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1.4 Caratteri della presenza della danza nella stampa italiana del Ventennio

1.4.2 Cronaca e Critica

L’altro ambito a cui dobbiamo evidentemente guardare fin d’ora è rappresentato dalle cronache di spettacolo, che, come si diceva, costituiscono un’ampia parte del nostro corpus di fonti.

Urge prima tutto una precisazione di carattere terminologico, dacché, per tutto il periodo di cui ci occupiamo, si tenderà sostanzialmente a parlare di cronache e, quasi mai, di

recensioni.

Si tratta di un aspetto di non secondaria importanza, da cui è possibile trarre numerose considerazioni circa la natura e la funzione di simili testi.

Se, come abbiamo detto, è senza dubbio vero che le cronache trovano spesso posto all’interno della Terza pagina, non mancano tuttavia casi in cui, soprattutto dinanzi a ‘TerzÈ particolarmente ricche e articolate, le cronache di spettacolo si trovino a oscillare tra la seconda, la quarta o la quinta pagina (eccezion fatta, ovviamente, per le cronache che si riferiscono a debutti di spettacoli particolarmente rilevanti). Questo sta probabilmente a dimostrare che, in quella generale categorizzazione dei fatti e dei discorsi che determina l’organizzazione complessiva di un quotidiano, le cronache di spettacolo non rivestono lo stesso ruolo degli altri articoli di ‘Terza’: se, ad esempio, l’elzeviro costituisce lo spazio della divagazione culturale e, contemporaneamente, l’articolo di ‘Terza’ (generalmente di fondo e di ‘secondo taglio’) rappresenta invece il momento della riflessione e dell’approfondimento, la cronaca invece ha a che vedere con eventi transitori, spesso uguali a loro stessi, di cui si tende a fornire una testimonianza senza tentare l’elaborazione di un discorso dal respiro più ampio.

È in questo, ci pare, che risiede una delle differenze sostanziali fra l’atteggiamento nei confronti dello spettacolo coreico tenuto dai cronisti di questo periodo rispetto a quello che caratterizza i critici di anni più vicini a noi: non ha evidentemente troppo senso, nel periodo di cui ci occupiamo, riservare programmaticamente uno spazio alla recensione, dacché, evidentemente, l’attenzione di cronisti e lettori si concentra maggiormente sulla testimonianza di ciò che si è visto in scena e, soprattutto, sulle accoglienze che il pubblico ha voluto riservarvi.

Se, com’è noto, di cronaca si può parlare solo nella misura in cui esiste una notizia da riferire, ci pare che, nel nostro caso, essa sia rappresentata dalle reazioni degli spettatori dinanzi alle opere di volta in volta messe in scena.

Lo spettacolo ha avuto successo? Questa è la domanda che, dal nostro punto di vista,

costituisce la ragion d’essere delle cronache di spettacolo che analizzeremo: un simile interrogativo, infatti, non solo plasma la struttura interna dell’articolo (che, ovviamente, a questo aspetto deve necessariamente e, talvolta, prevalentemente riferirsi) ma, in un certo senso, modella anche il tipo di sguardo del cronista stesso, che rimane spesso solo dalla parte del pubblico senza dimostrare di entrare nelle logiche interne allo spettacolo.

Si consideri dunque, a riprova di ciò, che le cronache si aprono spesso con un riferimento generale al tipo di accoglienza del pubblico, sovente descritta con espressioni standardizzate come “fredda”, “calda”, “cordiale”, “simpatica”, e, dopo una ricognizione dei principali aspetti dello spettacolo, si chiudono di frequente con espressioni come “la cronaca registra” seguite dal numero di ‘chiamatÈ ad autori e interpreti.

A ciò si aggiunga inoltre la tendenza, peraltro riscontrabile già nelle cronache di fine Ottocento, alla menzione dei momenti dello spettacolo che godevano di maggiore successo, spesso coincidenti con i ballabili più vivaci e virtuosistici. Questa modalità di guardare lo spettacolo coreografico, soprattutto se si tratta di balletto, enucleandone scrupolosamente i passaggi maggiormente acclamati doveva essere particolarmente diffusa se, ad esempio, ancora nel 1929 sul «Corriere della sera» si scrive:

Posta nelle mani di tanti artisti eminenti per il loro gusto e la loro perizia, è naturale che l’azione dell’Adami sia divenuta il Casanova di tanti altri, rappresentato ieri, e che, spogliato dei minori quadri richiesti dall’azione mimica svolgente la trama e dalla tecnica scenica, abbia raccolto il maggior interesse del pubblico intorno al terzo quadro: La fantasia dell’oro, al sesto: La notte veneziana, e all’ultimo: Il Carnevale di Venezia.92

È proprio in una simile operazione di registrazione risiede la natura essenzialmente informativa delle cronache di spettacolo, le quali, fin dal titolo (quasi sempre caratterizzato dalla seguente struttura: Titolo dell’opera – Nome degli autori – Nome del teatro in cui lo spettacolo va in scena), denunciano il loro carattere fondamentalmente funzionale, lontano dunque (seppur con le dovute eccezioni) da qualsiasi ambizione letteraria e volontà di uscire dai limiti imposti dalla prassi di scrittura cronachistica.

Detto questo, è però evidente che, se la funzione di questi testi ne modella in profondità intendimenti e caratteri formali, essi tuttavia conservano sempre al loro interno degli spazi di manovra e di espressione individuali, riservando al cronista la possibilità di concentrarsi almeno su due aspetti che vale per ora la pena di nominare singolarmente: l’individuazione, nello spettacolo, di elementi di novità e, soprattutto, l’esercizio di quella che, per tutto il Ventennio, sarà definita come critica.

Se, come dicevamo, le cronache di spettacolo prendono le mosse dalla registrazione delle reazioni del pubblico (la notizia), esse prenderanno certamente più corpo e carattere se sarà

92

g.c. (ma Gaetano Cesari), Il Tabarro e Casanova a Venezia alla Scala, «Corriere della Sera», 20 gennaio 1929.

possibile, per il cronista, riferire più o meno fantasiosamente aspetti singolari e percepiti come nuovi.

Non ci interessano evidentemente i pur numerosi commenti di costume e gli aneddoti che a più riprese puntellano le cronache di danza (una tendenza, questa, deriva forse direttamente dai gazzettieri di fine Ottocento), ma intendiamo richiamare quei casi in cui i cronisti si soffermano con maggiore dovizia di particolari a descrivere le caratteristiche di coreografie e interpreti: si tratta, come dicevamo, di una tendenza minoritaria ma che, non casualmente, tende a manifestarsi in relazione ad artisti e compagnie di particolare rilievo e, soprattutto, percepiti come portatori di una proposta artistica diversa, eccentrica, talvolta rivoluzionaria. Cosa può voler dire questo? Possiamo forse rispondere rivolgendo ancora una volta lo sguardo alla semiotica e riflettendo sul fatto che, come ogni testo, anche le cronache di spettacolo presuppongono l’esistenza di quello che Umberto Eco ha definito come Lettore Modello93

Il Lettore Modello può essere definito soprattutto in relazione a due livelli semioticamente pertinenti: il livello cognitivo, o relativo al sapere, che presiede alle modalità interpretative e di attribuzione di senso al testo, e il livello passionale, relativo piuttosto al tipo di partecipazione con cui il testo suggerisce (o prescrive) di porsi di fronte a ciò che viene detto, proponendo posizioni di adesione, simpatia, o al contrario condanna, critica o indifferenza nei confronti di eventi e personaggi.94

La cronaca di uno spettacolo di danza, cioè, si rivolge a un tipo di lettore di cui presuppone gusti e conoscenze, ed è sulla base di una simile ipotesi che tenderà a considerare nuovi o

interessanti alcuni aspetti dell’azione scenica a discapito di altri.

Quest’ultima questione ci sembra di importanza capitale per tentare di ripensare, rinquadrandolo parzialmente, quel problema dell’afasia che abbiamo già visto connotare i testi giornalistici di questo periodo: si può infatti supporre che, talvolta, non ci si diffonda nella descrizione dell’azione danzata semplicemente perché si ritiene che essa non presenti elementi effettivamente originali e, di conseguenza, non ascrivibili nel novero delle conoscenze di cui si ritiene che i lettori, con ogni probabilità frequentatori di teatro, siano in possesso.

La storiografia della danza ha infatti più volte insistito, come si diceva, sul sostanziale immobilismo che connota, con non numerose eccezioni, la pratica coreica di tutta la prima

93

Cfr. Eco, Umberto, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1979.

metà del Novecento: ora, posto che un simile giudizio necessita di essere stemperato alla luce di una più consapevole opera di contestualizzazione, si può forse dire che, se non molti accadimenti degni di nota popolavano le scene del tempo, è certo che essi non potevano divenire oggetto di una trattazione che, come la cronaca, mirava proprio all’intercettazione del diverso, del singolare, dell’accattivante.

Non è allora un caso che le descrizioni meno approfondite riguardino proprio le danze più tradizionali, quindi sostanzialmente il balletto, che, in questa fase storica, non vanno incontro a un effettivo e vistoso rinnovamento del linguaggio coreico, al punto che si può supporre che i cronisti ritenessero sufficienti solo pochi aggettivi per evocare, nella mente degli lettori, alcune modalità di gestione del corpo in scena che si credeva fossero già ampiamente note.

Il ricorso a un’aggettivazione sintetica e fortemente allusiva diviene poi una necessità anche per un’altra ragione, ancora una volta di carattere squisitamente tecnico, vale a dire l’ampiezza degli spazi riservati alla cronaca.

Bisogna infatti tenere conto che, per tutto il periodo compreso fra gli Anni Venti e gli Anni Quaranta, le cronache di spettacolo in cui si faceva menzione di opere coreografiche erano spesso resoconti di serate composite, costituite, com’è noto, dall’opera lirica e dal balletto. Non è difficile comprendere come, all’interno di questo tipo di articoli, lo spazio per il balletto fosse sovente ridotto, dacché l’attenzione dei cronisti, quasi sempre a vario titolo esperti di musica, ricadeva essenzialmente sullo spettacolo operistico.

A ciò si aggiunga che, com’è facile immaginare, le cronache interamente consacrate alla danza potevano occupare, eccezion fatta per i casi di artisti o compagnie particolarmente blasonati, solo pochi paragrafi.

Da una simile situazione, che – è bene ripetere – poteva essere scompaginata in casi eccezionali, si può arguire come, fatta salva la già citata funzione informativa delle cronache, la sinteticità e l’allusività nella descrizione dello spettacolo divenissero una sorta di necessità: se, infatti, una cronaca doveva rendere conto prima di tutto del successo dello spettacolo e fornire alcune essenziali notizie su autori e interpreti, si capisce come i cronisti avessero ben poco spazio per sviluppare un discorso sulla danza ricco e organico. Sarebbe forse stata necessaria un’opera di negoziazione di simili spazi (ma chi avrebbe potuto condurla, se non un vero e proprio critico di danza, figura al tempo non ancora presente in Italia?) e, soprattutto, un modo diverso di guardare lo spettacolo oltre che, conseguentemente, di concepire le funzioni della cronaca: niente di tutto ciò accadde, quanto meno non in maniera rapida e risoluta.

Il problema della limitatezza degli spazi per la danza investe, a più livelli, anche la componente più squisitamente critica che, al di là degli intenti meramente informativi, ogni cronaca porta necessariamente con sé.

Non costituisce certo una novità asserire che la scelta stessa di attribuire una certa funzione a un testo e di privilegiare il trattamento di alcune questioni a discapito di altre costituisca, di per sé, un vero e proprio atto critico e che, in ultima analisi, la dicotomia cronaca-critica ha forse poca ragione d’esistere, poiché essa mira a contrapporre due aspetti che in realtà tendono a compenetrarsi vicendevolmente.

Intendiamo però insistere ancora su simile contrapposizione perché essa torna con frequenza nelle parole delle cronache che analizzeremo: a più riprese, infatti, i cronisti tendono a separare, nelle loro argomentazioni, il momento della cronaca e quello della critica, dichiarando, con non pochi vezzi retorici, che quest’ultimo aspetto è non soltanto quello più difficile da affrontare ma anche quello che, dato il poco spazio a disposizione, si dovrà necessariamente trattare solo per accenni.

La critica, insomma, viene presentata come la componente problematica, ma necessaria, del testo cronachistico, sia, come si diceva, perché essa richiede ampi spazi in cui riuscire ad articolarsi con agio, sia soprattutto perché implica il possesso di competenze specifiche sulla danza rispetto a cui in realtà i cronisti, ancora una volta ricorrendo a un escamotage sostanzialmente retorico, dichiarano spesso di avere ben poca familiarità.

Si legga, a titolo d’esempio, l’incipit della cronaca a uno spettacolo dei coniugi Sakharoff comparsa su «Il Tevere» il 17 aprile 1929:

Arrivati troppo tardi alle danze e ammessi ai teatri d’eccezione quando la lunghezza dei calzoni era stata definitivamente fissata in quella del paio precedente, una crassa ignoranza ci invade in materia. […] Una volta tanto, al posto di un vero giudizio il lettore verrà messo a parte della nostra povera sensibilità.95

Per essere giudicata (ravvisando così nella valutazione il fine ultimo della critica), la danza avrebbe dunque bisogno di passare al vaglio di soggetti competenti in materia, tanto che, come nel caso appena riportato, il cronista, oltre a constatare la sua impreparazione, non può che abbandonarsi sovente all’impressione e alla sensazione.

La critica di danza, detto altrimenti, viene così configurandosi come un’operazione definita ripetutamente per via negativa, mediante la reiterata constatazione di ciò che dovrebbe

essere, vale a dire la produzione di un giudizio estetico frutto di preparazione e studio

consapevoli, ma che, per mancanza di tempo e competenze, non può essere.

È tuttavia piuttosto evidente (e lo diverrà sempre più in seguito) che in verità, alla base di un simile atteggiamento, si collochi una specie di malcelata e spesso snobistica indifferenza da parte dei cronisti rispetto alla possibilità di acquisire quelle competenze che si considerano mancanti e di cimentarsi de visu con l’esperienza e l’interpretazione dello spettacolo coreico: come dimostrare pubblicamente, attraverso la scrittura, di voler condurre un discorso serio e consapevole su una pratica come la danza che faticava ancora nel vedersi riconosciuto il crisma dell’arte?

Si tratta, diremmo banalmente, proprio di un problema di tutela dell’immagine, a causa del quale i cronisti tendono generalmente a dichiarare la propria incompetenza in materia di danza al fine di sottolineare una sostanziale e voluta estraneità nei confronti di un ambito di cui, in ultima analisi, non valeva certo la pena di occuparsi.

Sembra dunque serpeggiare il timore che i pregiudizi legati alla danza possano proiettarsi di riflesso anche su quanti si trovano a occuparsi di essa in uno spazio pubblico e rappresentativo come quello della stampa: fortunatamente vedremo che un simile discorso presenta non poche eccezioni, ma vale la pena di tenerlo nella dovuta considerazione, dal momento che contribuisce a delineare quel complesso di condizioni produttive che abbiamo già visto essere centrale rispetto al nostro discorso.