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Temperamento pugnace e individualistico, “poeta male- detto” della filosofia, amatore di tutte le cause perdute, Rensi è di quelli cui piace dire di no alla scuola dominan- te e di starsene coi vinti, salvo, quando siano divenuti vincitori, a piantarli in asso e passare al campo opposto.

Adriano Tilgher

Coerenze

Nella controversa biografia intellettuale di Giuseppe Rensi il tema del lavoro ricorre in modo assai significativo. Sin dagli anni dell’impegno nel campo socialista, infatti, sono molti i contributi che il filosofo veneto of- fre alla questione, tornandovi anche quando la sua riflessione prende le distanze da quell’impegno giovanile ed assume una connottazione poli- tica e culturale di tutt’altro segno, fino a maturare un radicale scetticismo che ne fa una delle figure più anomale nel panorama culturale del primo Novecento1.

Di questo complesso itinerario intellettuale, a lungo ignorato prima di un rinascente interesse maturato soprattutto negli ultimi decenni, sono state fornite diverse e contrastanti valutazioni, non scevre, talvolta, dalla tentazione di ridurre la portata della sua figura all’etichetta, magari sedu- cente ed accattivante, del filosofo “irregolare”, “maledetto”, “corsaro”, con il rischio, magari involontario, di produrre indebite semplificazioni di un percorso molto più ricco ed articolato delle etichette nelle quali lo si è

1 Per una prima ricognizione del pensiero di Rensi (1871-1941) si rinvia a AA.VV. Giu-

seppe Rensi, Atti della “Giornata rensiana” (30 aprile 1966), a cura di M. Sciacca, Milano,

Marzorati, 1967; AA.VV. L’inquieto esistere. Atti del Convegno “Giuseppe Rensi nel cinquante-

nario della morte” (1941-1991), a cura di R. Chiarenza, N. Emery, M. Novaro, S. Verdino,

Genova, EffeEmmeEnne, 1993. In anni più recenti, è stato Nicola Emery a offrire i contributi più significativi sulla sua figura. Cfr. Lo sguardo di Sisifo. Giuseppe Rensi e la via

italiana alla filosofia della crisi, Milano, Marzorati, 1997; Giuseppe Rensi. L’eloquenza del nichili- smo, Roma, Edizione Seam, 2001.

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voluto confinare. Così, nonostante i significativi interventi di Michele Federico Sciacca, Augusto Del Noce, Massimo Cacciari, Nicola Emery e molti altri ancora, i quali hanno contribuito a restituire al filosofo veneto il ruolo che gli spetta nella storia della filosofia italiana, quella di Rensi resta figura difficile da decifrare. Certo, l’apparente disinvoltura con la quale muta le proprie posizioni, che lo vede passare da una sponda all’altra con sorprendenti giravolte culturali, sempre sul filo di un para- dosso che gli attira non pochi strali dai suoi contemporanei, rende il suo percorso di ricerca tutt’altro che retto e lineare, finendo per alimentare letture radicalmente divergenti della sua opera, facendo favorevolmente appello alla sua ‘contraddittoria coerenza’ in certi casi, condannando la sua ‘magnifica incoerenza’ in altri. Là dove il paradigma della coerenza non riguarda solamente gli aspetti teorici del suo impianto speculativo, ma anche, nondimeno, le controverse scelte compiute in campo politico, che lo vedono, ormai lontano dal socialismo giovanile, dapprima in sin- tonia con il fascismo delle origini, poi nel campo avverso quando questi sale al potere, fino ad una marginalizzazione che assume i caratteri della vera e propria persecuzione, costringendolo ad abbandonare l’attività ac- cademica e a vivere in pieno isolamento dalla fine degli anni venti. Senza contare, poi, l’arresto subito a Genova nel ’30 per cospirazione antifasci- sta che tanto clamore suscita in larga parte del mondo intellettuale del- l’epoca. Cosicché, alla fine, come sottolinea Sergio Givone in un’efficace sintesi della sua ricezione, a Rensi “è stato assegnato il nobile ruolo del testimone e della vittima, ma senza che la sua opera fosse mai davvero presa in considerazione come meritava” (Givone 1997).

Se da tempo, tuttavia, fatti i conti con i cliches di cui sopra, si è prov- veduto a storicizzarne la figura, mettendo in evidenza i significativi lega- mi della sua riflessione con la filosofia della crisi, anticipandone per certi versi forme e contenuti, resta il fatto che Rensi continua ad essere un in- tellettuale in larga parte imprendibile ancora oggi, come spesso accade a coloro che fanno del dubbio radicale il perno etico e metodologico della propria meditazione critica. Una meditazione, peraltro, che a muovere dai classici dell’antichità e risalendo su per le vie di una modernità sem- pre percepita nella sua intrinseca problematicità, cresce, almeno nelle prime opere speculative, nel solco del neoidealismo di Croce e Gentile, prima di congedarsi da tale matrice quando questa diventa egemone. Nel segno di un progressivo distacco da ogni forma sistematica del pensiero, che lo porta negli anni trenta ad una scrittura aforistica e frammentata

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che ha davvero pochi eguali tra i filosofi del tempo, Rensì orienta la pro- pria indagine verso una critica radicale all’idea stessa di ragione, coglien- done gli aspetti dogmatici che la attraversano quando essa venga assunta nella sua dimensione totalizzante. Un discorso che si sviluppa in aperta po- lemica non solo nei confronti del neoidealismo, ma contro ogni interpre- tazione illuministico-progressiva del rapporto tra l’individuo e la storia, giacché, secondo un’immagine emblematica della sua filosofia dell’assurdo, “l’umanità corre nella storia per la medesima ragione per cui corre un uo- mo che posa i piedi su di un sentiero cosparso di spine e di carboni arden- ti” (Rensi 1991: 121). A dire di una visione del mondo ormai segnata dal più radicale disincanto e che, alla viglia della seconda guerra mondiale, sembra assumere il significato di un’inquietante profezia.

D’altra parte, al di là di tutte le possibili considerazioni critiche sul suo eterodosso percorso intellettuale, è pur vero che la sua sofferta medita- zione non rinuncia a misurarsi con la drammaticità del reale, radicandosi in esso senza scorciatoie e infingimenti, prendendo atto del carattere an- tinomico delle categorie con le quali viene interpretato. Né si può scor- dare come il suo scetticismo prenda forma proprio negli anni in cui l’Europa si sta congedando dal sogno della Bella Epoque, precipitando nell’incubo della Grande Guerra. Per Rensi, così come per altri intellet- tuali della sua generazione, quello diventa un tornante che impedisce di continuare a filosofare come se nulla fosse stato. Una “ciclopica imposi- zione di realtà” (Rensi 1921: 34) che spazza via ogni residua illusione sul- la possibilità di considerare la storia come progressione del genere uma- no. È in questo senso che Rensi appartiene alla categoria dei ‘filosofi del dopoguerra’, coniata negli anni trenta da Tilgher, vale a dire quella di co- loro che, dopo il ‘18, imparano a guardare il mondo come si guarda “un suolo rotto da voragini” (Tilgher 1937: 14).

Antinomie

A fronte di una realtà lacerata nelle sue contraddizioni sociali e politi- che, la riflessione filosofica non può indulgere nelle rappresentazioni consolatorie ed edificanti, ma sembra chiamata a mettere in dubbio ogni certezza consolidata, ogni forma di verità data per definitivamente acqui- sita. Così, per Rensi, lo scetticismo diventa la filosofia più congrua al momento storico che vive, l’antidoto ideale contro ogni cedimento al fondamentalismo del pensiero. D’altra parte, non è forse la guerra a rap- presentare in tutta la sua tragicità il conflitto tra ragioni che nel tempo si

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sono irrigidite fino alla loro sclerotizzazione dogmatica? Infatti, “tutti noi, popoli combattenti l’un contro l’altro, avevamo ragione. A ciascuno la ragio- ne, proprio la ragione, forniva inesauribili ragioni, a sostegno dei principi da cui partivamo, principi opposti e contrastanti, ma ognuno provveduto d’uguale sovrana e incontrollabile legittimità” (Rensi 1989: 25).

Peraltro, già negli anni antecedenti il conflitto il filosofo veneto riflette approfonditamente sull’inconciliabilità degli opposti come tema chiave della sua ricerca, mettendone soprattutto in luce le drammatiche ricadute sul terreno etico. L’isostenia dei contrari diviene così il criterio con cui Rensi filtra tutta quanta la realtà, rinunciando a qualsiasi tipo di principio universalistico, in nome di una molteplicità che diviene irriducibile alle forme convenzionali della razionalità. Così larga parte della sua medita- zione sembra orientata alla ricerca dei luoghi, materiali e simbolici, nei quali più evidente si rende l’intrinseca conflittualità tra la vita e le forme nelle quali essa viene ricondotta, in una dimensione di discorso alla quale non sembra estraneo il problema della formazione dell’uomo, come con- fermano, tra l’altro, le indagini sulla morale, sul lavoro, sull’amore e sulla religione quali rappresentazioni emblematiche dell’inconciliabilità degli opposti. Una lettura, evidentemente, che molto deve ai contributi di Nie- tzsche e di Simmel, oltre che ad un vasto ed eterogeneo repertorio di in- fluenze culturali.

Sotto questo profilo, il ricorrente interesse verso il tema del lavoro appare assai significativo, poiché al suo sguardo esso si presenta come problema insolubile sia sul piano etico sia su quello economico. Un’‘im- possibile necessità’ che diventa rivelativa della condizione dell’uomo mo- derno, rappresentandone in modo esemplare l’intima tragicità che ne at- traversa la sua esperienza di vita. Il lavoro, infatti, è necessario perché consente all’uomo la possibilità di emanciparsi dalla condizione di natura, ma inaccettabile in quanto lo costringe per ciò stesso a rinunciare alla li- bertà. Di qui il suo carattere paradossale, accentuato quando lo si innalzi, come avviene con il capitalismo, sino a farne il perno intorno al quale ruota tutta quanta la vita dell’uomo. Una lettura, quindi, poco in sintonia con l’ideologia lavorista che si impone nella modernità mediante una va- sta opera di nobilitazione del lavoro alla quale concorrono, dal Settecento in avanti, un po’ tutti i saperi2. Anzi, è proprio contro l’apologia borghese

2 Per un’approfondita conoscenza del problema del lavoro in chiave filosofica e cultura-

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del lavoro che si orienta la critica rensiana, la quale assume il problema nelle sue implicazioni educative sin dagli esordi dell’attività intellettuale.

Già nel primo articolo per “Critica sociale” – L’etica individuale nella so- cietà capitalista – Rensi mette in luce l’incompatibilità tra l’organizzazione capitalistica del lavoro e l’aspirazione al progresso morale, poiché è pro- prio dal crescente divario tra le classi sociali che scaturisce “la immensa maggioranza col corpo stremato dalla fatica, colla mente aggiogata ad una occupazione monotona e mal retribuita, colle energie intellettuali le- gate alla croce delle preoccupazioni per il futuro” (Rensi 1895: 282) e quindi impossibilitata a coltivare quelle attività, libere e disinteressate, in grado di farla progredire spiritualmente. Così la morale diventa un privi- legio raro mentre l’educazione si trova costretta alla resa, giacché “la massima parte dei più elevati sentimenti che gli educatori si sforzano di far nascere nelle coscienze giovanili [...] in contatto colla realtà dell’am- biente economico, dopo una lotta più o meno lunga, vengono sconvolti e sopraffatti” (Rensi 1895: 281). In una società fondata sugli egoismi in- dividuali, insiste, non solo viene meno la possibilità che gli uomini pro- grediscano moralmente, ma se ne favorisce la regressione spirituale, nel segno del livellamento e della massificazione, e l’aspirazione al progresso morale diventa, a ben vedere, per tutti una chimera. “Privilegio degli ab- bienti che possono essere educati e educarsi, e cui le strettezze economi- che non costringono mai a venir meno alla dignità e alla delicatezza. Sebbene forse sarebbe più esatto l’asserire che, anche in tale argomento come in ogni altro, alla guisa che da una parte nuoce la ristrettezza, dal- l’altra nuoce il soverchio; e che la morale superiore è così dovunque ir- raggiungibile: in basso, per la troppa miseria; in alto, per la troppa ric- chezza” (Rensi 1895: 283).

Conflittualità dell’esperienza morale e alogismo del lavoro diventano per Rensi due aspetti intimamente legati, decisivi nel costruire la sua stes- sa visione del mondo. D’altro canto, è poi vero che “il problema del la- voro attraversa – ora in superficie ora in profondità – l’intera parabola della riflessione rensiana” (Pezzino 2003: 10). Certo, la sua analisi, che all’origine si nutre di un socialismo cui non è estranea la matrice evolu- zionistica, non fa proprie le categorie marxiane tese alla comprensione dei modi di produzione nella loro determinazione storica, finendo così per subordinare l’economico all’etico. Né viene qui contemplata la pos-

dov’è presente una vasta scelta di scritti dall’antichità classica all’età contemporanea. Cfr. Filosofia del lavoro, VII volumi, Milano, Marzorati, 1981.

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sibilità di un rovesciamento dialettico dell’esistente in grado di rispondere alle attese di giustizia delle masse lavoratrici. La sua condanna del lavoro ha sempre un carattere eminentemente morale, nel segno di un’aristocra- zia dello spirito che vede nel perseguimento dell’utile qualcosa di intima- mente contrario ad ogni tensione alla libertà.

È significativo, al riguardo, che Rensi torni a più riprese sul tema, là dove, pur non cambiando l’impostazione di fondo, prende però atto dei mutamenti intervenuti nella realtà storica, i quali non fanno che rafforza- re il suo scetticismo circa qualsiasi ipotesi di soluzione3. Così, “ogni ri- chiesta d’una trasformazione dei rapporti di lavoro fatta in nome della ‘razionalità’, della ‘giustizia’, del ‘diritto’, non è che vacuità rettorica e ciancia sonora” (Rensi 1923: 157), arriva a scrivere negli anni in cui il conflitto tra capitale e lavoro sembra irrimediabilmente giunto al punto di rottura. Né la morale borghese, ipocrita perché interessata sì a nobili- tare il lavoro, ma quello altrui, né la morale proletaria, che vorrebbe im- porsi a tutte le classi come modello universale, possono rappresentare soluzioni per superare le aporie del lavoro. Esso resta ‘necessario e im- possibile’, come qualcosa “che ci si presenta sotto la veste di obbligo morale, come una prescrizione e un dovere etico, e insieme ingiunzione spirituale alta e pressante e veramente dovere morale ci si presenta il sot- trarvisi” (Rensi 1923: 159).

Su questa inconciliabilità di fondo prende corpo la condanna rensiana del lavoro, il quale diventa immorale nella misura in cui l’uomo considera un fine ciò che dovrebbe valere come mezzo, rinunciando alle più alte prerogative della propria spiritualità, sacrificate ad un’attività che è sem- pre obbligatoriamente coatta. Di qui la superiorità morale del gioco e del- la contemplazione, in quanto attività fini a se stesse e quindi libere nella loro piena ed assoluta gratuità. “Solo nel gioco l’uomo è veramente uo- mo” (Rensi 1923: 179), afferma echeggiando noti motivi schilleriani, en- tro un discorso tutto teso a legittimare la liberazione dal lavoro come ci- fra dell’emancipazione dell’uomo. Nessuna possibilità infatti, di liberarsi nel lavoro, poiché esso non è modificabile né migliorabile. In quanto

3 Per l’approfondimento del tema del lavoro in Rensi, oltre ad alcuni contributi giovanili

già in parte richiamati, si vedano soprattutto: Le antinomie dello spirito, Piacenza, Società pontremolese, 1910; L’irrazionale, il lavoro, l’amore, Milano, Unitas, 1923; poi parzialmente ripubblicato in Critica dell’amore e del lavoro, Catania, Etna, 1935. Recentemente, la parte relativa al lavoro dell’opera del ’23 è stata ripubblicata in G. Rensi, Contro il lavoro. Saggio

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forma di schiavitù, si tratta sempre di qualcosa che è “irriducibilmente ripugnante all’essenza umana” (Rensi 1923: 195).

Forme

Una moderna laude dell’ozio, quindi, con la quale Rensi opera una cri- tica radicale dei presupposti etici e culturali che stanno alla base del con-

cetto stesso di homo faber4. E che diventa paradigmatica, in un certo senso,

di tutto il suo percorso intellettuale, in grado di restituirne limpidamente la sua tragica visione del mondo e il posto assegnato all’uomo di fronte alla storia. Qualcosa da cui emerge, ci sembra, la possibilità di scorgere una dimensione autenticamente pedagogica della sua riflessione critica. E non solo per i ricorsivi interventi su questioni come la laicità dell’educa- zione e l’insegnamento della storia, presenti tra i suoi interessi sin dalla giovinezza, e nemmeno soltanto per la significativa collaborazione con la “Rivista pedagogica” di Luigi Credaro alla quale fornisce, negli anni ven- ti, raffinati contributi di filosofia morale5. Semmai per la centralità che proprio il problema morale assume nella sua meditazione, dove emerge, ora implicitamente ora esplicitamente, la dimensione culturale del legame tra vita morale ed esperienza educativa quale elemento costituivo dello stesso discorso pedagogico. Ossia, come “ciò che costituisce, dai classici ai moderni, il punto di vista decisivo per la decifrazione di una coscienza pedagogica che non perda mai di vista il nesso formazione-cultura” (Er- betta 2009: 8). Certo, una lettura della formazione umana che avviene sul filo del paradosso, cui non è estranea la volontà di scardinarne le rappre- sentazioni più usuali e convenzionali, in nome di una libertà che per Rensi non può conciliarsi con il carattere coatto che essa assume in mol- te delle sue pratiche correnti.

D’altra parte, la domanda radicale da cui muove tutta la meditazione rensiana, e che in un certo senso la fonda, non va forse dritta al cuore del

4 Non è forse irrilevante che, negli stessi anni in cui Rensi riflette sul lavoro, un altro

intellettuale poco in sintonia con le correnti filosofiche maggioritarie, Adriano Tilgher, amico peraltro del Nostro, assuma proprio il lavoro come oggetto culturale, fornendone una delle prime ricognizioni critiche al riguardo. Cfr. Homo Faber. Storia del concetto di lavo-

ro nella civiltà occidentale; analisi filosofica di concetti affini, Roma, G. Bardi, 1929.

5 Chi scrive ha recentemente curato e introdotto la pubblicazione di un saggio scritto da

Rensi nel ’28 per la “Rivista pedagogica”. Cfr. G. Rensi, L’aspetto aristocratico della dottrina

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problema pedagogico? Perché esiste la legge morale? Perché nell’uomo si pone la necessità di individuare una norma con la quale governare l’im- pulso vitale mentre nelle altre specie non v’è conflitto tra impulso e con- dotta? È una domanda cruciale in Rensi, che ricorre significativamente nella sua analisi delle ‘antinomie dello spirito’ e che mette capo al soffer- to e disperante scetticismo della maturità intellettuale. Una domanda, vieppiù, che interpella la ragione stessa dell’esistenza di ciò che nomi- niamo educazione: “Perché mentre la vita universale è la piena ed adeguata incarnazione dell’impulso interiore, solo nell’uomo è diventata un ‘teatro di educazione’ nel quale si trova ovvio che un impulso esista solo allo scopo di essere debellato?” (Rensi 1910: 142). In un discorso in cui si rendono ancora una volta espliciti i prestiti nietzscheani e simmeliani, morale ed educazione vengono intese come l’artificio mediante il quale l’uomo costruisce la civiltà, ma al prezzo di rinunciare a seguire il proprio stesso impulso vitale. Una sorta di male necessario, quindi, per consen- tirgli di emanciparsi dalla condizione ferina e conquistare la cifra spiritua- le della propria umanità. Solo la vita dell’uomo, sembra dire Rensi, può diventare tale nella misura in cui è disposta a negare se stessa in vista di un più alto e compiuto significato. Ma disarmonie, dissimmetrie e squili- bri, per usare parole ricorrenti nella sua scritturta, sono il conto che l’uomo paga per godere di quel privilegio, come se lo scarto tra ciò che l’uomo è e ciò che dovrebbe essere fosse destinato a rimanere tale, senza possibilità di approdare ad alcuna forma di conciliazione. “La razionalità e il bene – scrive Rensi una volta giunto al fondo più buio del suo discor- so – stanno sempre nell’avvenire, come il mazzetto di fieno attaccato al timone davanti alla bocca del cavallo che questo trasporta sempre più in là con la sua stessa corsa. Sono sempre un ‘dover essere’ che non diventa mai un ‘essere’” (Rensi 1991: 120).

Quanto basta, forse, per individuare nella riflessione rensiana doman- de che interpellano a fondo la coscienza pedagogica, capaci di metterla in crisi di fronte alle sue presunte certezze. D’altra parte, questo è il compi- to che il filosofo veneto si assume: minare alla radice ogni verità data per definitivamente acquisita, inducendo al dubbio radicale come sola pratica in grado di salvaguardare la libertà dell’individuo. In questo senso, com’è