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Alla ricerca di forme nuove: gli Anni Venti e il balletto italiano

Inevitabili frontiere: noi e gli altr

2.2 Balli e ballett

2.2.3 Alla ricerca di forme nuove: gli Anni Venti e il balletto italiano

Gli anni successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale vedono, in Italia, una lieve e stentata ripresa, quantomeno all’interno dei principali enti lirici della penisola come Il Teatro alla Scala di Milano e il Teatro Costanzi di Roma, delle attività produttive connesse allo spettacolo coreografico218: da un lato irreparabilmente scosso dal fenomeno russo e, dall’altro, non ancora entrato significativamente in contatto con alcuni degli esponenti della cosiddetta danza libera, il ballo teatrale italiano dei primi Anni Venti tenta di percorrere nuove strade che, seppur timidamente e senza risultati effettivamente duraturi, mirano all’individuazione di rinnovate formule spettacolari da contrapporre alle numerose influenze straniere che, come si rilevava da più parti, avevano massicciamente minato le ormai indebolite basi dell’attività ballettistica italiana.

Parallelamente a una simile condizione, il panorama della stampa italiana – che, come si è già detto, proprio in questi anni attraversa un autentico processo di modernizzazione – accoglie non solo, come vedremo, elzeviri e articoli culturali genericamente dedicati alla danza (per quanto, in verità, prevalentemente legati a tendenze coreiche di stampo modernista, di certo ritenute più singolari e accattivanti agli occhi del lettore), ma mostra altresì delle cronache di spettacolo ormai quasi sempre affidate a veri e propri critici musicali e caratterizzate, rispetto all’esegesi della partitura, dalla ricerca di una sempre maggiore densità contenutistica e argomentativa.

Si spiegherebbe anche così l’attenzione massiccia riservata dalle cronache di questo periodo alle musiche degli spettacoli di ballo, le quali, infatti, divengono oggetto di una trattazione ampia e dettagliata, sovente sostenuta, come emerge da alcune recensioni in esame, dalla preventiva lettura dello spartito: i cronisti di questo periodo, quasi sempre vantando un passato da musicisti e non di rado coinvolti in incarichi ufficiali connessi al mondo della musica, sembrano voler fare sfoggio delle proprie competenze in materia firmando dei contributi in cui le argomentazioni relative alla partitura musicale occupano quasi l’intero spazio a disposizione, riservando così solo poche righe alle considerazioni sull’allestimento e, soprattutto, sulla danza.

218 La danza era tuttavia sempre presente sotto forma di intermezzo nelle opere liriche, per le quali, almeno nei

teatri principali, si scritturavano i danzatori di cui c’era effettivo bisogno anche se non si era in possesso di un vero e proprio corpo di ballo.

Esistono però, indipendentemente dal peso esercitato dal profilo biografico dei cronisti, almeno altri due ordini di motivi alla base della soverchia attenzione riservata alla musica nelle cronache dei balli teatrali di questi anni, il primo connesso alle modalità di esercizio del mestiere giornalistico, il secondo legato invece a quell’ormai più volte menzionato pregiudizio nei confronti dell’arte della danza che, in questo genere di discorsi, conduce a una vera e propria gerarchizzazione delle componenti della scena e, conseguentemente, dello sguardo che a esse si rivolge.

Al livello delle pratiche legate al mestiere del cronista, infatti, è noto come in questo periodo (e in verità ancora per parecchi anni) le cronache di spettacolo, musicali come teatrali, vengano pubblicate il giorno immediatamente successivo alla “prima”, il che lascerebbe presupporre, specie nei casi in cui la stampa non era ammessa alla prova generale, che il cronista dovesse studiare preventivamente la partitura dello spettacolo affinché, una volta terminata la rappresentazione, potesse rapidamente redigere un articolo su di essa. Si può allora pensare, secondo quanto è stato peraltro rilevato anche a proposito della critica teatrale primonovecentesca, che nelle cronache di ballo i paragrafi relativi alla musica (i quali, non a caso, occupano spesso la prima parte del pezzo) venissero in realtà stesi prima della visione dello spettacolo, in seguito alla quale non restava al cronista che inserire poche note relative all’allestimento, all’esecuzione (termine-chiave, sul quale torneremo) e alle accoglienze del pubblico (aspetto quest’ultimo che, come abbiamo visto, costituisce il cuore della cronaca stessa).

In termini di scelte concettuali e, soprattutto, di modalità di esercizio dello sguardo, l’attenzione massiccia riservata alla componente musicale anche dinanzi alla messa in scena di opere coreografiche (che dunque nell’azione danzata, per quanto spesso inscindibile dalla musica, trovano la propria ragion d’essere oltre che il principale motivo di fascinazione), sembra sottintendere un modo di concepire il ballo teatrale non tanto un organismo in cui diverse componenti (musicali, coreografiche, scenografiche, ecc.) collaborano alla creazione di un tutto coerentemente articolato, quanto come esteriorizzazione, visualizzazione e, non da ultimo, esecuzione di una partitura musicale che coinvolge non solo il piano della

performance orchestrale ma anche quello della danza, della scenografia, del costume.

Ne deriva non solo una sorta di attitudine gerarchizzante che tende a cogliere e a trattare approfonditamente solo le componenti spettacolari considerate più nobili ed esteticamente rilevanti, ma ne discende anche una specie di sbriciolamento dell’identità stessa dello spettacolo di ballo: se nelle cronache è la musica a essere posta in primo piano a tutto svantaggio della componente coreica, qual è il concetto di “opera” che da questo tipo di

argomentazioni finisce per emergere? Dove è possibile rintracciare, detto altrimenti, l’“opera” coreografica, nella musica o nella sua esecuzione? Da questa specie di spaccatura fra musica ed esecuzione della stessa, trapela chiaramente un pregiudizio nei riguardi della danza in virtù del quale, ancora una volta in stretta analogia con quanto negli stessi accade in ambito teatrale, è ciò che di uno spettacolo coreografico rimane (la partitura) a essere fregiato del crisma dell’arte e a divenire oggetto di una trattazione seria, consapevole e, spesso, collocata in una prospettiva tendente alla comparazione e alla storicizzazione delle differenti occorrenze spettacolari nel tempo incontrate.

Dal complesso di tali atteggiamenti prende corpo una sorta di “cronaca-tipo” che, spesso accomunando testate fra loro anche molto diverse, mostra una struttura sostanzialmente ricorrente, in cui, all’ampia disamina della componente musicale, si aggiungono sia le indicazioni relative alle reazioni del pubblico (poste di solito in apertura o, come dicevamo, in chiusura del pezzo) sia, ma quasi sempre in ultima battuta, i commenti sull’aspetto coreografico e scenografico.

Ciò che vale tuttavia la pena di rilevare immediatamente è che una simile organizzazione contenutistica, dotata peraltro del non trascurabile merito di conferire anche una sorta di (evidentemente discutibile) identità tematico-stilistica alla cronaca di spettacolo, non costituisce comunque uno schema rigidamente immutabile: slittamenti e rimodulazioni, come vedremo, sono infatti piuttosto frequenti, per quanto ci pare si leghino quasi sempre iniziative individuali e non a una tendenza solidamente diffusa.

Se, in linea generale, possiamo infatti dire che nel corso del decennio sono spesso le testate romane a offrire i contributi più eccentrici soprattutto rispetto a quelle di area milanese, ci sembra che l’adozione di una maggiore libertà in rapporto al prototipo di cronaca che abbiamo appena visto discenda per lo più dall’intraprendenza dei singoli cronisti che, talvolta con coraggio, tentano di ridiscutere modalità e formati diffusi per condurre un discorso sulla danza personale e, a volte, teso a gettare uno sguardo problematizzante sul presente.

Un chiaro esempio di simile attitudine si ha nella ricca cronaca che, sul quotidiano romano «La Tribuna»», Alberto Gasco219, senza dubbio la figura più interessante di questo decennio,

219 Di origine napoletana, Alberto Gasco (1879-1939), critico del quotidiano romano «La Tribuna» a partire dal

1911, è stato anche autore di musica teatrale, sinfonica e da camera. Molti dei suoi interessanti e competenti contributi sono stati riediti in Da Cimarosa a Stravinsky. Celebrazioni. Critica spicciola. Interviste. (Roma, De Santis, 1939). Così lo descrive Adriano Lualdi in Viaggio musicale in Italia (cit., p. 227): «Un ritratto di Filippo IV, del Velasquez (non quello in abito da cacciatore, con l’archibugio in mano e il cane accanto, che sarebbe così perfetto di attributi, per un critico; ma quello a mezzo busto, dove la testa balza dal vassoio candido e rigido della baverina inamidata) potrebbe essere, fatta eccezione per la bazza, la sua caricatura. Giudica e manda – dalla tribuna della Tribuna – con tanta autorità e buona grazia che anche quando (ma è caso

dedica alla «commedia mimo-sinfonica» Il carillon magico220, andata in scena al Teatro Costanzi di Roma (dopo il debutto scaligero dell’anno precedente) nel marzo 1919. Nell’ampia introduzione che apre l’articolo, infatti, Gasco, invece di diffondersi subito, com’era consuetudine, in erudite considerazioni sulla musica appositamente creata da Riccardo Pick Mangiagalli, tende invece a compiere una panoramica generale dello stato dell’arte coreografica, il tutto muovendo da una decisa presa di posizione in favore di quella

modernizzazione del ballo teatrale che, sulla scia del ballo russo, gli sembra ravvisabile

anche ne Il carillon magico:

Le nostre simpatie per le forme moderne dell’arte coreografico-musicale non datano da ieri. Ci trovammo fra i primi a segnalare l’importanza delle innovazioni arrecate dal Bakst e dal Fokine alla scenografia delle azioni mimico-danzate. E assai ci rallegrammo quando due anni or sono, la “Compagnia dei Balli Russi”, tornata al “Costanzi” dopo un primo semi- insuccesso, ebbe quella strepitosa e definitiva vittoria che tutti sanno. Il pubblico che già era rimasto indifferente e quasi inebetito vedendo Shéhérazade e Clèopatra (sic!), parve godere intensamente assistendo allo spettacolo semi-futurista del Soleil de nuit. I tempi erano ormai maturi e agli autori del Brahama e del Sieba si preparava una cremazione ingloriosa. Mancava tuttavia in Italia chi avesse il coraggio di mettere la fiaccola sotto al rogo già pronto. D’un tratto, dalla schiera dei giovani discreti e seriamente operosi è uscito Riccardo Pick Mangiagalli, agitando la fiaccola ardente. E la combustione dei vecchi idoli della coreografia macchinosa è incominciata. Il Carillon magico dà suoni vellutati che – pare

raro) scortica qualcheduno, mette la vittima nella tentazione di mandargli, con un brandello di pelle, un biglietto p.r. Della originaria Spagna conserva, oltre all’acconciatura del capo seicentesca, uno spirito di cavaliere del buon tempo antico che lo rende caro agli amici e amabile anche agli avversarii; della nativa Napoli un fervore d’ingegno che lo tiene sempre lontano dalla pedanteria; della Roma patria d’elezione, ha l’ottimismo accomodante. Vecchie leggende, quadri famosi, paesaggi di poesia gli ispirarono opere teatrali, e musiche sinfoniche e da camera. Carpaccio con La visione di S. Orsola, il Clitumno con le sue fonti cono stati, a questo assetato di romantici sogni e di poesia, buoni sorsi e dolci riposi».

220

Tenue e graziosa vicenda di maschere che, dipanandosi sapientemente attorno a svariate sequenze di pura danza, narra di una burla maliziosamente ordita da Colombina e Arlecchino ai danni di Pierrot e incentrata su un orologio a carillon spacciato come magico, questa «commedia mimo-sinfonica in un preambolo e in un atto» su musiche di Riccardo Pick-Mangiagalli va in scena per la prima volta al Teatro alla Scala il 19 settembre 1918 con Ettorina Mazzucchelli nei panni di Colombina e Cia Fornaroli in quelli di Pierrot. Il libretto della prima edizione di questo ballo conservato presso la Fornaroli Collection (Dance Division, New York Public Library for the Performing Arts, d’ora in poi DD-NYPLPA) riporta una dedica del compositore a Cia Fornaroli, interprete evidentemente sensibile e (stando anche alla documentazione fotografica custodita presso la biblioteca newyorkese) sicuramente intensa del malinconico personaggio di Pierrot. Scrive dunque Pick Mangiagalli: «A Colei che per prima animò il mio Pierrot di tutti i suoi sogni; alla buona e paziente Cia delle prove e alla squisitamente geniale Fornaroli della scena, come testimonianza d’affetto, di riconoscenza e d’ammirazione!Riccardo Pick-Mangiagalli, settembre 1918» [sottolineature nel testo]. Dopo il debutto, il fortunato ballo viene poi riprodotto in numerosi teatri italiani e stranieri. Oltre all’edizione romana del 1919 (con le coreografie di Raffaele Grassi e con Cia Fornaroli, Ileana Leonidoff ed Erminia Vignati rispettivamente nei panni di Colombina, Pierrot e Arlecchino), il ballo avrà un nuovo allestimento alla Scala nel 1925 (con le coreografie di Teresa Battaggi e, come protagoniste, Cia Fornaroli, Asa Pelasko e Placida Battaggi) e nel 1934 (sempre con le coreografie di Teresa Battaggi e con Attilia Radice, Nives Poli e Regina Colombo nei ruoli principali).

impossibile! – valgono come una squilla funerea per coloro che hanno lungamente tenuto le platee sotto il giogo di un’arte falsa e di gusto perverso. La cartapesta dorata non ingombrerà più d’ora innanzi i nostri palcoscenici: nè vedremo più il “primo ballerino” eseguire il famigerato “passo a due” con l’étoile, piroettando su di se stesso come una trottola insensata. Le evoluzioni della danza saranno rette da criteri di estetica pura e la mimica perderà quel carattere marionettistico che l’ha resa sino a ieri assolutamente ridicola. Inoltre, gli elementi pittorici e plastici nuovissimi daranno prestigio alla visione del poeta e la musica avrà nobiltà d’ideazione e ricchezza di svolgimento, come nei migliori poemi sinfonici d’oggidì. Ci rifiutiamo di credere che l’esempio del Carillon magico possa rimanere isolato. Una rondine non fa primavera: ben lo sappiamo. Però la vista di una rondine ci persuade a sperare nell’avvento della felice stagione. E appunto con questa speranza salutiamo gaiamente il maestro Pick Mangiagalli, che ha ricondotto a noi Colombina, Arlecchino e Pierrot su musiche fresche e snelle.221

Le parole di Gasco possono tuttavia agevolmente applicarsi anche ad altri balli dei primi Anni Venti che, debuttando sovente sulle scene scaligere per poi raggiungere quelle del Costanzi e di altri teatri lirici, sembrano costituire (non troppo differentemente da quanto rilevato a proposito del balletto Il Salice d’oro del 1914) una risposta italiana all’esempio del ballo russo, il quale, come si diceva, aveva reso manifesta l’urgenza, in Italia, di superare il mastodontico modello coreografico tardo ottocentesco per puntare risolutamente verso una formula spettacolare caratterizzata da un intreccio semplice (quando non infantile e favolistico) e coerente, da una musica delicata, leggera e meno roboante rispetto alle marce tutte colpi di grancassa del passato e, non da ultimo, da una danza meno insensatamente tecnica e capace di sussumere anche istanze di rappresentazione drammatica.

Ecco allora che, spinto dall’urgenza di mettere in luce la propria posizione all’interno di quella che percepisce come un’autentica contrapposizione fra «vecchia» e «nuova» coreografia, Gasco giunge a ridiscutere i moduli caratteristici della scrittura cronachistica, sebbene, come emerge dalla fine dell’articolo, non indugi certo né in ampie descrizioni della scena (se si eccettua il bel riferimento a una «luna ramata, paradossale, enorme, sospesa nel cielo tra le file degli alberelli civettuoli [che] costituisce un elemento decorativo di prim’ordine»222) né tantomeno dell’azione danzata, a proposito della quale si limita a sottolineare che

221

Gasco, Alberto, “Il carillon magico”, «La Tribuna», 13 aprile 1919.

Le masse hanno cercato di obliare i tradizionali atteggiamenti e di aristocratizzare il gesto e lo sgambetto. Cia Fornaroli, dolce sorridente figura femminile, danzatrice flessuosa, agilissima, ha composto la figura di “Colombina” con un’arte delicata. Assai eloquente nel suo mutismo la Leonidoff, da “Pierrot ” veramente innamorato e veramente infelice. La Vignati, sotto la maschera di “Arlecchino”, non avrebbe potuto essere più graziosa e birichina.223

Ciò che dunque maggiormente interessa in questo contributo è il rimando a una sorta di transizione, nelle pratiche del ballo teatrale italiano così come in quelle della cronaca, da un approccio di stampo tradizionale – teso, come abbiamo visto, alla ricerca dell’effetto visivo e della gioia degli occhi – a uno che, prendendo in carico l’ormai non più trascurabile lezione offerta dal ballo russo, va alla ricerca di una formula spettacolare organica, le cui componenti, cioè, non si giustappongono reciprocamente in modo arbitrario ma trovano, prima di tutto muovendo da musica e libretto, una propria coerenza interna. Anche sul piano specifico del movimento danzato, stando almeno alle allusioni contenute nelle cronache, si va incontro, in alcuni balli italiani dei primi Anni Venti, a qualche timido e forse non troppo consapevole cambiamento: sebbene la portata di simili mutamenti risulti difficilmente caratterizzabile e quantificabile con chiarezza, possiamo tuttavia ipotizzare che, per ciò che concerne il lavoro delle masse danzanti, si tenda a un alleggerimento dell’organico e a una semplificazione delle figurazioni, mentre, per quanto riguarda le prime parti (l’edizione romana de Il carillon magico mette significativamente a confronto, come già accennato, un’interprete di formazione scaligera come Cia Fornaroli224 e un’artista di certo meno forte sul piano della tecnica accademica come Ileana Leonidoff), ci sembra invece di poter porre l’accento sulla caratterizzazione espressiva dei personaggi principali.

Simili considerazioni debbono poi essere messe in relazione con il ben più complicato discorso, evidentemente non esauribile in questa sede, circa il livello tecnico dei corpi di ballo italiani in un momento storico che, come gli Anni Venti, mostra la quasi totale assenza di enti di formazione coreutica effettivamente all’altezza sia della grande tradizione italiana, sia, soprattutto, degli standard qualitativi che, anche sul versante tecnico, potevano invece essere rintracciati all’estero: come abbiamo già visto, infatti, nel 1917 chiude i battenti anche la Scuola di ballo del Teatro alla Scala (da sempre vivaio d’eccellenza nella

223 Ibidem.

224 Sulla danzatrice (peraltro allieva di Enrico Cecchetti), coreografa e didatta Lucia (detta Cia) Fornaroli

(1888-1955), di cui peraltro torneremo diffusamente a occuparci in queste pagine, si veda almeno il denso capitolo di Patrizia Veroli Cia Fornaroli e l’impossibile modernità del balletto italiano in Veroli, Patrizia,

formazione dei danzatori italiani) e non pochi anni trascorreranno, dopo la riapertura del 1921, prima che essa torni nuovamente a detenere la propria posizione di prestigio; valutazioni ancora diverse, poi, andrebbero condotte a proposito della Scuola del Teatro dell’Opera di Roma, che, attiva solo dal novembre del 1927 e caratterizzata – almeno per i primi dieci anni di attività – dal frequente avvicendamento di diversi maestri225, diverrà più volte oggetto di biasimo da parte dei cronisti che ne metteranno polemicamente in risalto le carenze tecniche.

Si comprende allora come la tendenza alla semplificazione delle figurazioni coreografiche cui accennano fugacemente le cronache, non rappresenti soltanto l’esito di un mutamento intervenuto nel gusto e nelle concezioni estetiche del tempo, ma costituisca anche una scelta parzialmente obbligata e dettata proprio dalla debolezza, sul piano tecnico, delle masse danzanti: alla luce di ciò, appare evidente come al ripensamento delle formule drammaturgico-musicali che caratterizza opere quali Il carillon magico non possa corrispondere quel raffinamento e, in generale, quell’avanzamento nel linguaggio e nella tecnica coreutica che, soli, avrebbero forse assicurato ad alcuni balli della prima metà degli Anni Venti un successo solido e sicuro cui in realtà, al di là delle buone accoglienze di volta in volta registrate, non riescono ad assurgere.

Un esito tiepido è, ad esempio, quello incontrato nel 1923 da Mahit226, andato in scena al Teatro alla Scala sempre con le musiche di Riccardo Pick-Mangiagalli. Ancora una volta, come nel caso de Il carillon magico, i cronisti sentono l’esigenza, nell’introdurre lo spettacolo, di stabilire dei rimandi al panorama coreico internazionale (partendo, ovviamente, dal riferimento al ballo russo)227 al fine di cogliere i tratti essenziali di una

225 Cfr. infra pp. 172–173.

226 «Novella mimo-sinfonica in due quadri», Mahit debutta al Teatro alla Scala il 20 marzo 1922 con le

coreografie di Cia Fornaroli e, nei ruoli principali, la stessa Fornaroli (Mahit, giovane e avvenente danzatrice), Carlo Farinetti (Sciarkin, anziano magistrato e marito di Mahit), Placida Battaggi (il principe Alisciar, amante di Mahit), Vincenzo Celli (la scimmia) ed Ettore Caorsi (il mulatto). La vivace vicenda di ambientazione orientaleggiante, con tanto di compravendita di gemme e stoffe preziose nel primo quadro e con la scena raffigurante una pittoresca piazza di mercato nel secondo, si sviluppa attorno a un intrigo ordito dalla giovane coppia Mahit-Alisciar ai danni del vecchio e brontolone Sciarkin al fine di farlo credere pazzo e di poter vivere indisturbati il proprio amore. Accogliendo molti moduli e stilemi del genere comico (l’«Ambrosiano» parlerà a tal proposito di «spirito più boccaccevole che orientale»; cfr. G. C. Paribeni (ma Giulio Cesare Paribeni),

Mahit, 21 marzo 1923), dalla burla attorno a cui ruota l’azione fino ai lazzi di interpreti mascherati da scimmie

danzanti e a ridicoli scambi di persona, il lavoro – stando chiaramente alle indicazioni di libretto e cronache – sembra voler fondere la componente più smaccatamente grottesca con la fascinosa eleganza delle danze