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Inevitabili frontiere: noi e gli altr

2.2 Balli e ballett

2.2.2 Verso il Novecento

La sostanziale continuità fra Otto e Novecento che, come dicevamo in precedenza, connota sia le pratiche connesse alla danza classico-accademica italiana sia i discorsi giornalistici ad essa dedicati, può forse essere dovutamente apprezzata puntando lo sguardo, come cercheremo di fare in questo paragrafo, sull’attività coreografica di quello che, sul piano della messa in scena di spettacoli di ballo, rappresenta almeno fino al Primo Conflitto Mondiale il principale teatro italiano: la Scala.

La produzione giornalistica cui ci rifaremo tra breve, rinunciando ancora una volta a qualunque pretesa di esaustività, ruota infatti sostanzialmente attorno ai balli allestiti sulle scene scaligere dal 1900 al 1916, anno in cui, con la sospensione dell’attività coreica per la stagione ‘16-‘17 e l’immediatamente successiva chiusura della Scuola di Ballo, l’attività coreica del teatro milanese subisce una funesta battuta d’arresto.

L’intento di un simile attraversamento, pur nella sua parzialità, è quello di rintracciare le fila che mettono in connessione i discorsi di matrice tardo ottocentesca con quelli del ventennio fascista, il tutto muovendo dalla constatazione del quasi totale disinteresse che, allo stato attuale, la storiografia della danza ha rivolto ai primi anni del Novecento italiano. Dovendo quindi percorrere velocemente un terreno quasi del tutto inesplorato, ci è sembrato opportuno eleggere l’attività del Teatro alla Scala come principale punto di riferimento, non soltanto perché, negli anni di cui stiamo trattando, è da Milano che generalmente si diffondono i balli di maggior successo (quelli che, dunque, informano il gusto di pubblico e critica)184, ma anche perché è attorno al capoluogo lombardo che si muovono, all’inizio del

184 Sarebbe senza dubbio necessario, sebbene non ci sia possibile farlo qui, cercare di mettere opportunamente

in luce le diversità che, all’inizio del Novecento, caratterizzavano certamente le varie realtà teatrali italiane. Dagli studi fino ad oggi condotti ci si rende ad esempio conto della vivacità che, proprio in una fase di

secolo XX, le più interessanti e industriose imprese giornalistiche del tempo, a partire ovviamente dal «Corriere della sera» fino ad arrivare alle testate periodiche generaliste e, soprattutto, di settore, spesso legate, come si è già visto, agli interessi di editori musicali che a Milano avevano la propria sede operativa.

Poste dunque queste riserve, non si può introdurre il discorso sull’attività coreica scaligera di inizio Novecento senza rintracciare l’ininterrotta ripresa, almeno fino al 1903, di titoli del repertorio manzottiano185 (Sieba, 1900; Amor, 1902; Rolla, 1903), ai quali però, nello stesso arco temporale, si alternano riproduzioni di balli stranieri, sostanzialmente di area francese e tedesca, come Le scarpette rosse (1900), Sole e terra (1901), La sorgente (1901) e

Porcellana di Meissen (1903).

Nonostante infatti, come testimoniato da Carlo Gatti, siano i grandiosi allestimenti manzottiani a foraggiare i bilanci di stagioni liriche ben lontane dall’incontrare il favore del pubblico186, si va tuttavia diffondendo in questi stessi anni anche un certo snobismo, nel pubblico come nella critica, verso la spettacolarità colossale dei balli di Luigi Manzotti, il che, di lì a poco, avrebbe spinto alla ricerca di lavori stranieri meno fastosi ed eccessivi. È questa peraltro l’opinione di un commentatore del periodico «Il Teatro illustrato» che, nel 1908, si esprime nei seguenti termini:

Ma venne il Manzotti, e per fantasia e per senso d'arte superò tutti i suoi predecessori: il Rolla, il Pietro Micca, il Sieba sono ancor nel nostro pubblico! e l'Excelsior rappresenta il punto culminante della bella parabola, il non plus ultra di quello che l'arte della danza e della mimica, e gli effetti dÈ suoni, e le combinazioni delle luci possono esprimere. Fu un delirio, una apoteosi, cui portarono il loro validissimo contributo due eletti ingegni, l'Edel per i costumi, e il maestro Marenco per la musica.

Dopo vennero Amor e Sport; ma la fama del Manzotti non poteva salire più alto; anzi, era

indubbia difficoltà per la Scala, connotava invece l’attività del Teatro San Carlo di Napoli. Ben più di un accenno a questo, infatti, è dedicato da Patrizia Veroli nell’introduzione alle memorie, da lei curate, di Ettorina Mazzucchelli, una delle poche grandi interpreti di questo inizio del secolo che proprio sulle scene napoletane ebbe modo di conoscere i principali successi e di sperimentare l’attaccamento del pubblico partenopeo nei riguardi degli spettacoli coreografici. Si veda quindi a tal proposito Veroli, Patrizia, Ettorina Mazzucchelli,

“l’insuperabile diva della danza”, in Sasportes, José – Veroli, Patrizia, 1900-1950: alla ricerca dell'Ottocento perduto, «La Danza Italiana» (Quaderno 2), Roma, Bulzoni, 1999, pp. 49-83.

185 Luigi Manzotti morirà nel 1905. Perpetrando una modalità di lavoro già ampiamente diffusa nel corso del

secolo precedente, i suoi balli saranno iprodotti da coreografi che, nella quasi totalità dei casi, avevano preso parte alle edizioni originali in qualità di interpreti o che, comunque, erano stati collaboratori personali di Manzotti. Fino al 1905, tuttavia, le cronache segnalano che, accanto all’operato del riproduttore, di collocava quello di Manzotti, al quale evidentemente spettavano le decisioni in merito ai cambiamenti da apportare ai balli di volta in volta riproposti. Tra i riproduttori manzottiani di questi anni si ricordano Enrico Biancifiori (Sieba, 1900), Ettore Coppini (Amor, 1902; Rolla, 1903; Sport, 1906; Rosa d’amore, 1907) e Achille Coppini (Excelsior, 1910; Pietro Micca, 1911).

salita tant'alto, che si pensò se non era il caso di rovesciarla: e la critica, che aveva battuto le mani a queste due ultime creazioni, incominciò a dolersi di tanta luce, di tanto splendore, e si adattò all'infiltrazione straniera. Venne Silvia, venne Coppelia, venne La fata delle bambole, vennero le Nozze Slave, venne La Stampa; l'entusiasmo del pubblico si raffreddò sensibilmente; e il ballo perdette gran parte della sua importanza187.

La cosiddetta «infiltrazione straniera» non finirà certo per imporsi sul palcoscenico scaligero ma, seguendo le cronache di questi primi anni del secolo, ci sembra di poter ipotizzare che essa contribuisca a modificare non soltanto le modalità di riproduzione di balli già noti (soprattutto ovviamente quelli manzottiani), ma anche le caratteristiche delle nuove produzioni coreografiche.

Per quanto infatti rimanga abbastanza immutato e trasversale l’ampio ricorso agli effetti scenici, rispetto ai quali appaiono laconiche e al contempo preziosissime le allusioni lasciate dai cronisti 188, e sebbene la varietà e la vivacità di scene, movimenti e colori continuino a essere i caratteri maggiormente apprezzati nelle cronache di inizio secolo, ci sembra però che sia i balli grandi di stampo tardo ottocentesco sia le nuove produzioni (spesso tuttavia legate ai nomi di coreografi che proprio nel contesto del ballo grande di fino Ottocento si erano formati) vengano sempre più concepiti dalla cronaca in termini di féerie e

divertissements che, per quanto costantemente tesi alla ricerca dell’effetto sorprendente,

declinano tuttavia in maniera parzialmente mutata la grandiosità (e, talvolta, l’eccesso) che, come abbiamo già visto, caratterizzano molte produzioni coreografiche della seconda metà del secolo XIX.

Ecco allora che le già menzionate riproposizioni dei balli di Manzotti (a cui bisogna aggiungere almeno la messa in scena di Sport, 1906; Rosa d’amore, 1908 e Excelsior, 1910189) rivelano, nelle parole della cronaca, l’immagine di un ballo grande ormai privo di

187 Manelli, F., I balli alla Scala, «Il Teatro illustrato», anno IV, n. 5, 15-25 marzo 1908.

188 Si veda ad esempio la descrizione fornita dal cronista del «Corriere della sera» che, nel riferirsi al alcuni

passaggi del ballo Le scarpette rosse, dice: «La scena si allarga in tutta la sua ampiezza. Nel mezzo una fontana, sulle scalee del fondo numerose file di ballerine e corifee vestite di bianco: da una grotta escono a frotte le danzatrici. L’effetto conquista il pubblico che applaude ripetutamente. Un colpo di tam tam e d’improvviso siamo al buio; un altro colpo e il paesaggio torna alla luce tutto mutato. Neve e ghiaccio hanno sostituito i riflessi del caldo sole. Inutile dire che le danze riprendono e che sono nuovamente applaudite» (Cim., La Scala, «Corriere della sera», 9-10 marzo 1900). Alla rievocazione di fontane e subitanei abbassamenti delle luci sembra far eco, un anno dopo, la cronaca dedicata al ballo Sole e terra, in cui si allude alla presenza in scena di tanti alberi di Natale illuminati: «Si celebrano le feste dell’autunno, che un temporale interrompe, così che le ultime danze son fatte sotto gli ombrellini aperti. L’ultimo atto finalmente ci trasporta in una foresta incantata, della quale ogni pino si trasforma a un tratto in un albero di Natale inghirlandato, illuminato da mille fiammelle, carico di doni» (g. p., ma Giovanni Pozza, Scala, «Corriere della sera», 6-7 gennaio 1901).

189

Sulle caratteristiche di quest’ultimo allestimento si veda Pappacena, Flavia (a cura di), Excelsior.

alcuni dei connotati che gli appartenevano alla fine del secolo precedente: presentati tutti in forma ridotta190, infatti, gli allestimenti manzottiani devono ormai obbligatoriamente ovviare alla propria proverbiale lunghezza mediante la decisa soppressione dei quadri e degli episodi meno felici, il tutto per soddisfare le esigenze di un pubblico e di una critica che richiedono ormai velocità e scorrevolezza nell’azione e che, soprattutto, si mostrano sempre pronti a dichiarare la propria insoddisfazione non appena la macchina scenica mostrasse di rallentare il ritmo delle proprie fantasmagorie.

Ma cosa eliminare? Di quali aspetti le grandiose messe in scena manzottiane possono fare a meno? Non ci pare possibile, sulla base delle fonti attualmente in nostro possesso, rispondere con sicurezza a una simile questione, dacché nelle cronache finora reperite si fa solo un fugace accenno ai quadri e alle sequenze che di volta in volta si riteneva opportuno sopprimere. Tuttavia, stando anche alle informazioni relative ad altri spettacoli coreografici che tra breve incontreremo, possiamo ipotizzare che in generale, al di là delle peculiarità dei singoli allestimenti, sia la componente mimica quella destinata a subire le maggiori modifiche. In fondo, se si rammenta quanto sostenevamo anche nel paragrafo precedente a proposito della sostanziale insofferenza da parte di pubblico e cronisti nei confronti della mimica, e, soprattutto, se si considera il fatto che nelle cronache di inizio Novecento non si dedica alcun riferimento all’ormai peraltro ben noto nucleo narrativo dei balli di Manzotti (quello che, cioè, era proprio compito dei mimi illustrare al pubblico), si può forse non ritenere troppo peregrina l’ipotesi che in questi anni l’elemento mimico subisca una massiccia contrazione.

Ne deriverebbe, com’è facile immaginare, un progressivo oscuramento dei contenuti ideologizzanti (e ormai essenzialmente logori) che costituivano una delle cifre distintive dei balli manzottiani a tutto vantaggio di allestimenti che, ormai incapaci di trasformarsi come in passato in autentici eventi sociali e mediatici, tendono a essere sempre più palesemente disimpegnati, sbrigliati, veloci191 e tutti tesi all’esaltazione di una certa dimensione visiva che, come vedremo meglio fra breve, diviene sempre più centrale.

190 A proposito della riproposizione di Sieba (1901) si legge sul «Corriere della sera»: «Il coreografo Manzotti

ha modificato il suo lavoro in alcuni punti, riducendolo anche notevolmente nella durata – specie nelle ultime parti – e rimodernandone molti dettagli» (Anonimo, Scala, «Corriere della sera», 5-6 gennaio 1900). Analogamente su «Il Secolo», nel commentare la messa in scena di Amor (1902), si dice: «Abbiamo notato alcuni cambiamenti fatti al ballo; ad esempio il quadro in Grecia (le Arti Belle) venne accorciato di molto» (a. g., La Linda e l’Amor, «Il Secolo», 3-5 gennaio 1902).

191 «Cominciato alle 23.35 il ballo Amor finì alle ore 1.35; e durò adunque due ore precise; cioè, un po’ troppo;

e ciò non solo in causa della lunghezza intrinseca del ballo, ma anche in causa d’una certa lentezza, che speriamo veder sparire alle prossime rappresentazioni. Allora questa enorme coreografia moderna, potrà non solo apparire meno prolissa, ma ben anche a risparmiare al pubblico quell’invincibile senso di stanchezza da cui fu ieri oppresso e affaticato» (Anonimo, Scala, «Corriere della sera», 3-4 gennaio 1902).

Il passato glorioso dei balli di Manzotti costituiva comunque un precedente che difficilmente i cronisti di inizio Novecento possono ignorare. L’articolo di presentazione del ballo Amor pubblicato sul «Corriere della sera» del 3 gennaio 1902, ad esempio, offre al cronista lo spunto per rievocare il debutto scaligero del ballo (risalente al 1886) e lo straordinario clima d’attesa che intorno ad esso si era venuto a creare:

Il ballo “Amor” ebbe la sua prima rappresentazione la sera del 17 febbraio 1886. Tutti ricordiamo la febbrile impazienza colla quale fu atteso. Il concorso del pubblico nel teatro fu enorme. Parecchi spettatori, schiacciati, soffocati, svennero. Non si lasciò finire la rappresentazione del “Roberto il Diavolo”, che doveva precedere quella del ballo. La soverchia lunghezza dello spettacolo stancò l’attenzione e l’ammirazione.

Alcuni quadri furono entusiasticamente applauditi; altri non corrisposero alla grande aspettazione. Tuttavia l’”Amor” parve – ed era veramente – un non mai visto spettacolo coreografico e per la novità di alcuni ballabili e per lo sfarzo dei costumi, per la varietà degli effetti, per la grandiosità dei quadri scenici.192

Eppure il rimando al tempo passato serve spesso per marcare la differenza rispetto a un presente in cui, come si nota quasi unanimemente, sembra ormai essersi definitivamente spento l’entusiasmo delirante nei riguardi dei colossali spettacoli coreografici di Manzotti, dal momento che, secondo quanto dichiarato con estrema chiarezza da Giovanni Pozza a proposito della rappresentazione di Sport del 1906, «Ciò che piacque sette anni fa, oggi non piace più nello stesso modo»193.

Per quanto ridotti nelle dimensioni e ripetutamente sottoposti ad ammodernamenti di varia natura (si pensi, tanto per fare un esempio, all’introduzione di un’automobile nell’edizione del 1906 del ballo Sport194), i balli manzottiani hanno in definitiva perduto la capacità di indurre il pubblico al fanatismo195 e, divenuti sempre più oggetto di un apprezzamento discontinuo e altalenante, rimettono in campo, spingendola alle estreme conseguenze, quella modalità di fruizione dello spettacolo intermittente e tutta basata sulla sollecitazione

192 Anonimo, Scala, «Corriere della sera», 2-3 gennaio 1902.

193 g. p. (ma Giovanni Pozza), Scala, «Corriere della sera», 21 dicembre 1905. 194

Cfr. Anonimo, Nel regno delle danze – Il ballo "Sport" alla Scala, «Il Teatro illustrato», n.5, gennaio 1906.

195 Persino nei passaggi più riusciti, infatti, i cronisti sembrano rintracciare motivi di debolezza e, in genere, di

decadenza rispetto al passato: «Ma dove ci sembra che la messa in iscena (sic!) di ieri superi per isfarzo (sic!) quella della prima volta è nel trionfo di Cesare. Meglio di cinquecento persone – taluni fanno salire il numero addirittura a seicentocinquanta – si muovono sulla scena in falangi che fanno risorgere agli occhi dello spettatore la grandezza di Roma. E’ qualche cosa che non solo supera ciò che si può immaginare, ma finisce persino a stancare lo spirito. Staremmo per dire che è tutta una esagerazione di forme e proporzioni. Ma quando un artista non si sente più di poter dar vita al bello che innamora di sé chi ha buon gusto, allora crea il colossale che sbalordisce» (Cfr. a. g., La Linda e l’Amor, cit.)

percettiva che abbiamo già incontrato e che, accomunando pubblico e critica, informa non solo le coreografie dell’inizio del secolo ma anche le modalità di produzione discorsiva ad esse collegate.

Quella relazione di natura sensoriale, e in un certo senso retinica, con lo spettacolo coreografico di cui parlavamo già in precedenza – insieme a una specie di sguardo sulla scena sempre più allargato (quasi a tutto campo) e attento non tanto alle prodezze del singolo danzatore quanto al complesso degli effetti dinamici, scenotecnici, coloristici e sonori – anima infatti in profondità i discorsi giornalistici sulla danza di questi anni, riuscendo forse a manifestarsi meglio nel caso di quegli spettacoli, siano essi nuove produzioni o riproduzioni di opere già messe in scena all’estero, che vengono per la prima volta presentate al pubblico della Scala.

Se, come abbiamo sostenuto più volte, una cronaca di spettacolo fornisce delle indicazioni non solo sull’oggetto al quale si rivolge ma anche sul modo di percepirlo, di pensarlo e di volerlo, ci pare che, in questi primi anni del secolo XX, le cronache focalizzino il proprio interesse e, soprattutto, il proprio apprezzamento su quei balli capaci non tanto di mettere fastosamente in scena grandi contenuti ideologici per mezzo di allegorie largamente comprensibili, quanto di produrre visioni gradevoli all’occhio e figurazioni dinamiche sempre nuove, complesse e al tempo stesso precise, il tutto muovendo, però, da spunti tematici spesso esili e di carattere essenzialmente fantastico.

Perduto il loro esaltato riferimento al tempo presente (elemento questo che notoriamente caratterizzava opere-simbolo della fine dell’Ottocento come Excelsior) e rimasti orfani, come abbiamo già visto, della presenza di grandi dive della danza, i balli di inizio Novecento tendono vieppiù a configurarsi come pure fantasmagorie, caleidoscopi di forme e colori che, in perfetta analogia con lo strumento ottico al quale vengono sovente paragonati, trovano la ragione del proprio successo nella capacità di organizzare con inaspettata varietà e sfolgorante precisione geometrica i numerosi e variegati elementi della scena, prime fra tutti le masse danzanti.

Una sintesi pregevole di questa modalità di concepire lo spettacolo corografico si trova forse nell’ampio commento relativo al debutto del ballo Bacco e Gambrinus196 comparso sul

196 «Ballo in sei quadri» su versi di Gustavo Macchi e musiche di Romualdo Marenco, Bacco e Gambrinus

debutta alla Scala il 14 gennaio 1904. Le coreografie sono di Giovanni Pratesi e i costumi di Alfredo Edel. Il ballo – che fra incantevoli regge divine, birrerie brulicanti di chellerine e studenti e perfino esposizioni vinicole, narrava della competizione tra il dio del vino (Bacco) e quello della birra (Gambrino) per ottenere i favori di Venere – vede Cecilia Cerri (Cupido) ricoprire il principale ruolo danzante. Il personaggio di Venere è invece interpretato da Anita Grassi, mentre Bacco e Gambrino sono i mimi Antonio Monti ed Egidio Rossi.

periodico milanese «Musica e musicisti», continuazione della già citata «Gazzetta musicale di Milano» legata ancora una volta alla figura dell’editore Giulio Ricordi.

Nonostante la palese parzialità (peraltro le musiche del ballo, composte da Romualdo Marenco, sono pubblicate proprio da Casa Ricordi) e i fin troppo manifesti toni entusiastici, infatti, l’articolo, nell’atto stesso di esaltare forzosamente l’ultimo allestimento scaligero (il quale, tuttavia, doveva aver incontrato un effettivo favore nel pubblico se, oltre alle 30 repliche del 1904, sarebbe poi stato ripreso nel 1912, l’anno successivo, cioè, al passaggio di Michail Fokine e Ida Rubinstein a Milano), lascia trapelare quelli che dovevano essere, in quegli anni, i caratteri distintivi di uno spettacolo coreografico destinato al successo:

Giovedì, 14 gennaio, sull’inesauribile fonte d’ogni sortilegio ottico, sull’incomparabile piattaforma d’ogni rievocazione scenografica che è il palcoscenico della Scala, quei due allegrissimi numi compari che sono Bacco e Gambrinus ne fecero una delle loro, ne fecero questa volta una delle loro più grosse, più tipiche, più marchiane: attraverso l’ebbrezza della birra e del vino suscitarono un caleidoscopio di figurazioni, una visione a trasformazioni incessanti, un diorama d’atteggiamenti e di pose, una fantasmagoria di linee e di colori, una febbre di assidui movimenti che investiva persone e masse, scene e attrezzi, praticabili e macchine, trabiccoli, botole, culmini e baratri, e tutto questo con una rapidità, una varietà, una correttezza, una vivacità, una precisione nella mimica, nella danza, nei costumi, negli effetti di sfondo, di luce, di contrasto, che nelle fantasie degli spettatori finirono per comunicare la istessa (sic!) ebbrezza che costituisce l’essenza dei due protagonisti, Bacco e Gambrinus197.

Dall’idea del «sortilegio ottico» a quella della «fantasmagoria di linee e di colori», passando per il rimando a un «caleidoscopio di figurazioni» e a un «diorama d’atteggiamenti e di pose» , il brano tratteggia non solo l’immagine di uno spettacolo tutto incentrato sulla incessante manipolazione dello sguardo, ma fa emergere anche un approccio alla scena che vede il cronista andare alla costante ricerca di quella che già precedentemente definivamo come gioia degli occhi, attraverso visioni sempre sorprendenti, inaspettate, nuove.

Una vera e propria ansia di novità, che tuttavia non è tanto desiderio profondo di mutamento quanto febbre di diversivi, sorprese e varietà, permea larga parte delle cronache di spettacolo di questo periodo, ricordandoci come una simile frenesia per la meraviglia costituisca in verità il contraltare di una relazione teatrale in cui, come si riconosce da più parti, il ballo non riesce a ottenere che successi placidi e bonari, al massimo caldi ma mai entusiastici.

È a un simile stato di cose che allude per esempio Giovanni Pozza quando, nel commentare il debutto del ballo Sole e terra198 (riprodotto per la prima volta in Italia da Achille Coppini