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Inevitabili frontiere: noi e gli altr

2.1 Disegnare confin

Più volte, nel corso del capitolo precedente, abbiamo attinto a concetti e strumenti analitici desunti dalla semiotica della cultura per introdurre e motivare le scelte e le questioni che animano nel profondo questo lavoro.

Entrando ora nel merito delle visioni sulla danza prodotte dalla stampa italiana del ventennio fascista, vogliamo farvi di nuovo ricorso, dacché saranno ancora una volta alcune posizioni del semiotico Jurji Lotman a fornirci lo spunto per inquadrare il problema della presenza della danza nei discorsi giornalistici italiani tra gli Anni Venti e gli Anni Quaranta.

Cominceremo dunque ad attraversare la fitta, articolata e in molti punti sconnessa rete dei discorsi di argomento coreico oggetto della nostra analisi, chiedendoci innanzitutto quali fossero le etichette di genere che cronisti e commentatori erano soliti impiegare per pensare, leggere, descrivere e valutare le pratiche coreiche del proprio tempo: ci imbatteremo in tal modo in classificazioni sovente frettolose, empiriche e irriducibilmente connesse alle contingenze e al gusto dei singoli autori ma, al contempo, foriere di così preziosi suggerimenti da spingerci, come si vedrà, a modellare la nostra trattazione proprio sulla scorta di alcuni contributi che, pubblicati in un lasso di tempo indicativamente compreso tra il 1920 e il 1945, tentano una lettura ampia e sistematica del panorama coreico coevo proprio mediante il ricorso alla categoria analitico-interpretativa del genere.

In merito alla centralità di un simile strumento ermeneutico sia nel contesto degli studi scientifici sia rispetto all’esperienza concreta dello spettatore, è d’uopo ricordare almeno le acquisizioni raggiunte, in ambito teatrologico, dalla semiotica del teatro elaborata da Marco De Marinis.

In Semiotica del teatro, infatti, De Marinis ricorda che

[…] provvedendo la competenza del ricevente di schemi intertestuali e di sistemi di attese, [il genere, n.d.A] svolge un ruolo cruciale nel processo di comprensione e di interpretazione di un testo. […] Ogni occorrenza testuale, per (e nell’) essere compresa e interpretata (correttamente) deve essere (e di fatto è) ricondotta a un genere, a un più ampio sfondo intertestuale, sulla base di segnali/indizi, cotestuali e contestuali, più o meno esplicitamente prodotti dall’occorrenza in questione.103

L’individuazione del genere, dunque, costituisce un’operazione fondamentale e al contempo inevitabile (condotta letteralmente «di fatto»), capace non solo di plasmare nel profondo la

qualità della relazione teatrale, ma anche di contribuire alla delimitazione di un determinato orizzonte d’attesa nello spettatore, il quale, oltre a formulare ipotesi circa gli spettacoli con cui di volta in volta si confronta, giunge nel tempo ad acquisire anche una sempre maggiore familiarità con quelle classi di occorrenze spettacolari dotate di tratti comuni che, complessivamente considerate, gli consentono una visione più ampia e tendenzialmente

organizzata del contesto teatrale che lo circonda.

Simili considerazioni si innestano facilmente sul terreno del nostro lavoro, dal momento che, come vedremo sempre più nel dettaglio, quella del riconoscimento di un genere costituisce la mossa teorica fondativa della quasi totalità dei discorsi sulla danza che proveremo a indagare: non solo, infatti, riscontreremo la costante tendenza (specie nell’ambito delle cronache) a collocare la viva molteplicità della scena coreica all’interno di più ampie categorie di riferimento (quali il ballo italiano, il ballo russo, le danze classiche o il jazz), ma ci accorgeremo anche di come una simile spinta alla categorizzazione permei diffusamente anche elzeviri e divagazioni letterarie non necessariamente connesse alla visione dal vivo dello spettacolo di danza.

L’individuazione di una precisa tipologia di danza cui fare riferimento, detto altrimenti, sembra costituire, per gli autori di cui ci occupiamo, il primo passo per l’elaborazione di qualsiasi discorso attorno all’arte di Tersicore, dacché, come si dirà, la selezione di un genere a discapito di un altro apre non solo la via, sul piano teorico-analitico, all’impiego di un apparato concettuale determinato e di chiari riferimenti storici, ma, in termini più squisitamente espressivi, consente anche di usufruire di un lessico ben preciso.

In maniera non dissimile da quanto asserito da De Marinis a proposito delle cosiddette «etichette di genere», considerate come «vere e proprie “istruzioni per l’uso” a beneficio dei riceventi»104 e costituite da tutto l’insieme di indizi contestuali e metatestuali connessi allo spettacolo, ci pare che la delimitazione, a livello teorico e lessicale, di differenti generi coreici produca anche, in termini di morfologia del testo, il disseminarsi di numerosi riferimenti (dai titoli alla scelta della pagina, passando per la presenza di fotografie o di illustrazioni) che, oltre a facilitare il lettore nella comprensione del genere di volta in volta richiamato, consentono allo studioso di cogliere forse più pienamente il tipo di suggestioni, visioni e considerazioni originate dal fenomeno danza e successivamente plasmate nella pagina scritta.

È però opportuno rilevare come una simile tendenza alla classificazione non connoti certo solo l’ambito coreico, ma rimandi probabilmente a una ben più profonda e radicata dinamica

culturale di cui ha diffusamente trattato Jurji Lotman, che citavamo in apertura, in particolar modo per ciò che concerne il problema della delimitazione delle cosiddette frontiere culturali.

Sebbene, infatti, come peraltro abbiamo già visto in precedenza105, ogni cultura inizi a definire se stessa mediante la perimetrazione di uno spazio interno riconosciuto come

proprio e tendenzialmente ordinato, tuttavia, anche all’interno di simili confini, continuano

a operare senza posa spinte normative tendenti a indicare con sempre maggiore precisione sia ciò che appartiene a una data cultura sia la reciproca posizione dei suoi elementi costitutivi.

Bisogna quindi non solo ricordare, con Anna Maria Lorusso, che «non basta […] solo opporre una sfera interna, ordinata, a una sfera esterna, caotica» e che «Gli universi culturali, grazie alla loro organizzazione interna, ammettono delle possibilità ed escludono altre combinazioni, e le possibilità incluse vengono successivamente ordinate, organizzate»106, ma, facendo direttamente appello a Lotman, è essenziale tener presente quanto da lui asserito a proposito della semiosfera, vale a dire di quello “spazio semiotico” (peraltro immaginato in analogia con la biosfera, il tutto mediante il significativo e ampio ricorso a metafore di carattere organico) all’interno del quale si verificano i processi semiosici e la vita stessa della cultura:

[…] la semiosfera è circoscritta rispetto allo spazio che la circonda, che è extrasistematico e appartenente a un’altra sfera semiotica. Uno dei concetti fondamentali legati alla delimitazione semiotica è quello di confine. […] Come in matematica, dove si chiama confine l’insieme dei punti che appartengono nello stesso tempo allo spazio interno e a quello esterno, il cui confine semiotico è la somma dei «filtri» linguistici di traduzione.107

Ogni cultura, quindi, non solo delinea una sorta di proprio immaginario perimetro lungo il quale si collocano tutte le possibili istanze di traduzione e, più in generale, di relazione con l’esterno, ma, anche sul fronte interno, continua a manifestare un simile anelito alla definizione e, soprattutto, a nutrirsi della necessaria e inevitabile interazione fra quanto viene progressivamente diviso:

105 Cfr. infra, p. 41 e sgg.

106 Lorusso, Anna Maria, Semiotica della cultura, cit., p. 80. 107

Lotman, Jurji, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio, 1985, pp. 58–59.

Il punto da cui passa il confine di una cultura dipende così dalla posizione dell’osservatore. Questo problema è complicato dalla presenza obbligata dell’irregolarità interna, che è una legge dell’organizzazione della semiosfera. Lo spazio semiotico è costituito da strutture cellulari (e più spesso da alcune di esse) con un’organizzazione evidente e da un mondo semiotico più amorfo che gravita verso la periferia, nel quale sono immerse le strutture cellulari. Se una di queste strutture non si limita a raggiungere una posizione dominante ma arriva allo stadio dell’autodescrizione e individua un sistema di metalinguaggi con l’aiuto dei quali descrive se stessa e lo spazio periferico della semiosfera, allora al di sopra dell’irregolarità della carta semiotica reale si eleva il livello della sua unità ideale108.

Ben lungi dunque dal generare una statica situazione di ordine e omogeneità complessivi, l’instaurazione a più livelli di confini e frontiere rimanda piuttosto alla varietà delle dinamiche di interazione, contaminazione e scambio che animano internamente le culture e, al contempo, consentono loro di interfacciarsi con l’esterno.

Posto in questi termini, il problema delle frontiere diviene preziosa fonte di ispirazione per il nostro discorso, dacché esso ci fornisce degli utili grimaldelli interpretativi per interrogare non solo la questione del genere fin qui accennata, ma anche quella, connessa alla prima, del rapporto, chiaramente letto seguendo le modalità con cui esso emerge dalla stampa italiana del Ventennio, fra danza italiana e danze provenienti da altri Paesi.

L’ipotesi che vogliamo proporre in tal senso, infatti, consiste nel ritenere che, all’interno della produzione discorsiva testé evocata, vengano progressivamente configurandosi almeno tre fondamentali generi coreici, costituiti, da una parte, da quello che definiremo come ballo

italiano, collocato in posizione dominante e presentato come stabile, tradizionale e

comunemente riconosciuto, e, dall’altra seppur con caratteri differenti e per molti versi antitetici, il ballo russo e le cosiddette danze libere (o, come si vedrà, classiche).

Tutto il nostro discorso sulla presenza della danza nella stampa italiana tra gli Anni Venti e gli Anni Quaranta prende pertanto le mosse dall’individuazione – proveniente, si badi bene, direttamente dai testi, dei quali dunque adottiamo il punto di vista – di queste tre polarità (ballo italiano, ballo russo, danze libere), le quali, nel momento stesso in cui sembrano determinare confini precisi all’interno di un panorama irrimediabilmente variegato come quello delle pratiche coreiche, definiscono altresì le condizioni preliminari atte alla produzione di un discorso sulla danza tendente alla sistematicità e, soprattutto, capace di stabilire delle relazioni fra i territori di volta in volta delimitati.

Vale allora la pena di gettare rapidamente uno sguardo sulla complessiva configurazione di simili dinamiche relazionali (riservandoci ovviamente di approfondirle una a una nel prosieguo della trattazione), al fine di chiarire il quadro complessivo lungo il quale le considerazioni che svilupperemo d’ora in poi vanno a collocarsi.

La prima forma di relazione che, dunque, viene profilandosi nei discorsi giornalisti oggetto del nostro studio è quella che, coinvolgendo i primi due poli dei tre appena menzionati, mette in connessione ballo italiano e ballo russo.

Non si può più rimandare a questo punto una prima precisazione terminologica circa le due espressioni testé impiegate: posto che, come si è già detto, le scelte lessicali generalmente condotte nei testi che analizziamo denunciano chiaramente l’assenza di professionismo e specializzazione in fatto di danza che connota il giornalismo italiano primo novecentesco, possiamo tuttavia sostenere che se da un lato con l’espressione ballo italiano si tende essenzialmente a evocare, in maniera più volte olografica, un passato ottocentesco incarnato da figure, sovente citate e accostate in maniera casuale e imprecisa, quali quelle di Salvatore Viganò, Gaetano Goja, Luigi Manzotti, Maria Taglioni o Carlotta Grisi (giusto per citare i più noti), dall’altro lato parlando di ballo russo ci si riferisce, talvolta con una considerevole dose di ironie e scetticismi, a un universo composito e variegato, illuminato sì dalla stella dei

Ballets Russes di Sergej Diaghilev, ma popolato anche di danzatori solisti e piccole

compagnie che, cavalcando sostanzialmente l’onda di una moda fatta di esotici sperimentalismi, si rifanno all’esperienza diaghileviana con esiti spesso fragili e scarsamente innovatori.

Detto questo, è tuttavia evidente come nella prospettiva del discorso giornalistico queste due diverse tipologie di ballo, per quanto animate da intenti e specificità propri, presentino non poche assonanze: dalla comune matrice, pur con tutte le eccezioni ed eversioni del caso, nella tecnica classico-accademica all’impiego sapiente dei linguaggi della scena, passando per il riferimento a un soggetto spesso in forma narrativa e per una cura considerevole della dimensione visiva, ballo italiano e ballo russo finiscono infatti per essere percepiti e rielaborati discorsivamente come due differenti declinazioni, irriducibilmente antagoniste, di una medesima e quantomai fumosamente vagheggiata tradizione, vale a dire quella della danza teatrale (il cosiddetto “balletto”) di derivazione ottocentesca.

Dinanzi a questa tradizione, come si dirà meglio più avanti, la posizione assunta da giornalisti e intellettuali consiste sovente nell’assegnare all’Italia una posizione di assoluta preminenza, riconoscendole senza indugi il merito incontestabile di aver impresso il proprio marchio, attraverso il fulgido esempio offerto da coreografi e interpreti di prim’ordine, al

processo di definitiva consacrazione della danza classico-accademica del secolo XIX: di questa italianità della danza dell’Ottocento, allora, il ballo russo viene ripetutamente presentato come una sorta di diretta filiazione, specie mediante i costanti riferimenti, come diremo, all’influenza della scuola italiana (rappresentata soprattutto da Enrico Cecchetti) sulla nascita del suo linguaggio coreico e sulla formazione dei suoi principali interpreti. Emerge allora una sorta di revanchismo che, tanto annacquato quanto diffuso, impregna così profondamente i discorsi giornalistici sulla danza di epoca fascista da determinare sia l’inizialmente tiepida, quando non ostile, ricezione dei Ballets Russes (stemperatasi poi al punto di accogliere con entusiasmo molti degli epigoni e dei transfughi della compagine diaghileviana), sia quella strenua, retorica e (purtroppo) spesso posticcia difesa delle pratiche coreiche tradizionali che, pur fungendo da appello inesausto per il rinnovamento del

ballo italiano, non di rado nasconde uno sguardo sulla danza sostanzialmente superficiale e blasé, trincerato dietro il blasone della tradizione perché incapace, o non desideroso, di

relazionarsi al presente.

Entrambi questi atteggiamenti, peraltro ampiamente rilevati dalla letteratura scientifica sull’argomento, rappresentano però, dal punto di vista di chi scrive, solo l’aspetto più superficiale e vistoso di una produzione discorsiva che, come quella originata dal confronto fra ballo italiano e ballo russo, non solo mostra talvolta aperture inaspettate sollevando palesi istanze di mutamento nelle pratiche coreografiche tradizionali e producendo analisi lucidamente circostanziate sul presente, ma che, soprattutto, necessita di essere interrogata a partire dalla precisa individuazione degli elementi su cui, nella prospettiva delle fonti impiegate, si installa la differenza profonda fra queste due forme di spettacolo coreico. Quali componenti coreiche, drammaturgiche e sceniche, detto altrimenti, vengono percepite da cronisti e commentatori come costitutive dell’identità del ballo di tradizione italiana e, in particolare, tali da differenziarlo rispetto alle variegate e fascinose manifestazioni del ben più recente ballo russo? Su quali ambiti si costruisce questa polarità discorsiva che, nel tempo, sembra diventare una specie di vera e propria opposizione concettuale (oltre che estetica)?

Per provare a rispondere a simili interrogativi ci sembra opportuno fare riferimento alle posizioni assunte da José Sasportes in un saggio ormai ben noto109, nel quale, investigando le modalità con cui il ballo italiano di fine Ottocento, dopo il periodo romantico, riesce a reinventarsi e a concorrere con i fasti di uno spettacolo operistico sempre più imponente e

109 Cfr. Sasportes, José, Virtuosismo e spettacolarità. La risposta italiana alla decadenza del balletto romantico, in Morelli, Giovanni (a cura di), Tornando a “Stiffelio”, Firenze, Leo S. Olschki, 1987, pp. 303-

drammaturgicamente solido, lo studioso portoghese fa sostanzialmente riferimento a due elementi: il virtuosismo dei danzatori e la spettacolarità della scena complessivamente intesa.

Virtuosismo e spettacolarità rappresentano, ancora nelle visioni del giornalismo italiano del Ventennio, due punti di riferimento imprescindibili, ai quali si guarda, oltre che per glorificare la danza del passato celebrando la perizia degli interpreti e l’eccezionale fasto degli allestimenti, anche per rimarcare costantemente i tratti costitutivi dello spettacolo coreografico italiano: vero e proprio basso continuo dell’intero sviluppo ottocentesco del ballo italiano, la centralità della dimensione virtuosistico-spettacolare è talmente salda da fornire, ancora in pieno Novecento, i parametri di base per interpretare e valutare sia il ballo teatrale tout court sia, pertanto, la proposta ballettistica russa.

Posto dunque in questi termini il problema del confronto col ballo russo, ci si accorge innanzitutto di come, sul piano della performance coreutica, siano soprattutto le capacità

espressive degli interpreti russi a suggestionare i cronisti, i quali, in una evidente logica di

contrapposizione rispetto al tradizionale virtuosismo dei ballerini italiani110, designano spesso questi danzatori con l’appellativo di mimi.

Torneremo a interrogarci ampiamente sulla natura profonda e sui connotati di una pratica corporea che, come la mimica, era stata a lungo presente anche nel ballo di tradizione italiana e che, già a cavallo fra Otto e Novecento, era forse maggiormente fiorita su terreni diversi rispetto a quello della danza, come, ad esempio, quello del cinema muto. Per ora è tuttavia sufficiente sottolineare come, nelle parole dei giornalisti italiani dei primi decenni del Novecento, l’identità del ballo russo venga edificandosi prima di tutto attorno al riconoscimento di una distanza rispetto al virtuosismo coreutico fine a se stesso111, il quale,

110 Non mancano gli esempi di danzatori italiani d’eccezione, che, anche in tempo di entusiasmi per acrobazie e

virtuosismi, seppero distinguersi anche per le proprie capacità attoriche. Si pensi, su tutti, al caso di Virginia Zucchi, a proposito della quale Edoardo Boutet scrisse: «Virginia Zucchi appartiene alla scena coreografica: ballerina e mima. Ma quando la danza, quando la mimica si elevano a così meravigliosa efficacia d’interpretazione drammatica, contenuto e forma, non è più il caso di parlare di ballerine primarie o di primarie mime. Si deve ricorrere alle tradizioni gloriose della scena di prosa italiana, mettere il nome di Virginia Zucchi a canto di quello di Adelaide Ristori, di Giacinta Pezzana, di Adelaide Tesser, di Clementina Cazzola, di Fanny Sadowsky, di Eleonora Duse…». Cfr. Boutet, Edoardo, Le cronache drammatiche, Milano, Caramba, 1899, p. 109. Su questi aspetti connessi alla figura della danzatrice Virginia Zucchi si rimanda ai contributi di Concetta Lo Iacono: La carne, la vita e il diavolo: i libretti dei balli di Virginia Zucchi, in «La danza italiana», n. 4, 1986, pp. 59-83; Zuccheide. La technicienne Limido e la tragédienne Zucchi a confronto, in Poesio, Giannandrea – Pontremoli, Alessandro (a cura di), L’Italia e la danza. Storie e rappresentazioni, stili e

tecniche fra teatro, tradizioni popolari e società, Roma, Aracne, 2008, pp. 197-212. 111

Già nel 1911 sul quotidiano «L’Avanti», nel presentare la Compagnia diretta da Diaghilev in vista del suo debutto sulle scene del Teatro Costanzi, si scriveva che «E’ noto che l’arte scenica e musicale russa ha, per così dire, nobilitata la danza coreografica, rendendola elevata espressione di sentimenti ed di uno stile fatto di schiettezza nuova alla mimo-drammatica danzante». (Cfr. Anonimo, La Compagnia dei Balli Russi al

Costanzi, 7 maggio 1911). Vale tuttavia la pena di precisare fin d’ora come la scelta dell’appellativo di mimi

pur con tutti gli slittamenti e le eccezioni che vedremo, non poteva certo rappresentare il linguaggio corporeo privilegiato in uno spettacolo coreografico come quello russo, sicuramente più vicino al dramma che non alla danza e alla coreografia112 in senso stretto.

A tal proposito, e giusto a titolo di esempio, ci sembra interessante soffermarci su alcune considerazioni comparse già nel 1913 sulla rivista «Il Tirso» a proposito delle prime stagioni parigine dei Ballets Russes, le quali risultano perfettamente in linea rispetto alla riflessione fin qui condotta sulla contrapposizione, diremmo semplificando, tra virtuosismo (italiano) e mimica (russa):

Che cosa è il ballo russo che tanto successo ottiene a Parigi in questi giorni?

Un ritorno alle pure fonti della danza, di quella danza semplice, ingenua, pura, senza virtuosismi stupidi, senza acrobatismi e formole (sic!) di movimento rigorosamente fissate. Una formula d'arte rivive dopo il passaggio nefasto del virtuosismo fine a se stesso e si rivela umanamente.

La danzatrice russa [Ida Rubinstein, n.d.A] sa vivere una vita e vuol dimostrare che i movimenti svolgentesi nel tempo possono essere sufficiente mezzo di espressione artistica, possono scalpellare degnamente un carattere, una passione, uno stato psicologico come qualunque altra arte, sia essa pittura, musica, poesia. L'eloquenza del gesto, dell'espressione umana e divina della carne in corrispondenza intima ed organica con l'azione del dramma

Ballets Russes è evidente come, dinanzi a manifestazioni spettacolari presentate (come nel caso di Shéhérazade

e Cleopâtre) nei termini di drammi coreografici, i cronisti italiani tendano a impiegare un lessico – e, di conseguenza, delle categorie concettuali – diversi rispetto a quelli del ballo tradizionale.

112 In larga parte della stampa italiana del Primo Novecento questi due termini vengono presentati in contrasto

fra loro, intendendo per danza la capacità di eseguire sequenze di passi più o meno complessi e per coreografia la sapienza compositiva necessaria al coordinamento scenico delle grandi masse umane che, notoriamente,