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Anche un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno.

Hermann Hesse

Tutto è relativo. Prendete un ultracentenario che rompe uno specchio: sarà ben lieto di sapere che ha ancora sette anni di disgrazie.

Albert Einstein

John Boynton Priestley (1894-1984) è stato uno dei più prolifici e versati- li scrittori inglesi del XX secolo. Giunto alla notorietà nel 1929 con il romanzo The Good Companions, un best seller che riscosse un enorme suc- cesso, nel trentennio successivo scrisse una quarantina di opere per il tea- tro. Resta ancor oggi un enigma perché la critica e l’accademia lo abbiano così spesso trascurato o sminuito, nel passato come nel presente, etichet- tandolo come autore poco innovativo, commerciale o populista. Sicura- mente Priestley non partecipò alle avanguardie, né seguì i dettami del movimento modernista imperante negli anni della sua ascesa. La sua pro- sa, ricca e travolgente, deve più a Dickens che non a Joyce. Non v’è dubbio, invece, che nel teatro sia stato uno sperimentatore, senza però rinunciare all’azione e a un dialogo avvincente, a trame ben congegnate e a un ritmo veloce. Tristemente nota è la definizione data da Virgina Woolf di Priestley come “tradesman of letters” (il commerciante delle lettere) e riportata nei suoi diari. D’altro canto la stessa Woolf, qualche riga sopra, aveva candidamente ammesso il suo pregiudizio sull’autore, confessando di non aver mai letto né di aver intenzione di leggere nessun libro di Priestley.

Sincero sostenitore della causa socialista, interessato alla psicologia Junghiana e alle teorie del tempo che erano seguite alle leggi della relativi- tà di Einstein, Priestley voleva verificare le possibilità del testo dramma- turgico su questi temi. Il successo di The Good Companions, gli aveva assi- curato la stabilità economica e poteva quindi permettersi di sperimentare

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nuove forme. Anche in questo caso incontrò il favore del pubblico. Prie- stley era un acceso sostenitore della missione educativa e sociale del teatro e dunque della necessità di finanziamenti pubblici alla cultura e alle disci- pline artistiche: una politica adottata in molti paesi europei, ma non in Gran Bretagna, almeno fino al 1946 con l’istituzione dell’Arts Council of Great Britain. Egli però non ebbe mai bisogno di sussidi statali. Le sue opere, prodotte nei maggiori teatri del West End di Londra, riuscivano a reggersi in cartellone per mesi e mesi unicamente sui proventi del botte- ghino. Priestley fu dunque capace di coniugare sperimentazione e successo di pubblico: un binomio difficilmente realizzato in letteratura e nel teatro.

Tra i pochi riferimenti a Priestley in Italia, vi è la sezione a lui dedicata nel capitolo “Tra le due guerre” de Il teatro inglese del Novecento di Paolo Bertinetti. Incuriosito, quasi affascinato dal tema del tempo nell’opera del commediografo inglese, così Bertinetti lo riassume:

L’interesse principale dell’opera teatrale di Priestley sta nella sua sfida alle convenzioni della scena inglese degli anni Trenta, nella proposta di un teatro che, pur accettando apparentemente gli stilemi del naturalismo, si muove invece in una dimensione che va al di là della superficiale “ripro- duzione” della realtà grazie a un abile ribaltamento della nozione del tempo. I suoi lavori più significativi sono infatti raccolti sotto l’etichetta di “time plays”, ma la sua visione del tempo, la sua idea che il tempo sia un

mistero sempre immanente, la si ritrova anche in molti degli altri suoi testi1.

(corsivo mio)

L’idea del tempo come “mistero immanente”, ovvero dimensione problematica, non riducibile a rassicuranti misurazioni matematiche ma sempre legata alla percezione del soggetto, al punto di vista e alla com- plessità umana è infatti al centro del teatro e del pensiero di Priestley. E pare strano che i modernisti non abbiano saputo cogliere il suo apporto a questo tema a loro tanto caro. Priestley non fa però del tempo una que- stione meramente psicologica o filosofica, ovvero legata alla individualità di sé o del sé. Egli fa proprie anche le più recenti scoperte della fisica e le teorie del tempo scaturite nei primi decenni del secolo oltre che le rappre- sentazioni letterarie e artistiche e l’immaginario tramandatoci dalle civiltà del passato. La ricerca di un senso diverso del tempo diventa dunque una

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passione totalizzante che va ben oltre il teatro e lo porta a scrivere un sag- gio Man and Time (1964) dove egli raccoglie il frutto dei suoi studi.

Lungi dal voler comporre uno studio rigoroso e oggettivo, come lui stesso ammette nell’introduzione, Priestley intende raccontare la sua sog- gettiva presa di coscienza di questa dimensione. Non vuole dunque sfida- re filosofi, storici, fisici e matematici nel loro campo. Il contenuto di Man and Time e le conclusioni a cui giunge sono profondamente personali, ri- sultato di intuizioni, riflessioni, sensazioni, inclinazioni ed esperienze vis- sute. Priestley sottolinea ripetutamente come la civiltà occidentale abbia abbracciato il concetto newtoniano di tempo assoluto, matematico e in- flessibile – fulcro della Rivoluzione Industriale e del Positivismo, e ancor oggi largamente sostenuto dalla “cittadella” della scienza e della tecnica – e come esso sia il peggior concetto di tempo mai formulato dall’umanità: una corsia preferenziale che ci trascina verso l’oblio. Con un occhio ri- volto al passato e un altro alle più recenti scoperte scientifiche, egli in- tende recuperare ciò che di buono vi era una volta nel rapporto tra l’uo- mo e il Tempo (con la T maiuscola, come egli ama scrivere) e contempo- raneamente evidenziare come l’idea newtoniana imperante sia già stata di fatto confutata da teorie successive (in particolare, la relatività e la mec- canica quantistica), che ne hanno dimostrato l’inesattezza e inapplicabilità in realtà naturali diverse. L’obiettivo di fondo è la ricerca di una conce- zione laica del Tempo, che dia un senso alla vita dell’uomo e lo aiuti a vi- vere meglio.

Secondo la famosa definizione di Newton, “il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente". Questo concetto fu disconosciuto più volte in epoche diverse da molti filosofi, tra i quali Leibniz e Kant, ma rimase saldo nell’opinione popolare. L’autorità di Newton sulla sua epoca (e quelle successive) è riassunta dall’epitaffio scritto per la sua morte da Alexander Pope, che in qualche modo paragona la nascita dello scienzia- to alla creazione del mondo stesso:

Nature and Nature’s laws lay hid in night: God said “Let Newton be!” and all was light2.

2 La natura e le leggi della natura erano immerse nella notte/poi Dio disse “Che sia

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Priestley si cimenta a spiegare ciò che lui ha capito della relatività di Einstein attraverso affermazioni generali ma solidamente argomentate. Secondo la Teoria Speciale di Einstein (1905), la velocità della luce è sempre in rapporto costante all’osservatore qualunque sia il suo movi- mento, dunque il tempo non è assoluto ma è relativo alla posizione dell’osservatore. Se un raggio di luce impiega un certo tempo per arrivare ai nostri occhi, quanto più saremo lontani tanto più tempo impiegherà. Due osservatori che si trovassero a distanza diversa da un avvenimento, lo vedrebbero in momenti diversi. Nella Teoria Generale, formulata un- dici anni dopo Einstein spiega che la massa determina la velocità del tempo, cosicché se la Terra fosse più grande, il tempo su di essa scorre- rebbe più lentamente. Un pendolo che si muove a una certa velocità sulla Terra si muoverebbe più lentamente su Giove e ancor più lentamente sul Sole. La teoria di Einstein risultò comprovata quando successivamente si poterono misurare i tempi di vibrazione di un atomo sul Sole e quelli di un simile atomo sulla Terra. Dal mondo tridimensionale esistente nel tempo assoluto, Einstein ci ha così trasportato in un mondo a quattro dimensioni, dove vige una continuità spazio-tempo. Il tempo è la quarta dimensione. Quello che appare alla visione comune è però una sezione tridimensionale di una realtà tetradimensionale in momenti diversi e suc- cessivi. Il tempo è dunque un concetto relativo. Anche la meccanica quantistica giungerà a queste stesse conclusioni: “Quantum theory has taught us that we have to take the process of observation into account, and observations usually require us to bring in the three-dimensional sec-

tions of the four-dimensional picture of the universe”3.

A conclusione della panoramica sui nuovi orizzonti della fisica, Priest- ley esprime la sua perplessità di fronte all’evidente ininfluenza di queste nuove teorie al di fuori dell’accademia e alla persistenza dell’idea classica di tempo nel quotidiano, sia per gli scienziati che per i profani: “But if it

will no longer do for stars and atoms, it is still good enough for man”4.

Addirittura, continua lo scrittore, anche laddove la fisica quantistica de-

3 Paul DIRAC, The Evolution of the Physicist’s Picture of Nature, citato in J.B. PRIESTLEY,

Man and Time, Star Book, W.H. Allen & Co, London 1978 [1964], p. 58: “Tale teoria

infatti ci ha insegnato a dar peso al processo di osservazione; e le osservazioni, per l’appunto, richiedono di prendere in considerazione sezioni tridimensionali della rap- presentazione tetradimensionale dell’universo...”. Traduzione di Anna Nannucci e Si- monetta Guccerelli De Vito, in L’uomo e il tempo, Sansoni, Firenze 1974 [1964], p. 93.

4 PRIESTLEY, Man and Time, p. 63: “Per quanto non funzioni più per stelle e atomi, va

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scrive strani effetti del tempo e sembra invertire la concatenazione causa- effetto, si assiste a disperati tentativi per riadattarli ai concetti classici. Inoltre, nuove teorie del Tempo, casi di parapsicologia, fenomeni di ESP (Extra Sensorial Powers) o precognizione vengono accolti con increduli- tà o rigettati come falsità o pure coincidenze. Se è vero che la scienza de- ve occuparsi di ciò che è reale e non di quanti angeli possono danzare sulla punta di un ago, non è detto che tutto ciò che la scienza non può dimostrare sia necessariamente irreale e indegno di attenzione. La con- clusione cui lo scrittore giunge è che il nostro approccio alla realtà è do- minato da imperativi che si sono sclerotizzati nel corso della storia di questi ultimi secoli e che hanno prodotto in noi resistenze al cambia- mento. Vi è una narrazione dominante imposta dall’esterno che abbiamo fatto acriticamente nostra.

È dunque da questi presupposti che il commediografo inglese parte piuttosto che dalla filosofia di Bergson. Priestley, infatti, critica l’eccessi- va importanza data al tempo psicologico nel primo Novecento. Pur non negando la legittimità della distinzione tra tempo cronologico esteriore e tempo psicologico interiore, è convinto che essa non ci porti molto lon- tano in un’indagine sul Tempo. Fu invece la lettura di An Experiment with Time (1927) di J.W. Dunne ad attirare la sua attenzione e a indurlo a prender coscienza del contenuto dei suoi sogni annotandoli. Priestley confessa di aver sempre intimamente creduto alla possibilità di un Tem- po multidimensionale. Il potere immaginifico della mente del bambino, che attribuisce importanza a cose totalmente inosservate dagli adulti, contribuì a costruire nella sua infanzia l’idea del Tempo come mistero e segreto. Già molto prima di leggere qualsiasi testo sull’argomento, egli avversava l’idea che tutto il nostro io potesse esaurirsi all’interno del tempo cronologico, quasi si fosse costretti dentro una camicia di forza mentale. Questa percezione fu rafforzata dall’esperienza al fronte nella Prima Guerra Mondiale, a cui egli sopravvisse miracolosamente. Qui egli vide gli atteggiamenti e comportamenti degli uomini mutare, come se prevedessero l’avvenimento che si sarebbe verificato di lì a poco. Il di- stacco di alcuni verso la propria sorte sembrava avallare l’ipotesi che in realtà essi guardassero se stessi da un altro Tempo. In guerra, dirà Priest- ley, s’impara una diversa concezione del Tempo che non si adatta ai fatti. Per il commediografo, il merito di Dunne in An Experiment With Time sta in quell’approccio personale al Tempo che gli fece intuire l’esistenza di tempi multipli in ognuno di noi evidenziata dai sogni. Dunne descrisse

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la sua attività onirica a partire dal 1899: sogni per nulla strabilianti né drammatici, ma nei quali egli intravedeva “glimpses of future events”5 (stralci di eventi futuri), percezioni anche solo fugaci di esperienze per- sonali spostate nel tempo, come la visione dei titoli di un giornale del giorno dopo. Muoversi da un tempo all’altro, secondo Dunne, attiene al- la vita comune di tutti, non solo a quella dell’eremita o del mistico. Egli teorizzò la presenza in ciascuno di noi di diversi osservatori appartenenti a una serie di tempi diversi (Serial Time). In realtà nei sogni è difficile di- stinguere il futuro dal passato, perché vengono spesso mescolati e, nel ricordo, s’intromette anche la percezione del presente. Se aggiungiamo che gran parte dei sogni viene parzialmente dimenticata subito dopo il risveglio e totalmente obliterata già a poche ore di distanza, si capisce come sia dif- ficile poter prendere coscienza di questi diversi livelli dentro di noi. C’è poi

una “unconscious, matter-of-fact assumption of impossibility”6 che ci por-

ta a non credere che ciò che abbiamo sognato attenga al futuro.

Dunne esemplifica la sua teoria (denominata “Serialism”) con l’imma- gine di un pittore che ritrae l’universo su una tela. Dopo aver raffigurato tutto ciò che lo circonda, l’artista si accorge di aver dimenticato qualcosa: se stesso. Si aggiunge nell’atto di dipingere, ma manca ancora qualcosa: se stesso che dipinge se stesso che dipinge la tela. E così via. La critica che Priestley fa a Dunne è l’essere caduto nella trappola della regressione all’infinito (ovvero che possa esistere un osservatore finale in un Tempo Assoluto), avvicinandosi troppo a una dimensione metafisica. L’autoco- scienza non conduce ad un regresso infinito, dice Priestley, per il quale la personalità non è regressiva ma richiede di fatto tre termini. Sapere che sappiamo è un elemento essenziale della nostra comune esperienza e ogni ulteriore sapere non aggiunge nulla. Dunque, di fatto, secondo Prie- stley esiste un “Io 1” che vive nel Tempo 1 (T1) ed è solo oggetto; un “Io 2” che vive in un Tempo 2 (T2) che è soggetto e oggetto (sa dell’Io 1e ne descrive il funzionamento); e un “Io 3” in un Tempo 3 (T3) che è solo soggetto e sa che l’Io 2 sa dell’Io 1.

Priestley utilizzerà la teoria di Dunne in Time and the Conways (1937), la

più famosa delle sue “Time Plays”7. Questa piéce debuttò al Duchess il

5 Ivi, p. 239.

6 Ivi, p. 241, “inconscia assunzione realistica di impossibilità”.

7 Nella nota introduttiva della raccolta Three Time Plays (1947), che include Dangerous

Corner, Time and the Conways e I Have Been Here Before, si sottolinea che le tre commedie

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26 agosto 1937 e rimase in cartellone fino al 12 marzo 1938, per ben 225 repliche, facendo concorrenza all’altra Time Play di Priestley I Have Been Here Before, in cartellone per ben 210 repliche al Royalty8.

Il primo atto di Time and the Conways si svolge nel 1919 nell’atmosfera gioiosa di una festa a casa di una benestante famiglia borghese. La guerra è finita e si sta celebrando il ventunesimo compleanno di Kay Conway con musica, giochi e travestimenti. L’atmosfera è in realtà più evocata che descritta, perché l’ambientazione è una stanza di servizio dove i membri della famiglia corrono a prepararsi e indossare i costumi per la sciarada che avrà luogo di lì a poco. Da qui si sentono le voci, risa e can- zoni degli ospiti nella sala accanto. A coronare la festa è l’arrivo di Robin, il figlio prediletto della signora Conway, con indosso ancora l’uniforme della RAF. È un momento di evasione e di celebrazione della vita dopo gli anni bui della guerra. Entrambi i figli maschi, Alan e Robin, sono sal- vi. L’atto finisce con Kay che sta annotando le sue emozioni ed impres- sioni per il nuovo romanzo che si appresta a scrivere. Poi spegne la luce, si avvicina alla finestra, si siede e guarda fuori come in estasi. La casa è pervasa da un’atmosfera calda e avvolgente, piena di aspettative e proget- ti per il futuro. Il secondo atto ha luogo invece in occasione del quaran- tesimo compleanno di Kay, ma l’atmosfera è completamente diversa. La famiglia versa in gravi problemi economici a causa della Depressione, di una gestione troppo liberale e di investimenti sbagliati; i matrimoni di al- cuni dei figli non si sono rivelati felici; altri hanno rinunciato al matrimo- nio, ma non hanno né un lavoro né una vita sentimentale pienamente soddisfacenti. Aspettative e sogni sono andati mediamente delusi, e una di loro, Carol è morta diciassette anni prima. Kay non è diventata una grande scrittrice, ma scribacchia articoli di gossip per i tabloid e intervista star del cinema. Il quadro tracciato è pesante, gravido di disillusione, re- criminazioni e livore. Kay incolpa il tempo maligno (“devil”) e distrutto- re. Alan, facendo sue le idee di Priestley, le ricorda che in ogni momento siamo “a cross-section of our real selves” e solo alla fine della vita po- tremo vedere l’insieme di tutte quelle parti che compongono la nostra soggettività. Il tempo nel suo moto ci mostra semplicemente prospettive

te anche in Austria, Danimarca, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Norvegia, Russia Svezia e Stati Uniti. Vedi: J.B. Priestley, Three Time Plays, Pan Books Edition, London 1947, p. vi.

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diverse (e relative) su noi stessi: “from one peephole to the next”9. Pur

non avendo avuto fortuna nella vita, Alan sembra essere l’unico sereno e appagato. Nel terzo atto siamo di nuovo nel 1919, la musica che aveva chiuso il primo atto ci riporta nella “back-room” e ritroviamo Kay assor- ta alla finestra, ma c’è qualcosa di misterioso, un presentimento che sem- bra disturbarla. È come se avesse avuto una visione. Non è solo Kay a non poter vedere la realtà con gli stessi occhi di prima. Anche il pubblico è portato ora a leggere in modo completamente diverso ogni affermazio- ne e comportamento dei personaggi. C’è come un sotto-testo ad ogni ge- sto e frase. La scena in cui Mrs Conway predice il futuro con le carte di- venta impregnata di un’ironia beffarda: un ennesimo gioco in cui proietta i suoi desideri e la sua volubilità, lasciando trapelare favoritismi e pregiu- dizi nei confronti dei figli. L’incanto del primo atto si è completamente rotto. Kay cerca conforto in Alan, come se sapesse intimamente che lui è l’unico a poterla aiutare a capire il perché del suo disagio.

L’episodio di Kay sembra essere una sorta di sogno pre-conoscitivo, esposto in forma esemplare, quasi da laboratorio. La commedia non dà una risposta sulle possibilità di Kay di intervenire sul futuro o meno, ma certamente è un tipo di esperienza che, se ascoltata, aiuta ad acquisire maggiore consapevolezza rispetto agli sviluppi e alle conseguenze della propria vita.

Il capitolo finale di Man and Time ci aiuta a comprendere le necessità interiori di Priestley rispetto a questo tema. Egli conclude il suo studio con una nota personale ovvero riassumendo le sue individuali conclusio- ni sul Tempo alla luce di tutti i precedenti apporti. La nostra vita, scrive, non è compresa in un unico tempo che corre verso la morte. Noi esi- stiamo in più dimensioni nel Tempo. Il nostro Io, vivo nel T2 e T3, non svanisce nella tomba. Priestley non vuole dimostrare l’immortalità del- l’anima ma non può rassegnarsi a credere che l’uomo sia una creatura de- stinata meramente al macello:

We are more than our brains but not in the end, I feel, more than the consciousness those brains exist to serve. There is in me something greater and more enduring than anything in time-One experience. But

9 Ivi, pp. 152-3: “un diavolo”, “un’intersezione dei nostri veri sé”, “da uno spioncino

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outside or beyond that experience, not in time. One, is something infi-