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Balli, balletti e passi d’addio: gli Anni Trenta

Inevitabili frontiere: noi e gli altr

2.2 Balli e ballett

2.2.4 Balli, balletti e passi d’addio: gli Anni Trenta

Come già per i capitoli precedenti, l’approccio ai discorsi giornalistici sul ballo teatrale italiano degli Anni Trenta non può procedere senza riflettere parallelamente sull’attività di quelli che, ancora per tutto questo decennio, costituiscono i principali organismi produttivi in ambito coreico: il Teatro alla Scala di Milano e il Teatro Reale dell’Opera di Roma. Sebbene sia facile rendersi conto di come in questo periodo il panorama del ballo italiano risulti relativamente più animato rispetto a quello degli Anni Venti (il tutto, evidentemente, anche in ragione delle maggiori possibilità finanziarie che entrambi i teatri si trovano ora a gestire), risulta tuttavia ben più complesso rintracciare delle chiare linee guida alla base delle scelte produttive di volta in volta condotte in campo ballettistico.

Laddove infatti la Scala, oscillando essenzialmente tra la riproposizione aggiornata di allestimenti di matrice ottocentesca, la timida ripresa di lavori del decennio precedente e la produzione di nuovi balli imponenti e spettacolosi, sembra spesso tornare a servirsi del ballo come pretesto per delle autentiche “prove di forza”, il Teatro dell’Opera, dal canto suo, punta quasi integralmente su nuovi allestimenti che, oltre ad essere quanto mai eterogenei nella forma e nelle ambientazioni, prevedono sovente il coinvolgimento di musicisti italiani, il cui percorso – tendenzialmente estraneo da sperimentazioni ardite – si colloca spesso all’interno dell’operetta e del teatro comico.

Comparando l’attività dei due teatri nel corso degli Anni Trenta emerge però un triste dato comune, costituito dalla sostanziale assenza di coreografi italiani: a Roma come a Milano, infatti, le coreografie degli spettacoli di ballo e di opera sono quasi sempre affidate ad artisti stranieri, il cui apporto – persino nel caso di Boris Romanoff, vale a dire del coreografo che operò più a lungo sulle scene italiane del tempo272 rimanendo al Teatro dell’Opera dal 1934 al 1937 – risulta essere scarsamente incisivo e certamente incapace di imprimere un marchio duraturo nelle vicende del ballo teatrale italiano. Si tratta, infatti, di collaboratori – spesso anche molto illustri, come nel caso di Leonide Massine (alla Scala per Belkis regina di Saba e Il cappello a tre punte, rispettivamente 1932 e del 1934) e Michail Fokine (autore, sempre alla Scala, delle coreografie de L’amore delle tre melarance del 1936) – scelti quasi sempre

ad hoc ed effettivamente presenti per un numero limitato di prove (o, come nel caso di

Romanoff, spesso assenti per via di numerosi ingaggi internazionali), il che, pur nella ricerca di una maggiore organicità complessiva che – come si diceva – ha ormai iniziato a connotare

272 Cfr. Veroli, Patrizia, Coreografare la patria perduta. Boris Romanoff in Italia, in Pontremoli, Alessandro –

Veroli, Patrizia, Passi, tracce, percorsi. Scritti sulla danza italiana in omaggio a José Sasportes, cit., pp. 205– 218.

gli allestimenti coreografici italiani, non consente loro di stabilire solide e fruttuose relazioni con i danzatori, gli artisti e le maestranze di volta in volta coinvolte.

Dinanzi a un simile stato di cose, il discorso giornalistico sembra molto spesso reagire adattandovisi, mostrando sovente di tornare su ormai vieti stereotipi (dalla retorica celebrazione delle glorie coreiche ottocentesche alla bonaria esaltazione dell’ormai ben nota

gioia degli occhi) e, soprattutto, dedicando alla componente coreografica solo vaghe e

sbrigative considerazioni, le quali, se da un lato possono dimostrare un generico disinteresse da parte dei cronisti, dall’altro risultano come una diretta conseguenza della scarsa incisività che, secondo quanto abbiamo appena accennato, contraddistingue l’operato di quasi tutti i coreografi stranieri presenti in Italia negli Anni Trenta almeno, come vedremo, fino all’arrivo a Roma di Aurel M. Milloss sul finire del decennio.

I discorsi della stampa dedicati al ballo teatrale di questi anni, costantemente sul punto di scivolare nello stereotipo e ripetutamente attraversati dall’idea di un ballo concepito più nei termini di fantasioso manufatto che non di autentica opera d’arte, dimostra di incanalarsi, rinsaldandolo, all’interno dello schema di “cronaca-tipo” che abbiamo già incontrato e che, con sempre maggiore evidenza, colloca su due livelli diversi l’analisi critica della componente musicale e le considerazioni relative alla messa in scena e, dunque, alla danza. Una simile spaccatura sarà superata e, in un certo senso, ulteriormente rafforzata quando, nella seconda metà del decennio, molte cronache (come quelle del «Corriere della Sera» o de «Il Secolo. La Sera») si articoleranno in due sezioni distinte e affidate ad autori diversi, l’una relativa alla musica e l’altra all’allestimento: vale però la pena di notare, e non si tratta di un dato di secondaria importanza, come la seconda di queste due sezioni riservi la propria attenzione soprattutto alla componente scenografica e costumistica, relegando ancora una volta al margine del discorso gli aspetti connessi alla danza e alla coreografia.

Eppure, sul grigio sfondo di un panorama cronachistico sostanzialmente incerto e laconico, si staglia una figura di assoluto e indiscutibile rilievo per ciò che concerne la nascita di una vera e propria cultura della danza italiana, vale a dire quella del giornalista Paolo Fabbri273. Sebbene torneremo in maniera più articolata su questo personaggio, è necessario chiarire fin d’ora come Fabbri rappresenti, almeno per ciò che riguarda il balletto274, il primo autentico

273 Critico di danza del quotidiano milanese «Il Secolo. La Sera» sicuramente attivo all’inizio degli Anni

Trenta, il nome di Paolo Fabbri, sposato alla danzatrice Attilia Radice e paladino del balletto classico di tradizione italiana, si lega alla stesura di numerosi articoli (seppur tutti concentrati indicativamente tra il 1930 e il 1935) in cui la difesa del ballo di matrice ottocentesca si fonde con una considerevole consapevolezza storiografica e con una singolare capacità di analisi della tecnica accademica. Per approfondimenti su Paolo Fabbri si veda. infra, pp. 467–492.

274

Un discorso analogo, come si dirà, può essere condotto sul versante della danza moderna a proposito di Anton Giulio Bragaglia. Su Anton Giulio Bragaglia cfr. infra, pp. 421–464.

critico di danza italiano, propugnatore non solo di una solida conoscenza storica e di una

personale visione dell’arte di Tersicore – incentrata sostanzialmente sul primato della tradizione coreica italiana che trova nella Scuola di Ballo della Scala il suo modello di riferimento -, ma anche capace di fornire analisi dettagliate e ricche descrizioni dei corpi danzanti che vede in scena, oltre che di valutare (non di rado in maniera apertamente polemica) il panorama coreico italiano del suo tempo con tanto di indicazioni e suggerimenti agli addetti ai lavori.

Concentrando ora più specificamente l’attenzione sulle cronache, e focalizzandoci dapprima sulla stampa romana, rileveremo come sia proprio lo sguardo dei cronisti della Capitale, che nel corso degli Anni Venti aveva dimostrato una certa vivacità, a farsi ora più spento e ad accogliere pianamente una programmazione ballettistica non solo sempre molto eterogenea (sebbene singolare e per molti versi interessante – specie durante le stagioni legate alla direzione artistica di Tullio Serafin – specie sul piano delle formule spettacolari spesso impiegate), ma anche non sufficientemente sostenuta dalla presenza di un corpo di ballo saldamente formato e, come si diceva, di coreografi capaci di dare una decisa impronta a un’istituzione palesemente bisognosa, perlomeno in ambito coreico, di trovare una propria identità.

Almeno nel corso dei primi Anni Trenta, infatti, la precaria condizione del corpo di ballo del Teatro Reale dell’Opera continua a costituire uno degli obiettivi polemici (o comunque un oggetto di interesse privilegiato) da parte della cronaca, al punto che se a proposito del ballo Il castello nel bosco (1931)275 Raffaello De Rensis276 nota che «Il corpo di ballo al completo, disciplinato da Placida Battaggi, ha messo a nudo non solo le figure delle belle ragazze, e sta bene, ma anche le deficienze della scuola, riconosciute unanimemente»277, all’indomani del debutto, l’anno successivo, di Fantasia Romantica (con le coreografie di

275 «Azione coreografica in un quadro» di Arturo Rossato per le musiche di Franco Casavola, Il castello nel bosco debutta al Teatro Reale dell’Opera il 24 gennaio 1931. Le coreografie sono di Placida Battaggi e le scene

di Enrico Prampolini.

276 Raffaello De Rensis (1880-1970), critico musicale per «Il Messaggero» e «Il Giornale d’Italia», è stato

attivo anche come musicologo e conferenziere, coinvolto, sin da giovane, in numerose iniziative culturali. Il suo nome è tuttavia legato soprattutto alla creazione dell'Istituto italiano per la storia della musica e alla realizzazione dell'edizione dell'Opera omnia di Palestrina. Tra i suoi volumi si veda Musica vista, Milano, Ricordi, 1961. Così De Rensis viene descritto nel volume di Adriano Lualdi Viaggio musicale in Italia (cit., p.226): «Occhi attenti dietro tersi occhiali. Scrisse un giorno: ‘In musica, come in religione, l’anima e l’immaginazione sentono, vedono e giudicano: musica e religione hanno un contenuto misterioso, impalpabile, sfuggente sotto le grinfe (sic!)sperimentali della scienza; l’una e l’altra non seguono vie indirette: o invadono, o trasportano, o lasciano indifferenti’. L’osservazione è giusta; e l’aver accomunato, sia pure soltanto in un ragionamento, la musica alla religione, è cosa rara, rara, rara, e bella».

277

r. d. r (ma Raffaello De Rensis), Cronaca degli spettacolo. Opere e ballo al Teatro Reale, «Il Giornale d’Italia», 27 gennaio 1931.

Nicola Guerra, allora anche direttore della Scuola di ballo278), lo stesso cronista rileverà prontamente un cambiamento di rotta:

Il maestro Guerra ha presentato la sua schiera danzante in uno stato di rinnovamento magnifico. L’ordine, la disciplina si sono rivelati perfettissimi: i movimenti e gli atteggiamenti dei vari gruppi di una distinzione e morbidezza insospettabili dati i tristi precedenti: la composizione dei quadri di raffinato buon gusto anche per la squisita armonia dei colori e delle luci.

Abbiamo ammirato, soprattutto, i criteri direttivi del Guerra, che si attiene alla più pura e schietta tradizione classica, che si propone la piena restaurazione di questa. Non più contorsioni dalle figurazioni misteriosamente (cioè oscuramente) psicologiche, non simboli, non filosofia, non gesti antitradizionali ed antifisiologici (sic!). In un secondo momento, certo, il maestro Guerra vorrà e saprà condurre il suo corpo di ballo alla più ardita evoluzione moderna: ma bisognava ricominciare da capo e non c’era altro mezzo che quello di riportare le basi del ballo e della coreografia ai concetti più sani, più logici e tradizionali.279

La presenza di un artista dalla solida formazione classica come Nicola Guerra fa dunque sperare i cronisti in un innalzamento del livello tecnico del corpo di ballo, a partire dal quale, secondo il giudizio di De Rensis, riuscire a costruire anche un repertorio coreografico di carattere moderno. L’operato del maestro italiano presso il Teatro Reale dell’Opera non si protrarrà tuttavia a lungo: a Nicola Guerra subentreranno, per quanto riguarda la direzione della scuola di ballo, Maria Dousse ed Ettore Caorsi già nel 1932 (seguiti dalle sorelle Battaggi a partire dal 1937)280, mentre, in veste di coreografi, si avvicenderanno Pavel Petrov nel 1933 e, dalla stagione 1934-1935, il già citato Boris Romanoff.

Pur nella generale scarsità di informazioni che connota le cronache degli anni relativi alla presenza del coreografo russo a Roma, vale comunque la pena di elaborare qualche ipotesi a partire dai pochi accenni che in esse è dato di rilevare.

278

Discanto, La scuola di danza del Teatro dell’Opera nel pensiero del suo nuovo direttore, «Il Popolo di Roma», 17 dicembre 1931.

279 r. d. r (ma Raffaello De Rensis), “Fantasia romantica” al Reale e il Corpo di ballo, «Il Giornale d’Italia», 6

febbraio 1932.

280

Non doveva essere tuttavia di scarso valore il percorso didattico intrapreso dalla coppia Dousse-Caorsi se, già in occasione del saggio finale del 1934, i cronisti romani ripongono nella scuola di ballo del Teatro Reale dell’Opera le loro migliori aspettative. Si leggano a tal proposito le parole di Matteo Incagliati: «Ogni figura era un quadro; ogni ardita e snella e agile movenza una speranza per il domani, con la illusione di non arrestarne o troncarne il ritmo di fronte alla esercitazione di scuola; e ogni sorriso non si stemperava nella stereotipata armonia rivolta ad accrescere leggiadria a un’età già di se stessa colma di grazia e di irresistibile giocondità. La prova di ieri ha rivelato che questa scuola, di progresso ne va compiendo, dopo i primi sbandati e irrazionali passi, ai primi anni di essa. Siamo ancora, è vero, in un campo sperimentale, ma non è detto con questo che la mèta, cui si anela, [non] è perseguita con studio e disciplina e senso d’arte». (Cfr. m. i., ma Matteo Incagliati, Teatro Reale dell’Opera. Prime danze, «Il Messaggero», 5 giugno 1934).

Un primo elemento, peraltro già presente nei commenti relativi all’allestimento scaligero – curato da Romanoff nel 1926 – di Petruska281, consiste nel fatto che il coreografo figuri spesso all’interno delle cronache in qualità di regista282 e, più in generale, di direttore della

messa in scena dei balli che portano la sua firma: una simile dizione, non sempre presente

nel libretto degli spettacoli283 ma facente comunque riferimento al complessivo percorso professionale del russo, ci sembra possa alludere anche alla presa in carico, da parte del coreografo, di istanze e mansioni diverse rispetto alla mera “concatenazione di passi”284 e, probabilmente, volte all’armonica integrazione della componente danzata con il complesso della rappresentazione.

Sebbene le fonti esaminate non presentino riferimenti particolarmente ricchi e articolati in tal senso, è comunque opportuno sottolineare come, dinanzi agli allestimenti curati da Romanoff, le cronache tendano a rilevare una sostanziale adeguatezza e congruenza rispetto a musica e libretto: se, dunque, le coreografie di Romanoff non riescono forse a scuotere l’attenzione di un gruppo di cronisti evidentemente sonnolenti davanti alla danza, tuttavia

281 Le cronache pongono l’accento sulle mansioni direttoriali di Boris Romanoff riportando spesso anche i

nomi, quali collaboratori essenziali alla messa in scena, di Nicola Benois (scenografo) e di Caramba (costumista e, com’è noto, direttore, dal 1921, degli allestimenti scenici della Scala). In particolare, il «Corriere della sera» definisce Romanoff un regisseur «assai accreditato all’estero per gli allestimenti di tal genere», alludendo evidentemente a una modalità di lavoro già praticata dal russo ma ben poco conosciuta in Italia, mentre il «Secolo», nel riferirsi al successo della coreografia, dichiara: «Le masse, così nel movimento scenico che nelle danze d’insieme, si sono comportate egregiamente, e di questo, come della buona disposizione degli episodi, bisogna dar lode, oltre che al coreografo, al direttore di scena Romanoff». Si vedano dunque: g. c. (ma Gaetano Cèsari), “Petrouchka” e la ripresa di “Haensel e Gretel”, «Corriere della sera», 10 maggio 1926; g. m. c., Petruska di Stravinsky, «La sera», 10 maggio 1926; Anonimo, “Petrouchka” alla Scala, «Il Popolo d’Italia», 11 maggio 1926.

282 L’impiego di una simile terminologia, nel contesto culturale del tempo, ci pare vada comunque inteso

essenzialmente nei termini di metteur en scène.

283 Nel libretto del ballo Volti la lanterna (1934), ad esempio, il nome di Boris Romanoff è associato solo alla

«creazione coreografica».Ciononostante, nella cronaca dello spettacolo, Raffaello De Rensis parla del coreografo solo ed esclusivamente come di un «regista». (r. d. r. ma Raffaello De Rensis, Le novità al Reale.

“Volti la lanterna” di Carabella, «Il Giornale d’Italia», 5 gennaio 1934). Il libretto del «grottesco mimo-

sinfonico» Drago Rosso del 1935, invece, attribuisce a Romanoff la «creazione coreografica e regia».

284

Sempre a proposito della ricerca di una maggiore logica rappresentativa, si ricordi ad esempio come, in occasione dell’eccezionale messa in scena scaligera della Leggenda di Giuseppe di Strauss (diretta dallo stesso compositore insieme all’opera Salomè il 15 marzo 1928), l’azione dei danzatori fosse sottoposta al controllo di un coreografo (Giovanni Pratesi) e di un ordinatore del movimento scenico e della mimica (il regisseur austriaco Ernst Lert, attivo alla Scala fin dal 1924), il che testimonia del tentativo di integrare l’operato del coreografo, evidentemente ritenuto squisitamente virtuosistico e non all’altezza onorare da solo un simile allestimento, con quello di una figura capace di armonizzare e organizzare coerentemente il complesso dell’azione. Così l’«Ambrosiano»: «Nella esecuzione coreografica si sono divisi i compiti e i meriti il Pratesi per le danze e il Dr. Lert per la mimica e il movimento scenico» (G. C. Paribeni, ma Giulio Cesare Paribeni,

“Leggenda di Giuseppe” e “Salomè”, «Ambrosiano», data non identificata ma presumibilmente il 16 marzo

1928. Il ritaglio si trova presso la Fornaroli Collection, sezione: Cia Fornaroli and Walter Toscanini papers.

Box 6. Nel medesimo faldone è possibile reperire altri ritagli analoghi – ma, eccezion fatta per quello tratto da

«Il Popolo d’Italia» del 16 marzo 1928, non identificati – in cui si allude alla duplice presenza di Pratesi e di Lert. Tra questi, si legge: «Del buon gusto con cui la Leggenda di Giuseppe» venne posta in scena, va data particolare lode a Caramba, che ha immaginato i costumi e la colorita ambientazione scenica con squisito gusto artistico, al dottor Lert, il quale, curando l’espressione dei personaggi, rese evidente il significato dell’azione attraverso i movimenti scenici, ed al coreografo Pratesi, per aver saputo manovrare le masse equilibratamente, infondendo vita di movimento ai quadri più complessi»).

esse dovevano caratterizzarsi per un livello di disciplina tecnica e di coerenza drammaturgica percepito come sufficiente e non meritevole di biasimo.

È poi necessario riflettere sul fatto che Romanoff fosse particolarmente attento, secondo quanto peraltro rilevato da Patrizia Veroli285, agli aspetti più squisitamente pantomimici della coreografia: non solo significativamente definito dai cronisti come interprete «caratteristico», infatti, Romanoff si trova anche a mettere in scena, durante la sua collaborazione con il Teatro Reale dell’Opera, soggetti comici, popolareschi e grotteschi, i quali, come emerge da cronache e libretti, necessitavano di un non trascurabile grado di caratterizzazione espressiva.

La presenza di una coreografia capace di trasformare efficacemente in azione danzata lo spunto tematico e narrativo contenuto nel libretto costituisce un requisito tanto implicitamente condiviso quanto fortemente presente nelle cronache di questi anni286, soprattutto in ragione della sostanziale estraneità dei cronisti italiani rispetto a quelle esperienze di danza, spesso definite in termini di sinfonismo coreografico, che tentavano di emanciparsi dalla necessità di tradurre in movimento un determinato soggetto di partenza per ispirarsi, al contrario, solo alle suggestioni provenienti dalla componente musicale. Se dunque il ballo teatrale viene concepito, secondo quanto abbiamo peraltro già visto, come traduzione visiva di un’azione ideata preventivamente e incastonata nella preziosa diade musica-libretto, la dimensione più strettamente interpretativa di una simile trasposizione coreografica non può che essere particolarmente cara ai cronisti, i quali non mancano di rilevare i casi in cui essa non si dimostri all’altezza della situazione.A proposito del ballo

Volti la lanterna287 (1934), ad esempio, il già citato Raffaello De Rensis segnala come la

285 Veroli, Patrizia, Coreografare la patria perduta. Boris Romanoff in Italia, cit.

286 Emblematiche di questa sorta di appello alla ricerca di una coerenza fra le diverse componenti dello

spettacolo coreografico sono ad esempio le seguenti considerazioni comparse su «Il Lavoro Fascista» all’indomani del debutto del ballo «Madonna purità» (azione coreografica di Vittorio Minnuzzi, musica di Annibale Bizzelli, coreografie di Boris Romanoff; 1934): «Si tratta di una fantasticheria coreografica sopra uno spunto che sta fra il filosofico e il morale: convinti come siamo che il balletto deve essere la traduzione plastica di argomenti che alla plastica sono specialmente adatti a noi sembra che, come balletto, “Madonna Purità”non possa dirsi riuscito: le figure e le persone oltre a non essere concepite con senso dinamico, mancano di quel tanto di necessario che può dare loro il minimo di chiarezza indispensabile. Le danze si succedono senza riuscire a tradurre nel movimento il concetto che è alla base dell’azione. Gli è che le concezioni complesse e astratte male si prestano alla interpretazione della danza». (m.l., “Cena delle beffe” e “Madonna Purità” al

Teatro Reale dell’Opera, «Il Lavoro fascista», 13 aprile 1934) Ancora su questo punto, si veda quanto asserito

da Alberto Gasco sulle colonne de «La Tribuna» sempre a proposito di «Madonna Purità»: «La coreografia del Romanoff ci è parsa un po’ troppo indipendente dal soggetto del ballo, sì da renderlo quasi del tutto incomprensibile». (Gasco, Alberto, La “Cena delle beffe” di U. Giordano e “Madonna Purità” di A. Bizzelli, «La Tribuna», 13 aprile 1934).

287 «Scene della ‘Roma sparita’ in tre quadri e due intermezzi» di Emidio Mucci per la musica di Ezio