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Bisogna riconoscerlo con qualche onestà, i libri dei professori universitari sono mediamente noiosissimi, sicché ho sempre pensato – lo confesso – che la sola critica interessante sia quella autobiografica, che si alimenta cioè alle radici del personale, che si nutre di militanza, di passioni, di deliri privati, di fantasmi ossessivi. Ma a condizione, evidentemente, di avere degli occhi e non dei paraocchi, di nutrire un animo grande e generoso, e non piccino e meschino. Purché, insomma, ci si sappia arrestare al di qua del limite che non può essere valicato. Occorre lo spirito di passione, ma non lo spirito di mis- sione, non la pretesa – fondamentalista – di catechizzare il mondo, di riportare tutto a sé, a eterna gloria del Dio (o della fede) in cui si crede.

Dunque non ho mai ritenuto, nemmeno per un secondo, che Vladi- mir ed Estragon di En attendant Godot possano essere – come è stato pro- posto da qualche studioso – due ebrei che vagabondano per la Francia occupata dai tedeschi, e che Godot sia un capo della Resistenza locale incaricato di metterli in salvo (il che spiegherebbe gli appuntamenti man- cati: nella clandestinità, si sa, spesso gli incontri saltavano all’ultimo mi- nuto), e Pozzo “un proprietario terriero razzista”, rappresentante di “un potere sempre più incapace di vedere” (ecco perché Pozzo diventa cieco nel secondo atto!). Ma se una lettura laicista di En attendant Godot mi sem- bra un’operazione al tempo stesso titanica e patetica, cioè praticamente ridicola, questo non dà diritto a qualche altro cultore di profilarci (e pro- pinarci) un Becket cattolico, in cui dovremmo trovare una grande medita- zione sul problema del male, che si è insinuato nella creazione, corrompen- dola. Ma perché diavolo – mi chiedo – il mondo dovrebbe essere origi- nariamente buono, per Beckett, salvo risultare poi corrotto da qualcosa di turpe che si sarebbe insinuato? A me il testo sembra dire un’altra cosa: che è il mondo, in sé, ad essere cattivo, poiché la creazione è risultata imperfet- ta, impastata di fango, frutto di un dio minore, di un demiurgo simia Dei, come avrebbero pensato gli gnostici. D’altra parte, basta aprire, En atten- dant Godot, e leggerlo (se si è capace di leggere, ovviamente). Uso il testo

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del 1952 delle Éditions de Minuit, inizio della quinta paginetta, delle 134 in cui si distende l’intera opera. Siamo cioè in incipit, in una collocazione drammaturgicamente intensa, significante e significativa:

VLADIMIR [...] Gogo... ESTRAGON Quoi?

VLADIMIR Si on se repentait? ESTRAGON De quoi?

VLADIMIR Eh bien... (Il cherche). On n’aurait pas besoin d’entrer dans

les détails.

ESTRAGON D’être né?

Vladimir strizza l’occhio, allude, non parla chiaramente. Non ce n’è bisogno. La verità sapienziale è qualcosa che sanno pochi, gli eletti, i quali sono stati illuminati dalla conoscenza (la gnosi, appunto, in senso etimolo- gico), ed è qualcosa che va tenuto celato. Vladimir, richiesto di precisa- zioni, non precisa, ma Estragon sa già, ed è lui a completare il discorso. Il dio crudele ci ha messo al mondo per farci morire, e per farci soffrire, prima della morte. Molto opportunamente Paolo Bertinetti – nel suo commento alla traduzione italiana – rimanda a Calderón e a Schopen- hauer (Samuel Beckett, Teatro completo, Einaudi-Gallimard 1994, pp. 803- 804). Nel suo saggio su Proust, Beckett cita due versi capitali de La vida es sueño, “Pues el delito mayor / del hombre es haber nacido”, il più grande delitto dell’uomo è essere nato. Li cita dopo una dichiarazione impegnativa: “The tragic figure represents the expiation of original sin, of the original and eternal sin of him and all his «socii malorum», the sin of having been born” (Samuel Beckett, Proust and Three Dialogues with Georges Duthuit, John Calder, London 1987, p. 67).

Qualche stolido sedicente specialista beckettiano nemmeno si è accor- to della centralità de La vida es sueño per En attendant Godot. Eppure è suf- ficiente scrutare con attenzione il secondo atto, quando ritornano in sce- na Pozzo e Lucky, ma il primo è diventato cieco e il secondo è diventato muto. Vladimir chiede con insistenza quando tutto ciò sia avvenuto, come sia stata possibile questa doppia trasformazione – uno muto e l’altro cie- co – nel breve lasso di un solo giorno:

POZZO (soudain furieux). Vous n’avez pas fini de m’empoisonner avec vos histoires de temps? C’est insensé! Quand! Quand! Un jour, ça ne vous suffit pas, un jour pareil aux autres il est devenu muet, un jour je

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suis devenu aveugle, un jour nous deviendrons sourds, un jour nous sommes nés, un jour nous mourrons, le même jour, le même instant, ça ne vous suffit pas? (Plus posément.) Elles accouchent à cheval sur une tombe, le jour brille un instant, puis c’est la nuit à nouveau.

È una straordinaria rivelazione del senso della vita, che è puro acci- dente (assurdo, appunto, effetto di un mondo creato da un piccolo dio in- capace o spietato), in base al quale si può diventare muto o cieco da un giorno all’altro. Ma esattamente come si può nascere e morire. Beckett ricupera una espressione che è sulla bocca del re Basilio de La vida es sueño di Calderón, il ventre partoriente che è una sorta di sepolcro.

[...] el sepulcro vivo

de un vientre, porque el nacer y el morir son parecidos.

Un traduttore ha voluto rendere con “l’urna viva del ventre”, trovan- do troppo aspra l’espressione “il sepolcro vivo di un ventre”, ma è una maniera (sbagliata) di attenuare una durezza che è del testo, e che rinvia a un nodo denso, a un tormento autentico di Basilio. Gli sembra di aver letto nelle stelle il destino sanguinario del figlio, Sigismondo, e per questo l’ha fatto crescere in una prigione, carico di catene e vestito di pelli, ben- ché educato culturalmente e civilmente dal custode Clotaldo. Ma Basilio non è figura cinica e ignobile. Esercita il potere di critica sulle proprie scelte. Ha incarcerato il figlio per timore della sua natura violenta, ma de- cide di lasciargli la possibilità di una prova. All’inizio del secondo atto Si- gismondo si trova nella reggia. È stato narcotizzato e trasportato dalla torre a corte. Esplodono però immediatamente le sue pulsioni maligne: uccide un servo che gli resiste, e tenta di violentare Rosaura. Viene nuo- vamente narcotizzato e rispedito nella torre. Il ricorso al sonnifero non serve solo a facilitare il trasporto. Basilio spiega bene a Clotaldo che è una misura prudenziale, di pietà per il figlio, perché abbia meno a soffrire, in caso di fallimento della prova: ritrovarsi nella torre, dopo essere stato sul trono, è cosa da “disperarsi”. Grazie al sedativo, Sigismondo potrà pen- sare di aver semplicemente sognato la vita di re che ha condotto per un giorno solo.

Anche in una sua precedente battuta Pozzo sembra echeggiare l’oriz- zonte linguistico di Sigismondo, incerto fra sogno e realtà, là dove dichia- ra: “Un beau jour je me suis réveillé, aveugle comme le destin. (Un temps.)

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Je me demande parfois si je ne dors pas encore”. Anche Vladimir, su questa stessa lunghezza d’onda: “Est-ce que j’ai dormi, pendant que les autres souffraient? Est-ce que je dors en ce moment? Demain, quand je croirai me réveiller, que dirais-je de cette journée [...] A cheval sur une tombe et une naissance difficile. Du fond du trou, rêveusement, le fos- soyeur applique ses fers. On a le temps de vieillir”. Vladimir ripete la bat- tuta di Pozzo, assolutamente identica, à cheval sur une tombe, sempre legan- do l’immagine della sepoltura a quella della nascita.

Ma perché insisto su La vida es sueño? O meglio, perché ci insiste Bec- kett? (Che peraltro tende a nascondere un po’ le piste, come si fa sempre, quando le piste sono veramente decisive. Nel saggio su Proust riporta i versi di Calderón, ma non dice che si tratta di Calderón, e nemmeno cita l’opera di Calderón, La vida es sueño. I due versi restano lì, misteriosi, e bravo chi li sa riconoscere). Rispondo dicendo che una stessa atmosfera di claustrofobico tormento si respira nelle due opere. Nel dramma di Calderón il protagonista è rinchiuso dalla nascita in un carcere spavento- so, e ignora per quale motivo patisca questa pena. Attraverso la sofferen- za senza giustificazione – gratuita, assurda – è arrivato a scoprire il volto feroce del mondo. Il “dare” – dice Sigismondo in un dialogo fondamen- tale con il padre, intendendo “dare la vita” – è “l’azione più nobile e più singolare”, ma “il dare per ritogliere”, es mayor bajeza, è la maggior bassez- za, è la cosa più infame. Sigismondo si riferisce, ovviamente, al padre, il quale gli ha dato la vita, ma in qualche modo gliela ha tolta, chiudendolo nella torre. Ma l’intreccio del dramma è una continua metafora dell’esi- stenza in generale, sicché è lecito leggere, fra le righe della protesta di Si- gismondo, anche l’afflitta meditazione intorno al destino dell’uomo, il lamento per una vita umana che è data per essere tolta, attraverso il passag- gio della morte cui nessuno può sfuggire. Così piange infatti il personag- gio, quasi ad apertura di sipario, in I, 2:

Apurar, cielos, pretendo ya que me tratáis así, qué delito cometí

contra vosotros naciendo; aunque si nací, ya entiendo qué delito he cometido. Bastante causa ha tenido vuestra justicia y rigor; pues el delito mayor

37 del hombre es haber nacido. Sólo quisiera saber,

para ayudar mis desvelos, (dejando a una parte, cielos, el delito de nacer)

qué más os pude ofender, para castigarme más.

Per ben quattro volte (in una quindicina di versi!) Sigismondo insiste sul tema che la nascita stessa è un delitto, e che dunque l’esistenza è male, ca- stigo, anche se, nel suo caso, si aggiunge un castigo ulteriore, costituito dalla restrizione della libertà, dalle terribili condizioni di vita di recluso. Non per nulla è da questo passo che Beckett ritaglia i due versi citati nel saggio su Proust.

La riprova – di questo clima di patimento che incombe su En attendant Godot – è anche nei minimi particolari, nei dettagli della pièce, per esempio nella figurina del ragazzo che viene ad annunciare in finale di primo atto che Godot, per quella sera, non arriverà. Estragon è brusco con il povero messaggero, che trasalisce, trema, confessa di aver paura. Il dialogo con Vladimir (che è spirito più fine di Estragon) è intenso:

VALDIMIR Tu travailles pour monsieur Godot? GARÇON Oui monsieur.

VALDIMIR Qu’est-ce que tu fais?

GARÇON Je garde les chèvres, monsieur. VALDIMIR Il est gentil avec toi?

GARÇON Oui monsieur. VALDIMIR Il ne te bat pas?

GARÇON Non monsieur, pas moi. VALDIMIR Qui est-ce qu’il bat? GARÇON Il bat mon frère, monsieur. VALDIMIR Ah tu as un frère?

GARÇON Oui, monsieur. VALDIMIR Qu’est-ce qu’il fait?

GARÇON Il garde les brebis, monsieur. VLADIMIR Et pourquoi il ne te bat pas, toi? GARÇON Je ne sais pas, monsieur.

Siamo di fronte alla natura ambigua, oscura, inafferrabile della divini- tà. I due fratelli dormono entrambi nel granaio, sul fieno; l’uno guarda le

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capre e l’altro le pecore, ma uno è picchiato, senza motivo, e l’altro, sen- za motivo, è risparmiato.

Ho detto che Vladimir ha una finezza che Estragon non ha. Quando il ragazzo confessa di aver paura, Estragon non capisce:

ESTRAGON Peur de quoi? De nous? (Un temps.) Réponds!

VLADIMIR Je vois ce que c’est, ce sont les autres qui lui ont fait peur.

In verità non sono due poveri diavoli come Estragon e Vladimir a po- ter far paura a qualcuno. Sono gli altri, che fanno paura. Ma gli altri chi? La scrittura di Beckett è sempre elusiva, sfuggente. Vladimir vede il dolore che circola nell’universo, ma questo dolore non è una cifra astratta, pura nozione psicologica, bensì qualcosa di reale, fatto di segni, di colpi rice- vuti sulla pelle, di percosse. All’inizio del secondo atto i due sodali si ri- trovano, dopo essersi divisi nello spazio che intercorre fra primo e se- condo atto. Le didascalie non segnalano nulla, se non che Estragon entra in scena “tête basse”; si muove, poi “s’arrête, mais ne lève pas la tête”. Si intuisce che nasconde qualcosa, ma Vladimir “le regarde avec attention” e domanda prontamente: “On t’a battu?”. Il suo sguardo solidale deve aver colto dei lividi sul volto dell’amico, di cui pure la penna sorvegliata di Beckett tace.

È tutto un dialogo delicatissimo – pudico ma intimo, assai coinvol- gente – che si apre a questo punto. Vladimir interroga l’amico: “Qui t’a esquinté? Raconte-moi”. La traduzione einaudiana di Carlo Fruttero ren- de con “Chi ti ha conciato così?”, ma “esquinter” ha un valore più forte, meno generico, più pregnante, l’etimologia del verbo riporta a “cinq”, al latino volgare “exquintare”, tagliare in cinque pezzi. L’immaginario di Vla- dimir è intriso di scene di brutalità, che occorre saper percepire, al di là della superficie ironica delle battute. Lo cogliamo nelle parole della can- zone che – non a caso! – Vladimir canta proprio in questo punto: “Un chien vint dans l’office / et prit une andouillette. / Alors à coups de lou- che / le chef le mit en miettes”, il cuoco riduce in briciole (“en miettes”) il cane a colpi di mestolo. Estragon non vuole raccontare cosa gli sia suc- cesso, ma Vladimir lo incalza, gli chiede perché, allora, sia tornato da lui:

ESTRAGON Je ne sais pas.

VLADIMIR Mais moi je le sais. Parce que tu ne sais pas te défendre. Moi je ne t’aurais pas laissé battre. ESTRAGON Tu n’aurais pas pu l’empêcher.

39 VLADIMIR Pourquoi? ESTRAGON Ils étaient dix.

VLADIMIR Mais non, je veux dire que je t’aurais empêché de t’exposer à être battu.

ESTRAGON Je ne faisais rien.

VLADIMIR Alors pourquoi ils t’ont battu? ESTRAGON Je ne sais pas.

VLADIMIR Non, vois-tu, Gogo, il y a des choses qui t’échappent qui ne m’ échappent pas à moi. Tu dois le sentir. ESTRAGON Je te dis que je ne faisais rien.

VLADIMIR Peut-être bien que non. Mais il y a la manière, il y a la manière, si on tient à sa peau. Enfin, ne parlons plus de ça. Te voilà revenu, et j’en suis bien content. ESTRAGON Ils étaient dix.

Estragon è personaggio enigmatico, che dichiara di non sapere (“Je ne sais pas”, battuta ripetuta due volte in questo frammento), che tiene chiuse dentro di sé le proprie pene, ma che – in fondo – conosce bene la crudeltà del mondo. Alla resa dei conti, Estragon ha più sapienza di Vla- dimir, il quale si illude sul fatto che ci si sia una logica nella macchina universale della malvagità, convinto che la vittima, comunque, sia sempre un po’ complice del carnefice, anche solo per essersi esposta in modo imprudente. Vladimir è coerente con le parole della sua canzone: il cane è fatto a pezzettini dal cuoco, ma perché si è preso “une andouillette”, una sorta di salsiccia, e fa fatica ad accettare che l’amico non abbia fatto nulla (per due volte Estragon deve infatti ripetere “Je ne faisais rien”).

Il cosmo è dominato dalla legge della violenza, ma di una violenza cieca e arbitraria, dispotica, senza motivazione. C’è un filo conduttore che lega gli accidenti e gli incidenti: Pozzo che tiene legato Lucky con una corda al collo, come una bestia o una specie di schiavo; Godot che picchia il fratello del ragazzo messaggero; i dieci che hanno picchiato Estragon; Pozzo che è diventato improvvisamente cieco, e Lucky che è diventato improvvisamente muto. Peraltro, a ben pensarci, il significato di En attendant Godot non riposa solo sull’attesa di Estragon e Vladimir, ma sull’incrocio di quattro personaggi: ci sono anche Pozzo e Lucky, che ar- rivano nel primo atto, e che ritornano nel secondo atto, giorno seguente, stesso posto e stessa ora, ma nel frattempo – come si è già accennato – trasformati, Pozzo cieco e Lucky muto. Dunque non solo due che aspettano la fine della vita, ma anche due che subiscono le metamorfosi della vita. La lezione profonda del testo è nella somma delle due coppie, è in una esistenza che

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è attesa della fine, ma attesa intessuta di menomazioni progressive. Si scrive da sempre che in Beckett c’è concentrazione temporale, cui corrisponderebbe un processo di concentrazione spaziale. I personaggi di En attendant Godot si muovono ancora all’aperto, ma in altre opere risultano inibiti nei movi- menti: in Fin de partie Hamm è immobilizzato al centro della stanza, servi- to da Clov, mentre i genitori di Hamm sono immersi in due bidoni della spazzatura. In Oh les beaux jours la protagonista è interrata, dapprima solo fino alla vita, dunque con la possibilità di muovere le mani, e poi solo più con il volto che spunta al di sopra del terreno (dove ritorna la stessa co- struzione a crescere che caratterizza En attendant Godot). Insomma, per farla breve, non mi pare dubbio che il teatro di Beckett costituisca una meta- fora lucida e implacabile dell’esistenza umana: un aspettare la fine della vita, contrassegnato però da una limitazione progrediente delle possibilità di presa sul reale, da una condizione di sempre maggiore handicap, in un quadro complessivo di perdita della parola, fino al silenzio (alcuni brevis- simi testi di Beckett si intitolano significativamente Atto senza parole, una lunga didascalia senza battute). Attesa mutilazione silenzio: questi i tre vertici del triangolo perverso del teatro beckettiano. Ci sarà anche un afflato re- ligioso (posso convenire con i critici cattolici, di contro alla ridicola in- terpretazione laico-resistenziale di En attendant Godot), ma è una religiosità che percepisce la divinità come essenza ostile e implacabile, la quale – esattamente come sostiene il Sigismondo de La vida es sueño – dà la vita per toglierla, e quel poco che dà, la carica di travagli e di tribolazioni.

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L

ETTORI ANGLOFONI DI

M

ANZONI NEGLI ANNI

T

RENTA DELL

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TTOCENTO