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Negli otto volumi che raccolgono Memoirs, Journal, and Correspondence dello

scrittore irlandese Thomas Moore1, c’è una menzione delle manzoniane

Osservazioni sulla Morale cattolica rimasta finora ignota agli studiosi dello scrittore lombardo.

Il 24 ottobre 1835 Moore annota nel suo diario di aver ricevuto l’opera dall’Italia, da parte di “Madame Durazzo” (verosimilmente la marchesa Luisa Durazzo, fiamma del caro amico lord John Russell, spo- sata al marchese Gian Luca)2, per le mani di Ponsonby3. Manzoni, ag- giunge Moore, “(like another less celebrated novelist Griffin, the author of the ‘Collegian’), has left off novel-writing as a task unfit for a good Christian” (“ha smesso di scrivere nel genere del romanzo come attività inadatta per un buon cristiano”)4.

L‘allusione è allo scrittore Gerald Griffin (1803-1840), anch’egli irlan- dese, che aveva pubblicato il suo romanzo più celebre, The Collegians, nel

1 Cfr. la recente ristampa Cambridge, Cambridge University Press, 2013 dell’edizione di metà

Ottocento a cura di lord John Russell (London, Longman, Brown, Green, and Longmans, 1853-1856). Ma si veda anche, per il luogo del Journal che qui segnaliamo, The Journal of Tho-

mas Moore, 6 voll., Volume IV 1831-1835, edited by W. S. Dowden, associate editors B.G.

Bartolomew and J.L. Linsley, Cranbury (NJ), Associated University Presses, 1987 (in part. p. 1727), che si basa sul manoscritto del diario ritrovato nel 1967 negli archivi della Longman Publishing House.

2 Su di lei e sulla sua relazione con lord Russell cfr. in sintesi S.VERDINO, Genova reazionaria.

Una storia culturale della Restaurazione, Novara, Interlinea, 2012, pp. 110-11.

3 Che è da identificarsi con William Ponsonby (1816-1861), figlio postumo dell’omonimo sir

morto nel 1815 a Waterloo, terzo barone Ponsonby dal 1855. Il conte Charles Greville lo incontra a Sestri nel marzo del 1830: cfr. CH.C.F.GREVILLE, The Greville Memoirs. A Journal

of the Reigns of King George IV and King William IV, edited by H. Reeve, 3 voll., vol. I, London,

Longmans, Green, and Co., 18742, p. 296.

4 Cfr. TH.MOORE, Memoirs, Journal, and Correspondence, ed. cit., vol. VII, p. 127. Il titolo del

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1829. Ed è degna di nota perché permette di dire che già nel 1835 un co- noscente ben informato come Moore era al corrente della svolta che sta- va maturando nella vita di Griffin e che lo porterà ad entrare, nel 1838, nel noviziato dei Fratelli delle Scuole Cristiane (Moore e Griffin avevano stret- to amabili relazioni nel 1832, quando quest’ultimo aveva proposto al poeta il seggio di rappresentante di Limerick al Parlamento). La recente edizione Dowden del Journal riporta anche però questa continuazione del brano, evidentemente censurata dal primo editore: “I suspect, in poor Griffin’s case, the falling off of the sale hade not a little to do with his pious resolu- tion” (“sospetto, nel caso del povero Griffin, che il calo delle vendite abbia avuto non piccola influenza sulla sua pia risoluzione”).

Dal lato manzoniano l’indicazione è interessante perché si aggiunge, con un’inedita sua propria sfumatura, ad altre testimonianze della fine degli anni Venti e poi degli anni Trenta sul distacco dell’autore dei Pro- messi Sposi dal genere letterario del suo capolavoro5, anche se resta da in- dagare quanto Moore ne sapesse poi direttamente o da buona fonte, e anche, se possibile, se la sua tesi non riposasse sulla convinzione erronea che la Morale avesse seguito la pubblicazione del romanzo (uscito invece com’è noto nel 1827, otto anni dopo la pubblicazione dell’opera apologe-

tica)6. L’edizione Dowden apporta, anche in questo caso, ma in un altro

punto del Journal, un complemento tralasciato dall’edizione ottocentesca e che merita di essere rilevato. Il 27 settembre 1832 Moore registra sul suo taccuino di aver cenato da Bowood insieme, tra gli altri invitati, a

“Two Neapolitan Counts Poerio (father & son)”7. Nel dopo cena, “the

old Count” (evidentemente Giuseppe, che era accompagnato qui dal fi- glio Carlo) era stato molto eloquente – in un ottimo francese – sulla si- tuazione italiana e anche sulla letteratura della Penisola, parlando di “Ni- collini (sic), Manzoni &c.”. Segue il passo caduto nell’edizione Russell: “Manzoni turned dévot”.

5 Molte di queste testimonianze (anche se non tutte) sono riportate in M.PUPPO, Il Discorso

“Del romanzo storico”, in ID., Poesia e verità. Interpretazioni manzoniane, Messina-Firenze, D’Anna, 1979, pp. 41-57. Sul problema mi permetto di rimandare al mio studio Manzoni: il romanzo e

la storia, in Contatti passaggi metamorfosi. Studi di letteratura francese e comparata in onore di Daniela Dalla Valle, a cura di G. Bosco, M. Pavesio e L. Rescia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratu-

ra, 2010, pp. 269-281.

6 Certo malinformato è il curatore dell’edizione 1987 del Journal di Moore, che annota (vol.

IV, p. 1745): “Allessandro (sic) Manzoni, Sulla morale cattolica... (1826)”.

7 The Journal of Thomas Moore, 6 voll., Volume IV 1831-1835, cit., p. 1488 (ho tolto una virgola

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È probabile che l’attenzione di Moore per questo scritto di Manzoni, aldilà del richiamo che potevano esercitare le vicende biografiche di que- sto grande della cultura europea, sia legato alla sua fama a un tempo di cattolico e di democratico, sullo sfondo dell’interesse, proprio a quegli

anni (e di cui c’è un’eco nella Pentecoste manzoniana8), al problema dei di-

ritti del popolo irlandese e a quello connesso dell’emancipazione cattolica (concessa parzialmente, dopo anni di battaglie, nel 1829). Problemi cen- trali per Moore, anche se risentiti ormai con qualche disincanto, se l’amico anglicano John Russell gli aveva inviato da Genova, proprio all’inizio degli anni Trenta, un suo brano poetico intitolato The Irish, in cui contrapponeva i grandi patrioti irlandesi come Grattan e lord Char- lemont ai “nuovi patrioti” del momento, che al posto di qualcosa di realmente prezioso si trovavano tra le mani un oggetto di nessun valore, come il “sacro catino” conservato nel Duomo della città ligure, a lungo venerato come reliquia dell’Ultima Cena e da poco rivelatosi di semplice vetro e non di smeraldo9.

Dal maggio al luglio di quello stesso 1835, in assenza quindi ancora della traduzione inglese del testo manzoniano, che uscirà l’anno seguente

senza indicazione del traduttore10, sappiamo dagli studi di Dionisotti che

anche l’anglicano Gladstone aveva promosso la manzoniana Morale catto- lica “a lettura spirituale della domenica”11. Il cattolico Wiseman, d’altra

8 Sull’interesse manzoniano ai problemi irlandesi, come affiora nella Pentecoste del 1822/1823

e del 1855, cfr. il mio studio “Nova franchigia”: attenzione ai popoli e alla loro liberazione negli Inni sacri, in corso di stampa in I “cantici” di Manzoni. Inni sacri, cori, poesie civili dopo la conversione (“Quaderni Ginevrini di Italianistica”, n°2), a cura di Giovanni Bardazzi, Genève, Faculté de Lettres, 2014.

9 È probabile, del resto, che il rimando all’Irlanda sia stato suggerito a Russel anche dal colo-

re del catino, verde come il colore amato dai patrioti irlandesi (il testo si legge in S.WALPO- LE, The life of Lord John Russell, London, Longmans-Green, 1891, vol. I, p. 187, e da lì in S.VER- DINO, Genova reazionaria, cit., pp. 80-81, che dà però un’interpretazione del passo differente dal- la nostra). Significativamente, peraltro, un recente studio di Desmond Keenan s’intitola pro- prio: The Grail of Catholic Emancipation. 1793 to 1829 (Xlibris Corporation, 2002).

10 Cfr. A.MANZONI, A vindication of catholic morality, or a refutation of the charges brought against it by

Sismondi, in his “History of the Italian republics during the Middle Ages”, London, Keating and Brown,

1836. L’edizione presenta una interessante “Preface by the editor”, alle pp. VII-XIX.

11 Cfr. C.DIONISOTTI, Manzoni e Gladstone, in ID., Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e

altri, Bologna, Il Mulino, 1988, in part. pp. 328-329 nota. Questo lavoro di Dionisotti, con

l’altro studio compreso nello stesso volume e intitolato Manzoni e la cultura inglese, resta fonda- mentale, anche per la messa a fuoco dell’interesse inglese al nesso tra religione e politica.

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parte, ne farà un elogio in un articolo anonimo uscito nel 1836, nella

prima annata della sua “Dublin Review”12.

Ma sulla valenza anche politica della lettura del testo manzoniano nuova luce ci dà un altro riferimento alla Morale finora mai rilevato (non vi accenna ad esempio Carlo Dionisotti, nei lavori qui indicati in nota). Lo si legge nella lunga recensione al primo volume della History of the Uni- ted States di Bancroft (Boston, C. Bowen; London, R.J. Kennett, 1834), comparsa anonima nel londinese “The British and Foreign Review or

European Quaterly Journal” del luglio-ottobre 183713. La recensione, che

cita più volte Tocqueville in traduzione inglese (i primi due volumi del De la démocratie en Amérique erano com’è noto apparsi due anni prima, nel 1835), riporta le riflessioni dell’intellettuale francese sul rapporto positi- vo, in America, tra cattolicesimo e democrazia (p. 346), strettamente le- gato alla separazione tra Chiesa e Stato (p. 347), per rinviare poi aperta- mente a Pellico e alla Morale Cattolica di Manzoni come a due esempi di unione tra cattolicesimo e lotta per l’indipendenza e la democrazia. Della Morale Cattolica cita anzi, in italiano, un ampio passo (dal cap. VII) nel quale si dice che nella cattolica Italia si è versato meno sangue che in altri paesi per odi religiosi (un passo in realtà, com’è d’uso in Manzoni, atten- tamente calibrato, se è vero che l’autore lombardo conclude che quel “meno” è pur sempre “troppo”). Quando poi la recensione termina (p. 366) con una riflessione su chi sa applicare la lezione del patriottismo americano alla condizione della vecchia Europa il discorso, dopo un bre- ve accenno alla politica scolastica dei Whigs in Irlanda, ritorna in conclu- sione proprio al duplice modello del “nipote di Beccaria” e del Pellico, per il momento sconfitti, ma il cui pensiero non potrà non apportare, in Italia, i frutti sperati.

Sarebbe toccato a un celebre esule italiano allora a Londra di replicare a queste tesi. Proprio a ridosso della nostra recensione, nel manifesto let- terario della Giovane Italia comparso nella “London and Westminster Review” dell’ottobre 1837 con il titolo Italian Literature Since 183014, Maz- zini dichiarava che la critica non faceva che ripetere, sulla letteratura ita-

12 La rivista esce a Londra, da W. Spooner, nel 1836: cfr. a. I, 2, pp. 460-474, in part. p. 474,

dov’è un’allusione esplicita all’ultimo capitolo dell’opera manzoniana: “Sulle obiezioni alla morale cattolica dedotte dal carattere degli Italiani”.

13 “The British and Foreign Review or European Quarterly Journal”, V, July-October 1837,

X, pp. 321-366.

14 “London and Westminster Review”, VI & XXVIII, October 1837-January 1838, pp. 132-

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liana, «cose già dette e ridette migliaia di volte. È facile predirne il sogget- to e gli encomi: Manzoni, Pellico, talvolta, ma ben di rado, Grossi e Ni- colini; indi Botta nella storia, Romagnosi nella filosofia della storia e del diritto e non altri. […] Que’ nomi, giova il dirlo, spettano al passato più che al presente, più ancora che all’avvenire”15.

15 Cito dalla traduzione italiana pubblicata, col titolo Colpo d’occhio sul movimento letterario italiano

dopo il 1830, negli Scritti letterari di un Italiano vivente, Lugano, Tipografia della Svizzera Italiana,

1847, t. III, pp. 275-322, in part. pp. 276-277. Lo scritto fu poi ripubblicato, con il titolo d’autore Moto letterario in Italia, in G.MAZZINI, Scritti editi e inediti, Milano, Daelli, 1861, vol. IV, pp. 289-334. Questo il tenore del testo inglese (“London and Westminster Review”, cit., p. 133): “Criticism is usually silent on the literature of Italy, or if it speaks, mentions her only to repeat, in worn-out phrases, a feeble mockery of gratitude towards the country which first trod the path we all have followed. A few names, more or less justly appreciated, have pene- trated this indifference. Manzoni, Pellico – sometimes, but more rarely, Grossi and Nicolini – Botta in history, and Romagnosi in the philosophy of history and law, are perhaps all that have been heard of. To foreigners, these few stand as the representatives of the present cen- tury of Italian literature. Beyond these, nothing is known, non one seeks to know. […] the Italy of the past is well known to her [England]; the Italy of to-day, she deems undeserving her notice”. La conclusione dell’intervento ribadiva con anche maggiore durezza (ivi, p. 168): “the youth of Italy insensibly advance towards a school of regeneration into which they will unhesitatingly enter as soon as they are emancipated from the influence, useful, we repeat, in its day, but now injurious, the influence of Manzoni in literature, Botta in history, and Ro- magnosi in the philosophy of history and law”.

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A LUNGA PRESENZA DEI GENOVESI IN

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Enrico Basso

What, will the line stretch out to the crack of doom?

(MACBETH,IV,I)

Se dovessimo basare la ricostruzione dei contatti mercantili fra Italia e Inghilterra solo sulle fonti letterarie, a cominciare dalle opere del Bardo, tratteremmo esclusivamente dei veneziani; se invece decidessimo di affi- darci alla storiografia britannica in materia, con rarissime eccezioni il di- scorso verterebbe quasi soltanto sui fiorentini, o al massimo sui toscani. Al contrario, per quanto poco studiata fino a tempi recenti (con le note- voli eccezioni delle brillanti intuizioni di Roberto S. Lopez e di Renée Doehaerd e degli accurati lavori di Alwyn A. Ruddock e Jacques Heers), la comunità mercantile straniera per molti versi dominante sulla scena economica inglese tardomedievale, come conferma la ricca documenta- zione d’archivio esistente, fu quella genovese.

Com’è ben noto, le galee genovesi raggiunsero le acque della Manica nell’ultimo quarto del XIII secolo ristabilendo la rotta diretta dal Medi- terraneo al Mare del Nord non più praticata fin dalla Tarda Antichità; ma gli atti notarili genovesi provano che i contatti fra Genova e il Regno dei Plantageneti risalivano a molti decenni prima: se è solo una favola il pas- saggio di Riccardo I dal porto ligure nel corso della III Crociata, è invece vero che negli stessi anni alcuni mercanti genovesi fornivano al re prezio- si falconi da caccia provenienti dalla Sardegna e che già nei primi decenni del XIII secolo diversi ecclesiastici genovesi compaiono negli elenchi dei titolari di benefici nel Regno, un fatto che, dati i privilegi goduti dalla Co- rona in tale campo fin dai tempi del Conquistatore, non sarebbe potuto avvenire senza l’esplicito consenso dei sovrani.

Con il regno di Edoardo I le indicazioni di una crescente presenza ge- novese in Inghilterra e di un legame già saldo con la Corona divengono più frequenti, e se nel 1275 Simone Mallone venne ammesso nel seguito reale in riconoscimento dei suoi servigi mentre altri esponenti dell’aristo- crazia mercantile genovese godevano chiaramente del favore regale, il

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sovrano, che già durante l’esperienza crociata in Tunisia e in Terrasanta doveva aver apprezzato la capacità dei mercanti genovesi di interagire con le realtà locali, non esitò a utilizzare nel 1292 non uno dei propri cavalieri, ma un altro genovese, Buscarello Ghisolfi, quale latore di una proposta di alleanza anti-musulmana indirizzata all’Il-Khan di Persia Arghun.

Questi episodi, per quanto importanti, costituiscono però solo il pre- ludio della brillante ascesa sociale ed economica di cui sarebbe stato pro- tagonista nel corso del primo trentennio del XIV secolo Antonio Pessa- gno, che possiamo considerare come il prototipo al quale successi- vamente si ispirarono molti suoi compatrioti nella loro affermazione nel- le società dell’Europa atlantica.

I successi colti in Inghilterra dal Pessagno fra il 1310 e il 1338 si pos- sono considerare esemplificativi dei due aspetti principali dell’attività esplicata dai rappresentanti dell’aristocrazia commerciale genovese nel Regno: da un lato, il ruolo di banchiere privato e mercante personale del re, con il conseguente rilievo nella politica interna inglese, dall’altro l’in- serimento nei ranghi della società locale con un esplicito recupero di quella dimensione “aristocratica” del proprio lignaggio che nella madre- patria tendeva a essere lasciata in secondo piano.

Il giovane Antonio, insignito già nel 1312 della qualifica di mercator re- gis, non fu soltanto il finanziatore e al contempo il fornitore del re; i suoi prestiti (il rimborso dei quali, grazie al gioco vertiginoso degli interessi, divenne presto impossibile senza un ricorso alle casse dei Bardi e dei Pe- ruzzi) non servivano infatti solo a soddisfare i gusti lussuosi di Edoardo II, ma, cosa più delicata dal punto di vista politico, anche a finanziare il suo tentativo di aggirare gli obblighi stabiliti dalla Magna Charta in materia fiscale e in definitiva di riuscire a “governare senza il Parlamento”, il che spiega i titoli e gli incarichi conferiti dal re al suo banchiere di fiducia e l’odio nutrito nei suoi confronti da influenti membri della Corte. La si- tuazione dei rapporti tra il re e il Pessagno (che aveva ricevuto gli speroni d’oro di cavaliere nel 1315 e un manor con adeguata rendita nel 1317) spiega anche la natura della “trappola” politica ordita dai suoi nemici: l’offerta della carica di Siniscalco di Guascogna. Tale carica, data la situa- zione politica nella zona, equivaleva a una condanna, ma offriva anche la possibilità al Pessagno, insignito per l’occasione anche della signoria di Créon e Oléron, di concretizzare il progetto di controllare, con l’aiuto del fratello Emanuele divenuto nello stesso 1317 Ammiraglio di Portogallo, i

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porti fondamentali per la navigazione commerciale fra Mediterraneo e Atlantico.

Antonio, pur ben cosciente della trappola, decise quindi di accettare il rischio; ma la scarsa attenzione prestata dal re agli assennati consigli del suo governatore (di cui resta traccia nella documentazione) portò già nel 1320 all’inevitabile fallimento, alla disgrazia e alla fuga. Nel 1330, tuttavia, il Pessagno riapparve a Londra per esigere dal nuovo re Edoardo III il pagamento dei debiti della Corona, ammontanti a più di 50.000 sterline. Il sovrano, avendo bisogno di esperti consiglieri per sostituire gli uomini del- la reggenza guidata da sua madre che aveva appena rovesciato, non esitò a riammettere “soen amez et fiel chivaler et conseiller monseignur Antoigne Pessaigne” a Corte e a restituirgli gli onori perduti, elevandolo al rango di chevalier ban- neret che gli consentiva di essere invitato a partecipare al Parlamento. Con- siderato uno degli uomini di fiducia del re, Antonio ebbe incarichi di alta responsabilità che attestano come egli fosse ormai perfettamente integrato nell’ambiente aristocratico inglese, tanto che gli ultimi documenti fino ad ora reperiti lo presentano, come “Sir Anthony Pessayne”, mentre si appre- sta ad accompagnare il re con un seguito di armati nella spedizione di Fiandra del 1338 che darà il via alla Guerra dei Cento Anni.

Al di là di un’ascesa sociale strabiliante, che rimarrà ineguagliata fino ai tempi di Sir Orazio Pallavicino, il “tema” principale dell’attività del Pessagno in Inghilterra, quello del fondamentale ruolo di “banchiere per- sonale” e uomo di fiducia del sovrano, si ritrova immutato anche nei più abili tra i suoi successori, quali Rinaldo Grillo, Antonio Spinola e il citato Orazio Pallavicino.

La particolare situazione inglese, che vedeva un solido controllo della leva fiscale da parte del Parlamento e costringeva quindi il re a dipendere dall’espressa approvazione Camera dei Comuni per l’imposizione di nuove tassazioni e ad accettare di concedere contropartite politiche in ca- so di necessità, offriva infatti spazi d’azione ai mercanti italiani che, gra- zie alla loro disponibilità economica, erano in grado di fornire al sovrano una possibilità di finanziamento alternativa e completamente fuori dal controllo degli organismi politici locali.

La possibilità di riuscita che l’intervento dei mercanti-banchieri italiani offrì al tentativo, messo ripetutamente in atto dai monarchi inglesi nel corso del Trecento, di “governare senza Parlamento”, fu in effetti uno dei principali motivi che alimentarono nelle classi dirigenti del Paese l’odio nei confronti degli “stranieri” i quali, con il loro intervento, finan-

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ziavano la “tirannide” dei re, e, conseguentemente, le spinsero ad aizzare contro questi intrusi il malcontento e la violenza delle plebi urbane. Gli svantaggi connessi a questa situazione vennero tuttavia per lungo tempo compensati proprio dal favore della Corona che, oltre ad apprezzare il ruolo dei mercanti banchieri per i motivi sopra esposti, realisticamente considerava indispensabili i traffici di esportazione gestiti dagli stranieri per il mantenimento del livello degli introiti delle dogane del Regno, che costituivano ormai la principale fonte di entrate delle casse statali.