potrà invece risultare utile e interessante provare a capire quale aspetto della «gentilezza» e dell’«amore» sia di volta in volta indagato da Guinizzelli, evidenziando gli elementi più rilevanti ai fini della nostra indagine.44

Al cor gentil rempaira sempre amore come l’ausello inselva a la verdura; né fe’ amor anti che gentil core, né gentil core anti ch’amor, natura: ch’adesso con’ fu ’l sole,

sì tosto lo splendore fu lucente, né fu davanti ’l sole;

e prende amore in gentilezza loco, così propïamente

come calore in clarità di foco.

(vv. 1-10)

L’attacco della canzone, così denso di riferimenti, comincia col mettere a fuoco in maniera compiuta il rapporto tra amore e gentilezza, che al tempo stesso viene descritto nel suo livello più essenziale. La gentilezza infatti “contiene” ab initio l’amore come un luogo naturale contiene l’elemento corrispondente (concetto che qui si trova declinato secondo l’immagine boeziana e cortese dell’uccello nella foresta) e l’amore “inerisce” alla gentilezza con la stessa cogenza con cui certe qualità ineriscono a certi elementi (il

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Il testo della canzone è tratto da PD II, pp. 460-464. L’unica variazione rispetto al testo stabilito da Contini si trova al v. 2, dove riportiamo inselva anziché il tradizionale in selva accogliendo una proposta di Inglese 2000, poi confluita nell’edizione Rossi 2002.

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calore al fuoco); tuttavia i vv. 3-4, richiamando l’inizio del Vangelo di Giovanni, suggeriscono l’ulteriore immagine del Figlio generato dal Padre ma a Lui concomintante, dando così al ragionamento una forte connotazione teologica, dal momento che pur essendo amore e gentilezza generati dalla natura, sono qualcosa di intimamente connesso con la natura divina.

In un certo qual modo, non può non tornare alla mente l’immagine di Similemente

onore: «Canoscenza si move / da senno intero, / como dal cero, / quand’arde lo

sprendore» (vv. 37-40); se però in quel caso, come abbiamo visto, la similitudine poteva quasi dirsi uno sconfinamento momentaneo nella metafisica (utilizzato più che altro per enfatizzare il legame tra il principio del «senno intero» e un elemento “derivato” come la «canonscenza» particolare), con Al cor gentil il riferimento al sole e allo splendore da un lato si fa smaccatamente teologico, dall’altro va a costituire di fatto la chiave di volta attorno a cui si orchestra tutta la struttura dispiegata nelle stanze successive.45

È vero infatti che la seconda stanza introduce, attraverso la similitudine della generazione delle pietre preziose, lo schema potenza/atto; ma a ben vedere l’accento in questi versi non è posto tanto su una generica disponibilità del cuore ad accogliere il sentimento amoroso, quanto piuttosto su due “forze” naturali (su due virtutes), l’una “purificatrice”, l’altra “informante”:

Foco d’amore in gentil cor s’apprende come vertute in petra prezïosa,

che da la stella valor no i discende anti che ’l sol la faccia gentil cosa; poi che n’ha tratto fòre

per sua forza lo sol ciò che li è vile, stella li dà valore:

così lo cor ch’è fatto da natura asletto, pur, gentile,

donna a guisa di stella lo ’nnamora.

(vv. 11-20)

Come ha mostrato Inglese 2000, non si trova (almeno nei trattati probabilmente accessibili a Guido) un accenno a questo ruolo del sole nel processo di generazione delle pietre preziose, poiché al massimo Alberto, in Meteora, III 5, parla di un «agente

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Interessante è inoltre notare come Dante, nella «divisione» del sonetto Amore e ’l cor gentil sono una

cosa, tenti di inquadrare questa concomitanza descritta da Guinizzelli nello schema aristotelico fondato

sui binomi forma/materia e atto/potenza, cancellando di fatto le implicazioni teologiche rilevate da Guido nella “consustanzialità” di amore e gentilezza, per concentrarsi viceversa sulla natura “miracolosa” di Beatrice, che riesce a violare le dinamiche naturali rendendo gentili le nature vili e creando l’amore anche laddove esso non è presente in potenza (cfr. VN, 11 6-7 [XX 6-7] e 12 1 [XXI 1]).

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naturale caldo o freddo» che “estrae” le caratteristiche naturali della pietra per consentire alle virtù celesti di informarla di nuovo.46 Il punto tuttavia è che con questa articolata immagine Guinizzelli pone l’accento non tanto sulla potenzialità, quanto piuttosto sulla necessità dell’innamoramento per la natura gentile,47 rappresentando quinid l’amore non tanto come una passione che influenza l’uomo, quanto piuttosto come un accidente legato alla forma stessa dell’essere umano (la sua anima) qualora sia configurata secondo una certa predisposizione (sia cioè gentile e non ostacolata dall’impurità della materia).

Proprio negli stessi anni di Guinizzelli, Tommaso d’Aquino approfondiva un simile concetto parlando di accidenti che procedono dalla forma degli enti, e che quindi non possono considerarsi semplici affezioni della materia.48 E nonostante non si voglia certo attribuire a Guinizzelli l’adesione ad una precisa dottrina filosofica, soprattutto su temi che riguardavano complesse discussioni di carattere insieme metafisico e teologico, resta il fatto che l’amore è presentato qui non come una passione che a partire dal corpo e dai sensi dell’uomo ne influenza anche i meccanismi psicologici, ma piuttosto come un attributo necessario dell’animo che la natura stessa (prima ancora di qualunque intervento “civilizzatore” da parte della società) abbia adeguatamente formato. Si tratta insomma di una proprietà che dunque viene irraggiata come una virtù “formativa” da un ente superiore, proprio come una stella irraggia con una certa virtù una particolare materia, così da farla diventare una gemma dotata di proprietà ben precise.49

Nella terza stanza, le immagini del fuoco «in cima del doplero» e della vis magnetica nel minerale ferroso («en la minera») completano l’argomento in un certo senso per

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«Elementum autem ex quo fiunt res istae, sive illud sit aqua, sive sit terra vaporibus superductis contemperata, in potentia habet omnia ista: et ideo agente naturali calido vel frigido cum virtutibus stellarum omnia educuntur de ipso» (Alberto, Meteora, III 5). Inglese riporta anche un riferimento alla «Continuatio anonima al commento di Tommaso In meterologicorum, III, IX, 2», ma dal punto di vista strettamente cronologico sembra più difficile pensare che Guinizzelli possa avere avuto a disposizione anche quest’ultimo testo (si tenga presente che il bolognese muore nel 1276, soltanto due anni dopo l’Aquinate).

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Contini in PD II, p. 460 sostiene che «la necessità umana di amoe è affermata nella seconda stanza di

Ancor che l’aigua», ma in quel caso sembra di trovarsi di fronte più che altro al solito disprezzo per gli

incapaci di amare, secondo un sistema di valori piuttosto tradizionale, in cui senza dubbio l’amore è indice di “piena umanità”, ma non compare nessun indizio da cui si possa ricavare l’opposto, e cioè che la “gentilezza” implichi per forza il ritrovarsi innamorati.

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Cfr. ad esempio In I Sent.: «Quaedam autem habent esse naturae, sed consequuntur ex principiis speciei, sicut sunt proprietates consequentes speciem; et talibus accidentibus potest forma simplex subjici, quae tamen non est suum esse ratione possibilitatis quae est in quidditate ejus, ut dictum est, in corp. art. et talia accidentia sunt potentiae animae; sic enim et punctus et unitas habent suas proprietates».

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Ben diverso, come vedremo in seguito, l’atteggiamento di Cavalcanti, che nella seconda stanza di

Donna me prega parlerà di «una scuritade / la qual da Marte vene», ma per dire che l’anima umana,

fisicamente “condizionata” dall’influsso ardente di Marte (che fa aumentare in maniera patologica l’umor nero), può essere “affetta” dalla passione come da un qualunque altro accidente.

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viam negationis, poiché dimostrano di fatto come l’amore non possa darsi se non in un

luogo adeguato, esattamente come un elemento come il fuoco non può accendersi se non su un elemento combustibile e un attributo come la virtù magnetica non può darsi su una sostanza che non sia il ferro:

Amor per tal ragion sta ’n cor gentile per qual lo foco in cima del doplero: splendeli al su’ diletto, clar, sottile; no li stari’ altra guisa, tant’è fero. Così prava natura

recontra amor come fa l’aigua il foco caldo, per la freddura.

Amore in gentil cor prende rivera per suo consimel loco

com’ adamàs del ferro in la minera.

(vv. 21-30)

Da questo punto di vista, si capiscono ancora meglio le implicazioni della similitudine scelta dal poeta se si passa ad osservare la quarta stanza, quasi perfettamente speculare alla seconda, in cui si vede come la virtù del sole (che qui ha un ruolo simile a quello dell’influsso astrale dei vv. 15-17) non possa operare se non su un ente predisposto dalla natura a riceverne gli effetti:

Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno: vile reman, né ’l sol perde calore; dis’ omo alter: «Gentil per sclatta torno»; lui semblo al fango, al sol gentil valore: ché non dé dar om fé

che gentilezza sia fòr di coraggio in degnità d’ere’

sed a vertute non ha gentil core, com’aigua porta raggio

e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.

(vv. 31-40)

Nel quadro che sta emergendo da questa pur cursoria analisi, resta comunque evidente come nella quinta stanza Guido costruisca la sua similitudine più ardita (quella che gli varrà il botta e risposta con Dio stesso nel congedo), che in un certo senso “chiude il cerchio” aperto dalle forti affermazioni della prima stanza:

Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo Deo crïator più che [’n] nostr’occhi ’l sole: ella intende suo fattor oltra ’l cielo, e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole; e con’ segue, al primero,

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del giusto Deo beato compimento così dar dovria, al vero,

la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende del suo gentil, talento

che mai di lei obedir non si disprende.

(vv. 41-50)

Paragonando il rapporto d’amore tra uomo e donna a quello dell’intelligenza celeste con Dio, Guinizzelli non si getta in una banale iperbole, non fa un semplice sfoggio di cultura metafisica, e con ogni probabilità non intende nemmeno adombrare difficili teorie sulla grazia e la predestinazione.50 Più concretamente, Guido con questi versi sembra voler conferire all’esperienza dell’amore uno spessore metafisico inconcepibile tanto per la retorica cortese, quanto per la nuova poesia morale che (per bocca di Guittone d’Arezzo) nasceva all’insegna del rifiuto delle umane passioni; non si tratta più di giocare sull’ambiguo status “divino” dell’amore (come aveva fatto l’Abate di Tivoli), ma si afferma che l’amore umano ha in sé una valenza paragonabile a quella dell’amor Dei intellectualis delle intelligenze angeliche, divenendo così il punto più alto, più degno e “oggettivamente” più nobile dell’esperienza umana (e del linguaggio lirico che la rappresenta).

Ecco perché il cosiddetto “epilogo in cielo”, ben lungi dall’essere un pentimento o addirittura un passo indietro fatto per non cadere negli eccessi del «vano amor», è piuttosto da considerarsi un’orgogliosa rivendicazione da parte del poeta: se Dio gli rimprovera di averlo dato «in vano amor […] per semblanti», egli risponde che «non me fu fallo s’in lei posi amanza», ribadendo cioè ancora una volta l’adeguatezza del paragone scelto, dal momento che era l’unico a poter rappresentare l’amore per un ente dai caratteri divini.

Se dunque attraverso il calco scritturale dei vv. 3-4 l’amore “naturale” era stato implicitamente messo in un rapporto analogico con la natura divina, con la quinta stanza (e la conferma del congedo) abbiamo una sorta di svolgimento di questa premessa, poiché il poeta accosta (difendendo poi la legittimità dell’operazione) la propria gioia d’amore e il proprio «talento / […] di […] obedir» a una dinamica metafisica (il volgere dei cieli da parte delle intelligenze) da cui dipende l’intero ordine universale.

Concludendo dunque questo quasi sommario esame del testo più noto e fortunato di Guido Guinizzelli, possiamo fare una importante precisazione a partire dall’azzeccata

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definizione di Roncaglia citata all’inizio di questo paragrafo. Infatti, alla luce di quanto visto, possiamo dire che quel «potenziamento intellettuale della metafora» di cui parlava lo studioso non consiste semplicemente nello scegliere un diverso “materiale” per le sue comparazioni, abbandonando cioè ambiti metaforici più tradizionali o immediati (l’osservazione della natura, i comportamenti di piante e animali, etc.) per ricorrere a concetti mutuati dalla cultura filosofica o teologica. Il tratto più interessante e caratteristico della costruzione retorica di Al cor gentil consiste piuttosto nell’uso della comparazione come vero e proprio strumento di indagine, che si addentra in ambiti del sapere estremamente oscuri e complessi (senza peraltro mai perdere la nota leu) per adeguarsi alla dignità dell’oggetto trattato. Al contrario di quanto visto nelle canzoni di Bonagiunta, Al cor gentil non fornisce una nuova organizzazione “argomentativa” ad un