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Traduire c’est dire pouce à la vie.

Qual piuma al vento, la traduzione è mobile.

La si rilegge, quando è stampata, e subito salta agli occhi ciò che si vorrebbe aver detto in altro modo rispetto a quello che si trova scritto. Oppure, si sta facendo un lavoro diverso, si è in biblioteca, ed ecco che arrivano indizi, segni, prove delle varianti che sarebbe stato opportuno considerare.

Quando abbiamo fatto il volume Racconti e prose brevi1, correva l’anno

2010. Avventura per me straordinaria: mi veniva offerta su un vassoio d’argento, anzi d’oro, l’opportunità di tradurre, circondata dai migliori specialisti, testi di Beckett che amavo oltre ogni dire; a me che tanto ave- vo lavorato su Ionesco e lo avevo tradotto, a me che – avendo incontra- to più e più volte quest’ultimo, averlo intervistato, frequentato in casa sua a Parigi nel corso dei suoi ultimi anni di vita – era rimasto il grande cruccio di aver costeggiato Beckett alla fine della sua esistenza, di averlo quasi sfiorato fisicamente in boulevard Saint Jacques e ai tavolini del caffè internazionale vicino a casa sua, ma di non aver saputo cogliere l’occasio- ne quando sarebbe stato il momento. Cominciavo a lavorare per “La Stampa”, e avrei potuto farmi mandare a cercare di incontrarlo, per diffi- cile che fosse: ed ecco che Beckett era morto.

Ora, senza preavviso, un bel giorno tu mi proponevi di partecipare ai lavori per un volume che avrebbe raccolto testi narrativi di Beckett. Mi offrivi di cimentarmi, per questo avevi pensato a me, su alcuni dei testi francesi di Beckett. Doppia manna: i Textes pour rien, e poi Imagination mor- te imaginez, Bing, e Assez.

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Ma prima di procedere, un omaggio: la traduzione, inedita, del ritratto in versi che fece Alain Bosquet dell’amico Beckett nel Cahier de l’Herne a lui dedicato2, sorta di blasone alla rovescia, postmoderno:

Il tuo corpo troppo troppo è troppo lungo Le tue gambe troppo loro sono troppo interminabili E tu le pieghi le dispieghi

Vorresti essere un uccello corto un uccello tondo Non troppo tondo ma molto corto

Per entrare meglio dentro di te a cercare Siccome tu sei tu solo per fastidio degli altri Ameresti non aver niente da amare Né il tuo corpo che si spezza Né quelle ali che non avrai mai

Né quelle gambe che vanno troppo lontano troppo vicino E t’impediscono di essere te

Quando occasionalmente hai voglia di non essere Gli altri

L’amore di sé comunque ti disgusta Almeno quanto le membra che trascini

Si potesse metter le gambe

In una vecchia valigia ah! Non troppo vecchie E le gambe troppo pesanti troppo fragili E la valigia comunque hop le inghiottirebbe

Le braccia queste braccia orrende che devono star su Prendere e troppo lasciare e troppo ghermire non sai che cosa Queste braccia che scelgono ma è orrendo

La valigia forse potrebbe nasconderle Avrebbe dovuto esser concesso Nascere tondi oh non troppo tondi Però almeno nascere troppo corti Per non uscire fuori da se stessi Le gambe vanno è compito loro Anche se bisogna stare dove si è E le braccia prendono

Anche pendendo prendono troppo ogni volta troppo Mentre sarebbe meglio lasciare

Gli esseri tutti gli esseri e le cose Là dove sono tranquilli belli o brutti

2 A. BOSQUET,Poème pour Sam, in Cahier Beckett, dirigé par Tom Bishop et Raymond

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Neanche il tuo collo ti piace Lo torci e vorresti che si girasse Ogni volta che passi

Laggiù in lontananza al largo di te stesso Nella rada di quell’altro tuo io che è la spia

Di chissà quanti altri tuoi io un popolo intero Di uomini simili amici nemici

Si pensa di sovrappopolarsi così Come per perdersi alla fine

Le tue mani le tue mani ogni mattina sono assassine Le tagli come fiori e ricrescono

Le bruci e risorgono

Le mordi diventano grosse come ortaggi A volte ti metti le manette

E alla tua anima sono catene che metti Il solo cui a volte perdoni

È il tuo sguardo Ma poi no gliene vuoi

Perché vede il mondo troppo bene Questa sporcizia a che serve conoscerla E lo sguardo te la riporta

Fedele come cane di quale cagna Fedele come il gatto di quale gatta

Grazioso come il pidocchio di quale pulce Bisogna punirli bisogna punirli cribbio gli occhi Allora lanci gli occhiali

Non importa dove sulla tovaglia o nell’insalata Lo sguardo nudo

Lo sguardo nudo

Quale poesia diamine è l’innocenza Quale poesia diamine è il disarmo

Della memoria uno sguardo nudo come una poesia Non veder inventare il programma è terribile Sempre il tuo corpo nella tua orbita

Sempre ciò che va oltre e che sporge

Il naso il labbro e l’occhio perché hanno un sesso Se bastava nasconderli in valigia

Che però è piena con tutti quegli organi In partenza il corpo in partenza la pelle

Troppo troppo peso nel bidone della spazzatura si sta meglio E se invece che nel bidone

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Ti si potrebbe portare al deposito bagagli

E dimenticarti lì magari un anno o anche due o tre Tutti i giorni sospiri il tuo scheletro

Se potesse restringersi sarebbe magnifico Il tuo cuore tu osi pensare a questo muscolo Eh sì batte troppo veloce e di traverso e molle Uno pneumatico farebbe ben meglio

O addirittura un guanto da boxe con dentro un salame Il naso ti trancia in due come una ghigliottina

Il labbro si sgonfia come un soffione

Sai quello che a volte ti dispiace un po’ meno È la scapola ha si potrebbe dire

Una superficie un po’ tonda un po’ larga E a volte spinge sulla spalla

Oh sì nei momenti di grande disprezzo Non parli mai è il tuo scheletro Che mormora per te

Parole che sono pietre Sillabe che sono cicatrici Proverbi che sono rantoli

Il tutto sotto forma di ossa dice che vorresti essere un ginocchio Il tuo corpo troppo troppo è presente

Il tuo io tu non sai dove trovarlo La tua vita in valigia

La vita è lo spurgo3

3 “Ton corps trop trop il est trop long/ Tes jambes trop elles sont trop interminables/

Et tu les plies tu les déplies/ Tu voudrais être un oiseau court un oiseau rond/ Pas trop rond mais très court/ Pour mieux entrer en toi que tu recherches/ Car tu n’es toi que par gêne des autres/ Tu aimerais n’avoir rien à aimer/ Ni ton corps qui se casse/ Ni ces ailes jamais que tu n’auras/ Ni ces jambes qui vont trop loin trop près/ Et qui t’empêchent d’être toi/ Quand par hasard tu as envie de n’être pas/ Les autres/ L’amour de soi pourtant ça te dégoûte/ Autant que tous ces membres que tu traînes/ Si on pouvait mettre ses jambes/ Dans la vieille valise ah! Pas trop vieilles/ Et les jambes trop lourdes trop fragiles/ Et la valise aussi hop elle avalerait/ Les bras ces bras affreux qui doivent se tenir/ Prendre et trop choir et trop saisir tu ne sais quoi/ Ces bras qui font un choix mais c’est affreux/ La valise peut-être pourrait les cacher

On aurait dû avoir le droit/ De naître rond oh pas trop rond/ Dant tous les cas naître trop court/ Pour ne pas dépasser hors de soi-même/ Les jambes vont c’est bien leur rôle/ Même s’il faut rester en place/ Et les bras prennent/ Même en pendant ils pren- nent trop chaque fois trop/ Alors qu’il vaudrait mieux laisser/ Les êtres tous les êtres puis les choses/ Là où ils sont tranquilles beaux ou laids/ Tu n’aimes pas ton cou non plus/ Tu te le tords et tu voudrais qu’il se retourne/ Chaque fois que tu passes/ Là-bas

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E ora, sbrigato l’aspetto fisico, il resto.

Non si tratta in questo caso di cambiare il testo. La traduzione di As- sez per ora tiene. Lo dici spesso, ogni cinquant’anni circa bisogna ritra- durre perché a differenza dei testi le traduzioni invecchiano. No, qui è questione di proporre dettagli che non sarebbero stati adeguati al volume einaudiano ma che ora acquisiscono un senso.

Là infatti erano i testi originali ad essere tradotti, e non era richiesto, né sarebbe stato opportuno, andare a verificare in che modo Beckett aveva trasformato la versione francese trasponendola lui stesso in ingle- se. Ed erano i testi originali definitivi, quindi ugualmente non era richie-

au loin au large de toi-même/ En rade de cet autre toi qui est l’espion/ De combien d’autres toi encore tout un peuple/ D’hommes semblables tes amis tes ennemis/ A-t- on idée d’ainsi se surpeupler/ Comme pour à la fin se perdre/ Tes mains tes mains tous les matins sont assassins/ Tu te les coupes comme fleurs et ça repousse/ Tu te les brû- les ça revit/ Tu te les mords ça devient gros comme légumes

Parfois tu te mets les menottes/ Et à ton âme est-ce des chaînes que tu mets/ Le seul à qui quelquefois tu pardonnes/ C’est ton regard/ Et puis non celui-là tu lui en veux/ De voir trop bien le monde/ Car cette saleté à quoi bon la connaître

Et le regard te la rapporte/ Fidèle comme chien de quelle chienne/ Gentil comme le chat de quelle chatte/ Mignon comme le pou de quelle puce/ Faut les châtier faut les châtier crénom les yeux/ Alors tu lances tes lunettes/ N’importe où sur la nappe ou c’est dans la salade/ Le regard nu/ Le regard nu/ Quel poème dis donc mais l’innocence

Quel poème dis donc mais le désarmement/ De la mémoire un regard nu comme un poème/ Ne pas voir inventer le programme est terrible/ Toujours ton corps dans ton orbite/ Toujours ce qui dépasse et cela qui se lève/ Le nez la lèvre et l’oeil pourquoi ont-ils un sexe/ S’il suffisait de les cacher dans la valise/ Qui est pleine pourtant avec tous ces organes

En partance le corps en partance la peau/ Trop trop de poids dans la poubelle il fait meilleur/ Et si au lieu de la poubelle

Tu te mettais dans ta vieille valise/ On pourrait te porter à la consigne/ Et t’oublier peut-être un an ou deux ou trois/ Tous les jours tu soupires ton squelette/ S’il pouvait rétrécir ce serait épatant/ Ton coeur tu oses songer à ce muscle

Eh bien il bat trop fort et de travers et mou/ Un pneu ferait bien mieux l’affaire/ Ou même un gant de boxe avec un saucisson dedans/ Le nez te coupe en deux comme une guillotine/ La lèvre elle se fane en pissenlit/ Tu sais ce qui parfois te déplaît moins/ C’est l’omoplate elle a comme on dirait/ De la surface un peu ronde un peu large Et elle pousse quelquefois sur ton épaule/ Oh oui dans les moments de haut mépris/ Tu ne parles jamais c’est ton squelette/ Qui murmure à ta place/ Des mots qui sont des pier- res/ Des syllabes qui sont des cicatrices/ Des proverbes qui sont des râles/ Le tout en os il dit que tu voudrais être un genou/ Ton corps trop trop il est présent/ Ton toi tu ne sais pas où le trouver/ Ta vie dans la valise / La vie c’est la vidange”. Alain Bosquet (un omaggio affettuoso: Beckett e Bosquet erano amici da molto tempo, poeticamente com- plici, di sensibilità affine; l’uno sapeva cosa piaceva all’altro, e cosa non sopportava).

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sto, né sarebbe stato opportuno (a parte un caso, quello di Bing, per il

quale si era reso necessario per ragioni tutte specifiche)4 andare a indaga-

re nella serie degli avantesti, tanto francesi quanto inglesi5, per vedere at- traverso quali varianti Beckett aveva elaborato la versione finale.

Qui invece nulla impedisce di farlo. Ed anzi, alla luce di quanto entrambe le indagini svelano, dicevo, farlo diventa nella nostra prospettiva interessante.

Narrazione in prima persona divisa in sequenze, racconta gli anni tra- scorsi da chi parla con un uomo più adulto insieme al quale, mano nella mano, camminò per migliaia di chilometri, parecchie volte la lunghezza dell’equatore. Il personaggio più adulto, ormai vecchio e piegato in due, un giorno disse a chi racconta di lasciarlo. La separazione è descritta quattro volte (la quarta contraddittoria rispetto alle prime tre) ma nell’insieme il ricordo è sereno. Anche nel presente in cui l’io narrante vive in solitudine ed avanza verso il buio, persiste la calma appresa negli anni trascorsi con l’altro personaggio.

Per quanto riguarda il confronto con la versione inglese realizzata dal-

lo stesso Beckett6, la prima osservazione è che delle 29 sequenze origina-

rie solo 28 superano la frontiera del passaggio di lingua. A non figurare in inglese è la numero 20:

Tutte queste nozioni sono sue. Non faccio che combinarle a modo mio. Disponendo di quattro o cinque vite come quella avrei potuto lasciare una traccia7.

4 “Le diverse stesure” scrivevi nel tuo Invito alla lettura di Beckett (Milano, Mursia, 1984),

“evidenziano come Bing sia il risultato di una puntigliosa ricerca di essenzialità e di astrattezza” (p. 138). Per poter tradurre la versione finale, estremamente prosciugata, e non cadere talora in errori interpretativi dovuti alla rarefazione, era stato d’obbligo lavo- rare sulla genesi del testo, le sue dieci stesure e la progressiva riduzione.

5 Dieci quelli in francese, tre quelli in inglese in questo caso.

6 Enough, in S. BECKETT,The Complete Short Prose 1929-1989, Edited and with an Intro-

duction and Notes by E. Gontarski, New York, Grove Press, 1995, pp. 186-192 (edi- zione qui utilizzata). La prima edizione in inglese è dell’aprile 1967: in Books and Book-

man 13.7, pp. 62-63.

7 Nell’originale francese: “Toutes ces notions sont de lui. Je ne fais que les combiner à

ma façon. Donné quatre ou cinq vies comme celle-là j’aurais pu laisser trace” (Assez, in

Têtes-mortes, Paris, Les Editions de Minuit, 1967, pp. 33-47: 43 – edizione qui utilizzata:

si tratta in realtà della seconda versione a stampa in francese, raccolta in volume con altre brevi prose, senza varianti rispetto alla prima che risale a pochi mesi prima, pubbli- cata in rivista: La Quinzaine littéraire, 15 mars 1966, pp. 4-5, e poi riprodotta in plaquette singola per Minuit).

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Coerente rispetto alla sequenza 6 che diceva:

Tutto mi viene da lui. Non lo ridirò ogni volta a proposito di questa o quella conoscenza. L’arte di combinare o combinatoria non è colpa mia. È una tegola del cielo. Per il resto direi non colpevole8.

L’intenzione, poi smentita in francese, viene invece messa in pratica nella versione inglese dove dunque non è ribadita la natura combinatoria delle nozioni che la voce narrante ha mutuato dall’altro personaggio, de- tentore del sapere. E anche è eliminato il riferimento all’ipotesi di poter la- sciare una traccia solo avendo almeno quattro se non cinque vite supple- mentari.

Infine è soppresso, nel corso della penultima sequenza, il segmento:

“Non ho riflettuto sulla questione”9. Non volendosi ripetere, la voce nar-

rante evita di ribadire che la ponderazione spettava principalmente al personaggio più adulto.

A proposito di: “Non ho riflettuto sulla questione”. Traducendo così ho preservato fino in fondo l’indeterminatezza sessuale del personaggio che racconta. I non fluentissimi commentatori si sono espressi variamen- te su questo punto, chi sfruttando l’argomento dell’androginismo e dell’unità originariamente indistinta dalla cui scissione sarebbero nate le due identità, chi ricamando su eventuali allusioni a un’ipotetica primige- nia omosessualità, chi ancora semplicemente individuandola come speci- ficità del testo, la volontà virtuosistica di Beckett di mantenere la narra- zione sul filo dell’indecidibile. Il testo francese definitivo è inequivoco in questo senso. “Je ne me suis pas posé la question” è solo in apparenza un sintagma coniugato al maschile. La regola dell’accordo per il participio passato di un verbo pronominale come se poser vuole infatti che esso ri-

8 “ Tout me vient de lui. Je ne le redirai pas chaque fois à propos de telle et telle circon-

stance. L’art de combiner ou combinatoire n’est pas ma faute. C’est une tuile du ciel. Pour le reste je dirais non coupable” (p. 36); “All I Know comes from Him. I won’t re- peat this apropos of all my bits of knowledge. The art of combining is not my fault. It’s a curse from above. For the rest I would suggest not guilty” (p. 187).

9 “Je ne me suis pas posé la question” (pp. 46-47). Nel caso specifico, la domanda che la

voce narrante dice di non essersi mai posta – dopo aver riferito sinteticamente i conte- nuti delle conversazioni a due – è quella relativa al destino dell’uomo: “Que sais-je du destin de l’homme?” (p. 46). Questione retorica che comporta il commento: “Je suis davantage au courant des radis” (p. 47). In inglese: “What do I know of man’s destiny? I could tell you more about radishes” (p. 192).

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manga invariato indipendentemente dal genere del soggetto quando il complemento oggetto diretto sia posposto al verbo. La traduzione lette- rale italiana (“non mi sono posto la questione”) avrebbe invece indotto una definizione maschile della voce narrante. E questo doveva essere più che mai evitato, se è vero che Beckett da un avantesto al successivo ha la- vorato in modo da sopprimere via via qualunque elemento di determina- zione. A partire dal più individuante, eliminato a partire dal terzo avante- sto, un secondo pene, succhiato specularmente al primo:

Je crois volontiers qu’il me faisait part de tous ses besoins. En ce cas il n’en avait pas beaucoup. Quand il se taisait il était peut-être comme moi. Quand il me demandait de lui sucer le pénis, je m’empressais de lui obéir. J’en tirais de la satisfaction. Moins que lui sans doute, ce n’est pas sûr. Même chose quand il me demandait de me sucer le mien, je veux dire de le lui donner à sucer à lui10.

Nella versione finale rimane un pene unico, quello del personaggio più adulto.

Altra variante notevole è quella che arretra di sette anni il momento dell’incontro dell’io narrante con l’uomo più adulto.

Il testo definitivo dice: “Dovevo avere sui sei anni quando mi prese

per mano. Uscivo appena dall’infanzia”11. Nel primo avantesto francese

invece si leggeva: “Je devais avoir dans les six treize ans quand il me prit par la main”12. La cancellazione del tredici può essere interpretata come segno precursore della volontà di rendere il più possibile asessuato, fino alla frase finale, l’io narrante – i sei anni sono, rispetto ai tredici, età di as- sai maggiore indifferenziazione – ma può essere anche vista come conse- guenza di un ricalcolo, se si propende per una lettura codée del rapporto d’amore raccontato.

In fondo è questa, in effetti, che io ora propongo. I tredici anni corri- sponderebbero allora a quelli trascorsi da quando il personaggio più adul- to aveva creato l’ambiente propizio alla nascita del legame di coppia. Il

10 MS 1529/1: manoscritto olografo datato 4 settembre 1965. Gli originali degli avante-

sti sono conservati a Saint Louis, Washington University. In fotocopia sono consultabili

alla Beckett Collection dell’Università di Reading in Gran Bretagna.

11 “Je devais avoir dans les six ans quand il me prit par la main. Je sortais de l’enfance à

peine” (p. 35). “I cannot have been more than six when he took me by the hand. Barely