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C HIARO D AVANZATI ( E F RATE U BERTINO )

FRATE GUITTONE

I. C HIARO D AVANZATI ( E F RATE U BERTINO )

Rimatore per lo più adepto dello stile leu, ma che difficilmente potrebbe essere considerato come una voce di opposizione nei confronti del magistero guittoniano, Chiaro Davanzati è sicuramente un personaggio chiave della lirica duecentesca a Firenze, come ci conferma l’ampio corpus di testi raccolto dal (fiorentino) codice Vaticano, a prescindere dalla misera fortuna che dal Trecento in poi lo relegherà al ruolo di “poeta minore”.2 La sua longevità (documentato come combattente già nel

Libro di Montaperti, pare fosse ancora vivo nel 1302) gli permise di essere testimone di

tutte le più importanti svolte poetiche del suo secolo, cosa che, come si può facilmente immaginare, complica in maniera irreversibile il lavoro di chi voglia indagare la cronologia della sua parabola poetica; tuttavia, nel caso della tenzone che stiamo per osservare, la probabile identificazione di Frate Ubertino con Ubertino di Giovanni di ser Bianco (morto, come si diceva, nel 1269), ci permette di collocare questo scambio addirittura nella seconda metà degli anni ’60, cioè in un momento in cui la nuova poetica antierotica di Frate Guittone muoveva i primi passi nel panorama culturale del XIII secolo.

Questo scambio di canzoni tra Chiaro e Ubertino ruota, come sottolineato già da Menichetti,3 attorno al “classico” problema della natura dell’amore, una questione su cui il fiorentino espone in maniera dettagliata le proprie idee all’interno di alcune canzoni e di una seconda tenzone (stavolta in sonetti), che lo vede opposto a Pacino di ser Filippo Angiulieri.

In sostanza, il nucleo centrale della concezione davanzatiana consiste nella perfetta identificazione tra l’amore e il Dio cristiano, di cui viene enfatizzata proprio la natura trinitaria, così da dar risalto, di riflesso, al ruolo decisivo della caritas come elemento unificante delle tre Persone divine. In questo modo, evidentemente più scaltro e teologicamente più agguerrito di quello tentato dall’Abate di Tivoli, il rimatore

1

Cfr. Margueron 1966, pp. 259-261

2

Il più importante e documentato studio su Chiaro e la sua poesia è ancor oggi costituito dall’edizione curata da Aldo Menichetti (Menichetti 1965).

3

Cfr.Menichetti 1965, pp. 3-4. Lo studioso inoltre sottolinea le inevitabili perplessità sull’interpretazione che di questi componimenti ha dato Mascetta Caracci 1925.

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fiorentino ha tutta l’aria di voler trovare una sorta di “terza via” tra Guittone e i Siciliani, un punto di equilibrio tra il bisogno di professarsi fedele d’amore e la necessità di non seguire nell’amore un ideale moralmente riprovevole, attirandosi gli strali di Frate Guittone.

Dal momento che tanto la tenzone con Pacino (impossibile purtroppo da datare) quanto le canzoni più “teoriche” non sembrano presentare elementi di novità realmente significativi dal punto di vista dell’elaborazione retorica della teoria d’amore, limitandosi a riassemblare in maniera piuttosto scontata materiali ben collaudati della

langue amorosa duecentesca (a cui si conferisce all’occorrenza una trasparente patina

scritturale), lo scambio con Frate Ubertino sarà l’unica area dell’ampio corpus davanzatiano su cui varrà la pena soffermarsi. In compenso però vedremo come da questo ristretto gruppo di testi emergono dati di estremo interesse per la nostra ricerca sulle “retoriche della conoscenza”.

Proviamo dunque ad osservare alcune caratteristiche del linguaggio e degli argomenti di questa tenzone fatta di canzoni, almeno per quanto concesso dalle cattive condizioni del testo giunto sino a noi attraverso il solo codice Vaticano, cominciando dalla seconda stanza di In gran parole di Frate Ubertino

Aprite gli oc<c>hi a no avere sdignanza, fatevi avanti e non serate porte,

vostro savere aprite a chi lui chere; di che vedete prendete intendanza, non divinate altro sen<n>o che aporte, non trasformate le chiarite spere. A invisibil' cose deste figura, lo non-sostanzïato

faceste corporato.

Caldo senza fredor non posso usare: proveder si convene al consigliare.

(vv. 12-22)

Dopo la captatio benevolentiae della stanza d’esordio (in cui peraltro si nascondeva, sotto la retorica dell’umiltà, una dichiarazione della propria eccellenza), il frate qui attacca con decisione il presunto errore dell’interlocutore: aver preteso di avere un senno più che umano («non divinate altro sen<n>o che aporte», v. 16), dando figura all’invisibile e sostanza all’accidentale («A invisibil’ cose deste figura / lo non- sostanziato / faceste corporato», vv. 18-20).

In questi pochi versi troviamo dunque fin da subito una miscela di elementi piuttosto peculiare: da un lato infatti c’è il rimprovero, tipico della retorica cortese (potremmo

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dire “di scuola bonagiuntiana”) contro chi vuole andare oltre i limiti dell’umana conoscenza, addirittura stravolgendo a forza di concetti fallaci lo stesso ordine del mondo («non trasformate le chiarite spere», v. 17); dall’altro lato però questa reprimenda è condotta facendo un uso particolarmente consapevole di alcuni termini propri del linguaggio della filosofia naturale, come nella frase «lo non-sostanziato / faceste corporato», (vv. 19-20) che opera un collegamento tutt’altro che banale tra il fatto che un ente abbia lo status di sostanza e il suo avere un corpo materiale.4

Ridotta ai suoi termini più essenziali, l’affermazione di Ubertino in fondo non sembra essere altro che una rielaborazione particolarmente complessa dell’obiezione mossa dal Notaro all’Abate di Tivoli sull’ontologia dell’amore, senza contare che non risulta poi così limpido il significato del verso in cui al Davanzati si rimprovera di aver dato un “corpo” all’amore. Tuttavia, osservando le stanze successive, possiamo renderci conto che queste accuse del frate fanno parte di una articolata strategia per attaccare alla base la concezione dell’amore portata avanti da Chiaro. Sospendiamo dunque per un momento il giudizio sui vv. 19-20, e leggiamo la terza strofa:

La planeta mag<g>ior di gran potenza, che in terra segnoreg<g>ia tut<t>a gente, genera e cresce assai diverse cose; in molte corpora sta sua valenza e 'n tut<t>e apare assa' isplend<ï>ente, flori creante con gran spine e rose; e a tut<t>e dà splend<ï>ente luce con diversi splendori

insieme operatori;

in molte guise varia, chi li guarda. e molte volte d'abagliar non tarda.

(vv. 23-33)

Evidente soggetto di tutta questa porzione di testo è il sole, il cui riconosciuto carattere “sovrano” (vv. 23-24), viene in un certo senso “ridimensionato” nel momento in cui Ubertino afferma (dando all’intera immagine un taglio chiaramente “naturalistico”) come non tutti i suoi effetti sull’universo sublunare possano dirsi veramente buoni. Tutti questi undici versi sono attraversati da un’insistenza continua sulla diversità dei vari influssi solari e sulla molteplicità dei risultati a cui ciascuno di questi influssi conduce, ma proprio questa coerenza (attraversata da una sottile ma ben

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L’ontologia tomistica infatti insisteva più fortemente sull’unità tra forma e materia come definizione di sostanza, a differenza di Avicenna e Averroè che avevano invece posto l’accento sul ruolo nettamente preminente della forma. Si veda su questo aspetto Di Giovanni 2008.

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distinguibile vena polemica) offre un interessante indizio per identificare il bersaglio preciso della “reprimenda” del frate aretino; ad un’analisi più attenta infatti sembrerebbe che Ubertino stia cercando di attaccare (indirettamente) l’equivalenza postulata da Chiaro tra amore e Dio, colpendo innanzitutto quella metafora dell’amore- sole che costituiva uno dei pilastri fondamentali della retorica amorosa davanzatiana, e che al contrario, agli occhi di Ubertino, doveva sembrare semplicemente errata e potenzialmente blasfema.

Se del resto si pensa che il sole è notoriamente un simbolo capace di indicare insieme l’onnipotente unicità di Dio (in quanto forza creatrice e unica luce del giorno) e il supremo fascino vivificante dell’amore (a causa del suo splendore enormemente maggiore rispetto a quello degli altri astri), e se si tiene dovutamente in conto il fatto che tanto l’insistenza nel rappresentare l’amore come luce e calore, quanto l’assimilazione (di per sé tradizionale) della donna ad una stella sono tratti caratteristici della lirica davanzatiana, ecco che sembra plausibile pensare che il “corpo” abusivamente attribuito da Chiaro all’amore sia quello del sole, e che tutto lo sforzo di Ubertino consista nel costruire un argomento che per via indiretta sconfessi l’idea che l’amore terreno possa avere natura divina. In altre parole, dato che il sole ha effetti negativi e positivi, nonché «diversi splendori / insieme operatori» (vv. 30-31), mentre al contrario Dio è sommo e puro bene, allora l’amore (ammesso e non concesso che sia assimilabile al sole, dato che è un puro accidente mentre il sole è una sostanza), non sarà in ogni caso per nessuna ragione da mettere in relazione con la natura divina.

A conferma poi del fatto che ad essere messa in discussione è la similitudine dell’amore-sole in quanto fondamento retorico dell’equazione amore-Dio, basti del resto rilevare come la quarta stanza di In gran parole (l’ultima conservata) consista di fatto in un elenco di antitesi tratte da diversi ambiti, ma che, nell’ottica fornita dalla ormai trasparente metafora sin qui portata avanti, potranno essere facilmente essere ricollegate alla natura contraddittoria della passione amorosa:

Dolce ha veleno ed amaro mèle, trestizïa con gaudio insieme ad ora, languir con gioia, solazzo e lamento; e talor ha pïetanza crudele,

e in u<n> stato ferma non dimora; dole e dà pianto con alegramento. Come le piace ti muta colore, <e> tìrati e alenta,

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e ancor più, che dilett'ha' in pene, e vai atorno e tieneti in catene.

(vv. 34-44)

Come è facile immaginare, Chiaro non resterà certo inerte di fronte a questo attacco, e anzi nella sua canzone responsiva, Se l’alta disclezion, tenterà di ribaltare l’argomentazione di Ubertino proprio ripetendo, approfondendo ed enfatizzando quella coincidenza tra amore e divinità che il frate aveva cercato di destituire di fondamento attraverso la reinterpretazione della metafora solare.

Dopo i consueti convenevoli della captatio benevolentiae, in cui Chiaro menziona la ‘discrezione’ del suo interlocutore (non a caso una delle facoltà centrali dell’universo morale guittoniano), il rimatore fiorentino passa al contrattacco tornando sulla similitudine “astronomica” con lo stesso lessico filosofico utilizzato dall’avversario:

Dunqua, s’ag<g>io planete a grande altura e ciascun’ha lo suo corpo formato

celestïal nomato,

fu per celestïal terreno usare: per ciaschedun si salva meo parlare.

(vv. 18-22)

Se dunque Ubertino aveva contestato l’uso di una sostanza (il sole) per parlare di un accidente (l’amore), Chiaro risponde ribadendo la legittimità della metafora, radicandola proprio nell’ordine stesso dell’universo: come ciascun pianeta, pur essendo un ente celeste, ha un corpo, così io posso usare un nome terreno (l’amore) per indicare qualcosa di celeste (Dio).5

Chiaro dunque continua ribadendo il valore tutto positivo del sole, stabilito non in base a leggi naturali oggettive, ma in forza di una considerazione di carattere moraleggiante, riassumibile in questi termini: se a “imbardarsi” del sole è un uomo veramente buono, le conseguenze non potranno essere che positive. Per quanto riguarda infine l’obiezione per cui l’amore non avrebbe un corpo, la risposta è ancora più audace, poiché il “corpo” dell’amore è identificato nientemeno che col corpo di Cristo, cioè il corpo di Dio stesso, che è al di sopra anche del cielo (e quindi di tutte le immagini astronomiche):

5

Una possibile parafrasi dei versi, necessariamente prolissa e piena tanto di sottintesi quanto di nessi logici omessi dall’uso di forme implicite, potrebbe essere dunque la seguente: “se ci sono dei pianeti in alto e ciascuno di essi, nonostante abbia un suo corpo (dotato di una forma particolare) è chiamato ‘celeste’, vuol dire che è stato possibile utilizzare qualcosa di terreno qualcosa di celeste”.

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Però chi per planeta si conduce prenda qual<unqu>e più li dà calori: mag<g>ior è <'n> sol valori; chi de lo sol veracemente imbarda in genera<r> calor bo·no si tarda.

Di grazza tempro, io non m'apello fiele, né di sapienza non mi gitto fora,

né di ciò degno sia d'aver convento; ma 'nver' di voi in croce ag<g>io le vele; se fe' figura in terra dimora,

seguite qual più scaldavi talento. Supercelestïal Dio e Segnore in Suo corpo acontenta chi·lLui crede; non penta;

dunque tre son li regni ov'E' sostene, <in> corpo e sustanza, amore e bene.

(vv. 29-44)

Di fronte ad argomenti che mirano a rovesciare completamente il punto di vista assunto nei versi di In gran parole, Ubertino non può che ricorrere nella sua risposta (Puro senno e leanza) ad un generico richiamo morale a non mescolare impropriamente umano e divino:

Me una cosa sola

costringe e sforza e dà caldo e fredore, e scalda e fred<d>a vertute e talento, e grande porta scola,

e segnoreg<g>ia onne teren segnore, ed a cui piace dà gioia e tormento: quel che di sovra al cielo

co l 'oc<c>hio cordïale lo <...> celestïale

<...> possa vedere:

non mischiam que<llo> co le cose umane. (vv. 23-44)

In questo botta e risposta, che si concluderà con un’altra canzone di Chiaro (che chiede stavolta di cambiare argomento una volta stabilita l’incolmabile distanza tra i due punti di vista), abbiamo dunque visto da parte di Ubertino un utilizzo quasi spregiudicato del linguaggio scientifico-filosofico, messo in atto al fine di attaccare la legittimità di una serie di similitudini centrali nel sistema poetico del Davanzati. Da questo punto di vista, le canzoni di Ubertino sembrano una riproposizione in chiave morale del sonetto guittoniano S’eo tale fosse, dove, con intenzioni ben diverse, si attaccavano quei poeti che accostavano la donna a vari elementi naturali. Come in quel fondamentale testo di Guittone si condannava l’assimilazione della donna, vertice della

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natura, ad una stella o ad un fiore (entità inevitabilmente più basse), qui Ubertino, con ben altro impegno ed ampiezza ragionativa, condanna l’assimilazione dell’amore a Dio stesso.

Vista l’ampiezza del fronte di coloro che avevano proclamato falsa ogni possibile identificazione dell’amore umano con la Trinità (da Giacomo da Lentini a Frate Guittone), risulta difficile ascrivere soltanto in base a questo fatto l’oscuro Frate Ubertino alla “parte” di Guittone; anche se forse il carattere delle obiezioni mosse a Chiaro sembra più confermare che contraddire l’potesi di identificazione biografica esposta poco sopra, e che vede Ubertino andare ad ingrossare la schiera dei Frati Godenti (a pochi anni dalla morte) per amicizia o per consonanza di vedute proprio con il suo più famoso conterraneo. In ogni caso però sarà bene puntualizzare che la disputa appena analizzata (e in ogni caso notevole per la probabile altezza cronologica) è qualcosa di molto diverso da quella che vedrà contrapporti Cavalcanti e Guittone.

Nella tenzone tra Chiaro e Ubertino infatti gli elementi filosofici inseriti nella lirica non sembrano essere diretta emanazione di una struttura di pensiero organicamente esposta all’interno di un testo in versi (come invece emerge chiaramente per Guido già nei versi di Da più a uno face un sollegismo), ma piuttosto una discussione in cui il frate aretino cita dati “fisici” in maniera tanto competente quanto occasionale (per contestare le idee dell’avversario) e il rimatore fiorentino risponde più sul piano del “mestiere” che su quello della “cultura” vera e propria.

In ogni caso, a prescindere da ogni possibile “classificazione” dei testi analizzati, quel che più interessa è il fatto che a Firenze, presumibilmente nella seconda metà degli anni ’60 del Duecento, si dà un uso particolarmente competente del linguaggio filosofico, utilizzato al fine di dar forza ad un procedere argomentativo di impegno a ben vedere tutt’altro che trascurabile. Per arrivare quindi a una visione d’insieme che prenda in considerazione in maniera soddisfacente almeno gli elementi principali del complesso scenario fiorentino, non ci resta che esaminare gli ultimi tre esempi: i “maestri” Torrigiano, Rinuccino e Francesco.